The power of orange knickers (prima parte)

Jul 06, 2011 03:23


Titolo: The power of orange knickers
Personaggi: Oliver Baston, Percy Weasley, Charlie Weasley (cameo di altri personaggi vari ed eventuali)
Prompt: un gufo smarrito
Rating: NC17
Avvisi: pre-slash e slash, missing moments lungo tutta la saga di Harry Potter (e anche prima), POV alternati, vagamente angst in alcuni punti, lemon
Parole: 8.545 W (contatore)
Note: La storia ha partecipato al contest Red Slash Contest di miki_tr, classificandosi prima (*sviene*). Il giudizio, come al solito, alla fine ♥
Il titolo è lo stesso di una canzone di Tori Amos e Damien Rice (qui per chi volesse ascoltarla): non c’entra assolutamente niente con la fanfic, ma mi sembrava adatta perché, come questo pair, è totalmente insensata, dal mio punto di vista.
Tutti i riferimenti alla saga (la presenza di Charlie ad Hogwarts, il post-Hogwarts e tutto il resto) hanno come fonte il Lexicon. In caso di inesattezze la colpa è da imputare alla mancanza di informazioni nel sito. Non so se inserire OOC fra gli avvisi, perché di Percy e Oliver si vede sono una parte molto superficiale, che ho cercato di approfondire andando oltre lo stereotipo del “fissato di Quidditch” e del “secchione ambizioso e voltagabbana”. Spero d’esserci riuscita XD
Ah sì: vi prego! Se avete problemi con l'estetica di Percy, eccovi due esempio che spero ve lo renderanno meno sgradevole: piccolo Percy e piccoli Percy crescono





If this world makes you crazy
And you've taken all you can bear
You call me up
Because you know I'll be there

And I'll see your true colors
Shining through
I see your true colors
And that's why I love you
(True colors - Cindy Lauper)

Agosto 1998
Un invito a casa di Oliver non era una novità nella vita di Percy; da quando erano usciti da Hogwarts avevano continuato a sentirsi, in certi periodi molto spesso, in altri solo sporadicamente, troppo presi dai propri impegni. Non era niente di vincolante, quindi quei momenti di silenzio non causavano scompensi a nessuno dei due; c’erano ed avevano sempre fatto parte della loro bizzarra relazione.

Due tipi così diversi, si sarebbe detto, non avrebbero mai potuto legare; in effetti tutti lo pensavano e Percy stesso ogni tanto si domandava cosa lo portasse a scegliere sempre Oliver come confidente, quelle rare volte in cui sentiva il bisogno di un amico.

Perciò un invito a casa di Oliver non era una novità. Piuttosto lo era il fatto che lui accettasse, uscendo leggermente prima dal lavoro per andare a comprare qualche Burrobirra, e che, invece di prendere la solita strada verso casa, decidesse di prendere la Metropolvere per arrivare nell’appartamento di Oliver.

Lui lo aspettava seduto davanti al camino, l’espressione ridente e vagamente incredula.

“Sei venuto davvero!” esclamò, sorridendo divertito.

Ed era quello ad affascinarlo: il modo di ridere di Oliver l’aveva sempre colpito e quella costante, quel vago pungolo nel petto, lo tranquillizzò.

Settembre 1987: Primo Anno
“C’è un gufo smarrito nell’ultima carrozza del treno.”

Così aveva detto il ragazzino dai capelli rossi e un paio di improbabili occhiali più grandi della sua faccia; aveva spalancato la porta del compartimento senza troppo cerimonie, con una sicurezza ed una certa spocchia così poco adatte ad uno scricciolo tutto pelle, ossa e lentiggini.

Facendo scivolare lo sguardo alle sue spalle, però, Oliver si rese conto che, forse, tutta quell’arroganza era ben giustificata dalla presenza di un ragazzo più grande, con gli stessi capelli rossi, le stesse lentiggini, ma la stazza di un Battitore.

“Appartiene a qualcuno di voi?” domandò il ragazzino, scrutando tutti i presenti, al sicuro dietro i suoi grossi occhiali.

Oliver ci mise un po’ a realizzare che il gufo di cui parlava quel buffo ragazzo presuntuoso era probabilmente il suo.

“Ehm… penso sia il mio,” borbottò, alzandosi in piedi.

“Oh, meno male!” commentò il più grande, sorridendogli. L’undicenne si sentì in dovere di arrossire, e lo fece. “Andiamo, vieni con noi, ti portiamo a prenderlo.”

“Ok, grazie…” aveva biascicato, mentre gli altri ragazzi presenti lo rassicuravano di nuovo sul destino del suo gufo smarrito. Seguì i due - dovevano essere per forza fratelli - lungo il corridoio, diretti verso la fine del treno; l’irruenza del più piccolo gli aveva quasi fatto dimenticare tutta l’agitazione che fino a quel momento aveva provato per il suo gufo.

“Si dovrebbe avere più cura del proprio famiglio…” commentò proprio quello, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso, con presunzione. Oliver si accigliò, ma non disse niente, perché era intimidito dal fratello maggiore.

“Percy, piantala di fare il saputello,” lo rimbrottò proprio lui, dandogli uno schiaffo sulla nuca.

Il ragazzino - Percy - fece un lamento indignato, poi guardò il più grande con stizza. “Ma è vero, Charlie! Hermes non farebbe mai una cosa del genere. Non gli permetto mai di allontanarsi, quindi mi sta sempre vicino.”

“Hermes ti sta sempre vicino perché è un gufo fifone, Perce,” ridacchiò Charlie, aprendo l’ennesima porta per farli passare.

Oliver si ritrovò sul ballatoio alla fine del treno: il rumore delle rotaie era come un basso borbottio ed il paesaggio che scivolava sotto i suoi occhi era molto più montuoso e scozzese di quando erano partiti. Rannicchiato in un angolo del tettuccio c’era un piccolo gufo dal piumaggio marroncino ed il ragazzo sospirò in sollievo nel vederlo.

“Boccino! Vieni!” chiamò ed il volatile, dopo averlo guardato attentamente, volò giù, appollaiandosi sul suo braccio teso.

“L’hai chiamato davvero Boccino?” chiese Percy, con un’occhiata tra l’incredulo ed lo schifato.

Oliver annuì, sentendosi imbarazzato e al tempo stesso infastidito.

“Wow, deve piacerti molto il Quidditch, allora,” osservò Charlie, facendoli rientrare nel vagone.

“Sissignore! L’anno prossimo voglio provare ad entrare in squadra, gioco abbastanza bene come Portiere e mi piacerebbe tanto diventare capitano, un giorno,” sputò fuori Oliver, senza nemmeno respirare. Si rese conto solo dopo d’aver quasi gridato e, mentre Charlie lo guardava ridendo e Percy con aria sempre più disgustata, il ragazzino sentì le guance diventare rosse d’imbarazzo. “Beh, grazie per aver trovato il mio gufo,” balbettò. “Ehm, ci vediamo a scuola.”

Detto ciò, non aspettò che gli altri due lo salutassero, ma corse via lungo il corridoio stretto.

Ottobre 1988: Secondo Anno
“Mi hanno preso!” esclamò Oliver come prima cosa quando vide Percy quella sera. Si sedette accanto all’altro ragazzino, ancora in divisa da Quidditch e con le guance rosse per la corsa e l’eccitazione.

Percy sollevò a malapena lo sguardo dal grosso tomo dall’aria noiosa che stava consultando e poi alzò le spalle. “Congratulazioni,” mormorò, prima di tornare a qualsiasi cosa stesse leggendo.

“Oh, ma ci credi?! Sarò in squadra con tuo fratello!” proseguì del tutto incurante la giovane recluta della squadra di Quidditch di Grifondoro.

“Beh, mio fratello non è un patito del Quidditch… lui gioca perché si diverte,” puntualizzò Percy svogliatamente.

“Ma è eccezionale lo stesso! Cavolo, dovresti vederlo, Weasley.”

“È mio fratello, certo che l’ho visto,” rimbrottò Percy, aggrottando le ciglia per concentrarsi sulla lettura.

“Mi chiedo perché non sia già capitano! Ha un carisma eccezionale e poi, anche se eravamo molto nervosi e non ci conosce bene, ci ha incoraggiati tutti. Certo, non tutti erano buoni elementi, infatti molti sono stati scartati - alcuni anche del quinto anno! -, ma sono stato fortunato, perché c’era un altro candidato a Portiere, ma Charlie ha detto che io avevo più entusiasmo e così mi hanno preso,” disse Oliver tutto d’un fiato, le guance rosse per lo sforzo di parlare troppo a lungo senza respirare.

“Baston, tu non sei entusiasta. Tu sei proprio fissato,” commentò a mezza voce Percy, ma l’altro non lo sentì.

“Sai che forse giocherò già dalla prossima partita? Spero che non ci tocchino subito i Serpeverde, perché fanno il gioco sporco, anche se hanno un bravo Cercatore. Oh, certo, tuo fratello è più bravo, ma…”

“Sto cercando di studiare.”

“Verrai a vedere la mia prima partita?” chiese Oliver senza ascoltarlo.

Percy posò il libro, si risistemò gli occhiali sul naso e fece un’espressione annoiata e infastidita. “Non sono forse venuto a tutte le partite dell’anno scorso?” domandò e Oliver gli fece un sorriso a trentadue denti.

“Vado a farmi la doccia,” disse poi, alzandosi e allontanandosi fischiettando.

Il ragazzo con i capelli rossi sbuffò e scosse la testa, per poi tornare al suo libro Il Ministero della Magia, storia di un’Istituzione.

Dicembre 1989: Terzo anno
Oliver si sedette di slancio sul letto di Percy, mentre quest’ultimo era intento a preparare il baule per tornare a casa per le vacanze di Natale. Prima ancora che il Portiere della squadra di Quidditch potesse iniziare a parlare, l’altro gli lanciò un’occhiata sprezzante e poi tornò a fare la valigia.

L’altro ragazzo sedette per un po’, ammutolito e offeso, poi scrollò le spalle e prese dal comodino uno dei libri che di solito l’amico leggeva prima di addormentarsi.

“Perché leggi tutti questi libri sul Ministero?” chiese, aggrottando la fronte. Era difficile per lui capire cosa potesse esserci d’interessante in qualcosa di noioso come il Ministero della Magia; il Quidditch era più divertente ed entusiasmante, come diceva sempre il loro nuovo Capitano Charlie.

“Perché non t’impicci degli affari tuoi?” rispose invece Percy, senza guardarlo.

Oliver sospirò: perché Percy non era un po’ più alla mano, come suo fratello maggiore?

“Oh, andiamo, Weasley! Non mi dici mai niente di niente, tutto quello che so di te è perché me lo dice tuo fratello o perché ti guardo,” si lamentò Baston, chiudendo il libro con un tonfo e guardando la copertina di un noioso blu.

Percy rimase in silenzio per qualche istante prima di rispondere. “Che significa che mi guardi?” domandò confuso e vagamente infastidito.

Oliver si grattò la nuca, guardandolo con impaccio. “Beh,” iniziò, “è che non mi racconti mai niente, quindi… ti osservo. È come quando si guarda l’avversario sul campo da Quidditch per capire quali saranno le sue prossime volte, per studiarne la tattica, capisci?”

“Non fai altro che parlare di Quidditch,” si lagnò l’altro, alzando gli occhi al cielo con esasperazione.

Oliver, punto sul vivo, non si accorse che all’altro si erano arrossate le orecchie. “Beh, almeno io parlo di qualcosa!”

Percy sbuffò, poi si sedette sul letto e prese il libro. “La mia famiglia è molto numerosa,” cominciò a dire, come se stesse ripetendo una nozione di Trasfigurazione alla McGranitt. “Mio padre lavora per il Ministero e facciamo fatica ad arrivare a fine mese. E in più tutti lo trattano male. Voglio diventare Ministro e cambiare le cose,” sputò fuori, mentre le orecchie si facevano ancora più rosse e gli occhi fissavano a terra da dietro le lenti dei suoi occhiali.

L’altro ragazzino rimase in silenzio per un po’, fissandolo stordito. “Wow,” disse ammirato e vagamente imbarazzato, “ed io che voglio giocare a Quidditch per divertirmi.”

“Non devi dirlo a nessuno,” disse Percy in fretta.

“Cosa?”

“Non devi dirlo a nessuno: se i miei fratelli lo sapessero non la smetterebbero più di prendermi in giro. Più del solito,” brontolò, riferendosi alle battute che ogni tanto gli rivolgevano i due gemelli Weasley, arrivati quell’anno a scuola.

Oliver alzò le spalle e poi passò un braccio su quelle dell’altro. “Ehi! Abbiamo un segreto, tu ed io!” esclamò entusiasta.

Percy gli lanciò a malapena un’occhiata, prima di scrollarselo di dosso e tornare alle sue faccende.

Allora Oliver lo notò: anche il suo collo era rosso.

Ottobre 1990: Quarto Anno
“Perché mi ha fatto diventare capitano?”

A Percy quasi veniva da ridere davanti all’espressione sconvolta ed incredula di Oliver. Charlie l’aveva nominato nuovo Capitano della squadra di Quidditch realizzando il suo sogno infantile, ma soprattutto ottenendo così la riduzione delle sue responsabilità; Percy del resto sapeva che a suo fratello il Quidditch piaceva, sì, ma per lui era solo un passatempo e, dato che voleva andare a lavorare con i draghi, da qualche parte in Europa, doveva concentrarsi sugli studi per ottenere il massimo dei risultati nei MAGO.

“Forse si sentiva in colpa per non averci fatto vincere la Coppa nemmeno l’anno scorso,” borbottava intanto Baston, con lo sguardo accigliato e assorto di chi non sa proprio che pesci prendere.

“O forse ti ritiene più adatto al ruolo,” buttò lì Percy, senza pensarci troppo.

“Più adatto?” domandò l’altro, guardandolo come se gli fosse spuntata un’altra testa sul collo. “Ma Charlie è il miglior Cercatore di tutta Hogwarts! Potrebbe benissimo giocare in una squadra professionista, se solo lo volesse… Perché non vuole? Tutto quel talento sprecato per i draghi,” sospirò affranto.

Percy sinceramente non capiva tutto quell’accanimento per il Quidditch: gli piaceva, era uno sport che poteva essere avvincente, ma finita la partita il suo entusiasmo scemava. Non aveva mai capito la passione dei suoi fratelli per quello sport - persino Ginny, che era una bambina, lo trovava bello e voleva giocare con Ron e i gemelli quando organizzavano mini-partite nel cortile della Tana - e capiva ancora meno l’ossessione di Oliver.

Alzò le spalle con indifferenza e poi tornò alla sua cena.

“Non te ne rendi proprio conto, Weasley,” scosse la testa Baston, sempre più rattrappito sulla panca. Eppure era già alto e sotto i vestiti - che solo un anno prima gli cadevano grossi e gonfi sugli arti magri - si iniziavano ad intravedere delle forme un po’ più definite. Non era ancora muscoloso come Charlie, ma Percy poteva ben immaginare che lo sarebbe presto diventato.

“No, e nemmeno m’interessa, francamente,” borbottò, bevendo un sorso di succo di zucca.

“Come puoi dirlo? È tuo fratello e soprattutto è la tua Casa che si ritrova me come Capitano!” esclamò Oliver, sempre più esaltato e sconsolato allo stesso tempo.

“Senti, sei tu che non facevi che ripetere di voler diventare capitano. Bene, ora lo sei, congratulazioni e tutto il resto.”

L’altro sbatté le palpebre vagamente sconvolto, poi afferrò la forchetta ed iniziò a dare colpetti alle patate nel suo piatto, rimanendo in silenzio per il resto della cena.

Giugno 1991: Fine Quarto Anno
“C’eravamo quasi,” disse Oliver senza nemmeno provare a nascondere le lacrime.

Charlie lo guardava sorridendo divertito, appoggiato ad una delle colonnine di legno del suo letto a baldacchino. Percy osservava la scena con sguardo critico e infastidito. Quel pomeriggio c’era stata la finale e ovviamente Grifondoro aveva perso, dando la vittoria ai Serpeverde; ma ormai erano passate ore e Oliver ancora non la smetteva di piangere come un bambino a cui hanno rubato le caramelle.

“Ti rifarai l’anno prossimo, dai,” disse Charlie comprensivo.

“Ma tu? Era il tuo ultimo anno, la tua ultima possibilità! Come fai a rimanere così calmo?”

Il ragazzo più grande alzò le spalle. “Per me è sempre stato un passatempo, Baston, lo sai. Certo, mi rode un po’ che la Coppa sia andata anche quest’anno a quegli imbroglioni, ma pazienza, ormai è andata così,” spiegò, in modo piuttosto rilassato. Non sembrava davvero rosicare per la vittoria dei Serpeverde, notò Percy, ma evitò accuratamente di dirlo. “Di certo non risolverai nulla piangendo, Oliver,” aggiunse Charlie, dandogli un buffetto sulla testa e poi sbadigliando.

Oliver si asciugò le lacrime, accigliato, ma non disse niente quando il ragazzo più grande li salutò per andare a dormire - era ormai mezzanotte passata - raccomandando ad entrambi di fare lo stesso.

Percy s’infilò sotto le coperte, dando la buonanotte all’altro e ripassando mentalmente il suo programma di studio per il giorno seguente. Quasi non si accorse quando Oliver, ormai con la luce spenta, s’infilò nel suo baldacchino, chiudendo le tende e sedendosi ai piedi del suo letto.

“Come fa a non importargliene niente?” brontolò.

Il ragazzo con i capelli rossi sobbalzò ed accese la bacchetta, puntandola contro il compagno di stanza. “Ma sei scemo?! Basta con questa storia, voglio dormire!”

Baston s’imbronciò, ma non diede alcun segno di volersene andare. “Era il suo ultimo anno, la sua ultima occasione,” proseguì, come se Percy non avesse detto niente.

“Per l’ultima volta: Charlie non è un fissato del Quidditch come te. A Charlie piacciono le Creature Magiche, non le Pluffe,” brontolò infastidito l’altro.

“Ma è così bravo!” protestò l’altro, quasi disperato.

Percy lo fulminò con lo sguardo e poi incrociò le braccia. “Beh, sai che ti dico, Baston? Che mi hai veramente scocciato con le tue lagne! Il Quidditch è l’unica cosa che riesci a prendere seriamente e se gli altri non lo fanno ti sembra così assurdo da trovarli dei pazzi. Beh, a me il Quidditch non piace e sono stanco di sentirti parlare di quant’è bravo mio fratello. Lo so da me che Charlie è bravo, senza che tu me lo ricordi ogni momento della giornata. A nessuno importa più che la partita sia andata a finire male per noi, tu sei l’unico scemo che continua a piangere e a umiliarsi davanti a tutti!”

Oliver rimase in silenzio dopo quell’improvviso scoppio di rabbia; nonostante il tono fosse rimasto basso, per non disturbare ulteriormente i compagni di stanza, c’era così tanto astio nella voce dell’altro ragazzino che al Capitano della squadra venne quasi voglia di affatturarlo.

Covò l’offesa per qualche attimo prima di guardare l’altro dritto negli occhi - finalmente senza schermi, senza le lenti dei suoi occhiali a proteggerlo - e aggrottare la fronte in una smorfia dura. “Bene,” iniziò, mentre si alzava lentamente in piedi, “questo vuol dire che non devo più sopportarti, giusto?”

Percy sollevò le sopracciglia, perplesso. “Sono io che ho sopportato le tue -”

“Charlie mi aveva chiesto di esserti amico, perché sapeva che con la tua spocchia non saresti riuscito a fartene nemmeno qui ad Hogwarts. Ma visto che adesso lui va via e tu mi odi, posso anche smetterla. Buonanotte,” concluse, uscendo dalle tende chiuse e scomparendo dietro di esse con un fruscio.

Percy rimase a guardare il punto in cui era sparito; il cuore gli batteva in modo strano nel petto, quasi soffocandolo. Per un attimo pensò alle parole di Oliver e poi allo sguardo ferito che gli aveva lanciato; scosse la testa, passandosi una mano sul viso, poi spense la bacchetta e si stese sul materasso. Non aveva tempo per pensarci, aveva tanti programmi da rispettare per il giorno seguente. Non poteva pensarci, nonostante facesse male, giusto un po’.

Novembre 1991: Quinto Anno
“E così la McGranitt mi ha detto ‘Baston, ti ho trovato un Cercatore’ e mi sono trovato davanti il piccolo Harry Potter!” esclamò Oliver, ai compagni di stanza. Percy sbuffò, non potendo evitare di ascoltare per l’ennesima volta quella storia. Era dall’ora di pranzo che Baston non faceva che ripeterla a chiunque incontrasse, sempre con le stesse battute, ma non con meno entusiasmo.

“… e così gli ho detto ‘prova a prendere il Boccino’ e lui l’ha fatto!” disse Oliver, Percy che muoveva la bocca, scimmiottandolo.

“Ha veramente talento e soprattutto è nato per fare il Cercatore e stare su una scopa! È quasi meglio di Charlie Weasley, ma fra qualche anno lo sarà sicuramente!”

Percy alzò gli occhi al cielo, tornando a studiare gli astrusi concorsi che il Ministero proponeva ai giovani in carriera per entrare a lavorare nell’Istituzione. Forse era troppo presto per quello, ma del resto prima o poi avrebbe dovuto iniziare a preoccuparsene, nonostante ora fosse un Prefetto ed avesse decisamente meno tempo per studiare in pace; e probabilmente le sue responsabilità sarebbero state anche il doppio, dato che gli altri Prefetti erano tutti presi dalla grande novità d’avere Harry Potter nella loro stessa scuola. A Ron era già simpatico, ma poi a Ron piacevano tutte le persone famose e abbastanza gentili da offrirgli dei dolci - cosa che Potter aveva fatto sul treno per Hogwarts.

Anche lui era intrigato da questa novità - del resto Harry Potter era una specie di eroe per gran parte della popolazione magica -, ma proprio non capiva che senso avesse fare tanto baccano. Se poi a parlare era Baston il baccano automaticamente saliva esponenzialmente.

Chiuse il libro di scatto, con un tonfo che fece voltare tutti altri; Percy guardò Oliver dritto in faccia, con un cipiglio infastidito. “Ne hai ancora per molto?”

L’altro sembrò sorpreso e frastornato per un attimo, prima di ricambiare l’occhiata con la stessa smorfia irritata. “Ancora a giocare al Ministro, Weasley?” lo sbeffeggiò, prima di riuscire a trattenere la lingua. L’espressione tradita di Percy gli fece capire l’errore; l’altro ragazzo strinse gli occhi, gettando via il libro e alzandosi dal letto.

Per un folle momento Oliver pensò che stesse per lanciarsi contro di lui e picchiarlo, quindi tese i muscoli e si preparò ad afferrarlo e buttarlo all’indietro: Percy era la metà di lui, sarebbe riuscito a batterlo senza difficoltà.

Ma l’altro non gli andò contro, lo superò ed uscì dalla stanza, tra gli sguardi attoniti e vagamente divertiti degli altri compagni di stanza. Baston restò immobile al centro della camera per un attimo, poi corse a raggiungerlo, trovandolo appena alla base delle scale. Si lanciò in avanti, afferrandolo per le spalle e facendo cadere entrambi a terra,

La Sala Comune era vuota e le luci quasi totalmente spente, ma l’occhiata confusa e furente di Percy non gli sfuggì affatto.

“Che ti salta in mente, adesso? Sono un Prefetto, non puoi aggredirmi così e poi pensare di passarla liscia, Baston!” Sbraitò il ragazzo con i capelli rossi, dibattendosi per liberarsi dell’altro, che gli era caduto addosso.

“Beh, io sono Capitano della squadra di Quidditch! Siamo allo stesso livello, che ti piaccia o no,” ribatté quello, mettendosi a sedere e permettendo così all’altro di alzarsi.

Percy fece schioccare la lingua contro i denti, i pugni chiusi e tremanti di rabbia. “Stesso livello, non farmi ridere!”

“Qui funziona così, mettiti l’anima in pace e smettila di fare l’isterico.”

“Isterico? Io? Sei tu quello che va in giro da tutto il giorno a gridare come un pazzo di Harry Potter!”

“E tu che ne sai?”

“È impossibile non sentirti,” borbottò Percy, incrociando le braccia. “Fai un tale chiasso…”

Oliver strinse le labbra, ma non rispose nulla, perché non sapeva nemmeno quale fosse il problema in quello che aveva fatto, tranne, certo, per…

“Mi dispiace per aver detto quella cosa sul Ministero,” brontolò a testa bassa.

Percy lo guardò per qualche minuto senza dire niente, poi lo superò a grandi falcate, diretto di nuovo verso le scale. “Lascia perdere, sprechi fiato,” disse e quello sembrò chiudere la discussione definitivamente.

Marzo 1992: Metà Quinto Anno
Oliver vide Percy seduto su una delle panche del cortile, una pergamena sulle ginocchia ed un libro aperto davanti al naso. Era strano, perché di solito preferiva starsene rinchiuso nella sua stanza o in biblioteca, piuttosto che all’aperto; eppure non lo biasimava di certo, con quel bel tempo che sapeva già di primavera, perché del resto lui era uscito con la sua scopa esattamente per quello stesso motivo.

Strinse per un attimo il manico, indeciso sul da farsi, e sentì i guanti di cuoio scricchiolare mentre piegava le dita. Quello sembrò far svanire l’indecisione ed il ragazzo si avvicinò all’altro con passo sicuro, finché non gli fu davanti.

Percy sollevò lo sguardo, gli occhi stretti in concentrazione dietro le lenti degli occhiali. “Mi fai ombra, spostati,” gli disse, senza troppi convenevoli.

Oliver provò l’istinto di gridare, ma poi si lasciò cadere accanto a lui con un sospirò esasperato. “Mi vuoi spiegare perché fai così?” chiese, guardandolo sottecchi.

Percy sollevò le sopracciglia, con quel suo modo buffo e al contempo presuntuoso. “Che faccia tosta…” mormorò quasi incredulo.

“Cosa?”

“Sei una faccia tosta, Baston,” chiarì l’altro, stringendo la penna. “Dopo quasi un anno mi
vieni a chiedere perché faccio così?”

Oliver sbatté le palpebre senza capire. “Un anno da cosa?”

Il viso di Percy diventò improvvisamente rosso di rabbia e imbarazzo. Chinò la testa repentinamente, tornando alla sua pergamena senza aggiungere altro.

“Weasley, se non mi dici qual è il problema come posso risolverlo?”

“Che t’importa? Non sei mio amico, giusto?”

Un’ombra di comprensione attraversò gli occhi dell’altro. “Vuoi dire… Cioè, è per quello che ti ho detto su Charlie?”

Percy sollevò le braccia in un gesto esasperato. “E cosa altrimenti?”

“Ma io…” si bloccò, poi si schiarì la voce, arrossendo lievemente. “Non era vero,” confessò.

“Cosa?”

“Tuo fratello non mi ha mai detto una cosa del genere… Però in quel momento ero arrabbiato, perché mi avevi risposto in quel modo e quindi volevo ferirti come avevi fatto tu con me,” spiegò, grattandosi la nuca con la mano libera e sbirciando l’altro.

L’espressione sul viso di Percy era di puro sgomento, ma durò appena un attimo, perché subito dopo si trasformò ancora una volta in quel cipiglio offeso e infastidito che Oliver conosceva bene. Si sentì improvvisamente in colpa per avergli detto quella bugia cattiva, ma soprattutto per averla dimenticata, adducendo quei loro continui battibecchi al caratteraccio di Percy.

“Mi dispiace,” aggiunse a bassa voce, ma sapeva che non sarebbe servito a niente.

“Bene,” disse Percy infine, “adesso puoi anche andartene, no?”

Oliver strinse di nuovo il manico della scopa sentendosi talmente mortificato da dimenticare che cosa stava facendo. Lanciò un’occhiata all’altro, che lo guardava con sempre più fastidio e allora si alzò di scatto, brontolò di nuovo delle scuse e poi corse via, verso il campo di Quidditch.

Febbraio 1993: Sesto Anno
Penelope gli sedeva accanto mentre facevano i compiti di Incantesimi insieme. Dall’altra parte del tavolo, Oliver si teneva la testa fra le mani, scrivendo svogliatamente su un pezzo di pergamena; quando si accorse che lo guardava, alzò il viso verso di lui e arrossì leggermente, tornando poi ad abbassare la testa.

Percy lo scrutò ancora un po’ prima di tornare al libro, vagamente confuso dalla reazione dell’altro. Era una consuetudine ormai consolidata, anche se lui proprio non la capiva: Oliver faceva sempre in quel modo dall’inizio dell’anno, quando aveva ricominciato più o meno a parlargli, anche se evitava accuratamente di stargli intorno per troppo a lungo.

Non si spiegava quel comportamento e si domandava - cosa insolita per lui - se non fosse il caso di rimettere a posto le cose, in qualche modo. Ma poi gli impegni si sommavano e non ci pensava mai sul serio: non aveva tempo per il malumore di Baston, del resto.

“Weasley,” lo chiamò Oliver, appena dopo cena.

Si voltò risistemandosi gli occhiali sul naso, squadrandolo da capo a piedi. Come immaginava: stessi muscoli di suo fratello, anche se era decisamente più alto di Charlie e immensamente più stupido.

“Che vuoi?”

“Niente. Stai tornando al dormitorio?” domandò.

Percy sollevò un sopracciglio, prima di rispondere di sì.

“Niente, facciamo la stessa strada, quindi ho pensato, perché non farla insieme?”

L’altro scrollò le spalle incurante. “Fai come vuoi,” disse, riprendendo a camminare con passo spedito.

Oliver gli corse dietro per raggiungerlo, poi lo guardò sottecchi. “Mi sono sempre chiesto perché cammini in modo così nervoso,” affermò, geneticamente incapace di stare con la bocca chiusa.

“Risparmiati le chiacchiere, Baston,” rimbrottò Percy allungando il passo e salendo le scale.

“Non c’è bisogno di scappare, Weasley!” esclamò l’altro prendendolo per un braccio e saltando sui gradini appena prima che si muovessero.

“Perché dovrei farlo?” chiese il ragazzo con i capelli rossi, voltandosi di scatto verso di lui e trovandoselo improvvisamente vicino. “Che diamine fai?”

Oliver sbatté gli occhi, vagamente confuso, poi lo osservò per qualche momento, prima di chinarsi in avanti e sfilargli gli occhiali. Percy sentì le orecchie farsi calde, segno che era arrossito in modo piuttosto evidente, e si tirò indietro mentre l’altro non accennava a fare altrettanto.

“Ma sei completamente impazzito, Baston? Un Bolide ti ha colpito in testa ed hai perso tutte le rotelle, per caso? Hai -” ma non riuscì a concludere la frase - non sapeva nemmeno cosa stava dicendo esattamente - perché Oliver gli aveva premuto le labbra sulla bocca, in un gesto impacciato e incredibilmente stupido.

Lì per lì non si rese nemmeno conto che lo stava baciando, capì solo che era troppo vicino e che stava arrossendo ancora più di prima. Lo spinse indietro, facendogli quasi perdere l’equilibrio e gli sfilò gli occhiali di mano, correndo via nell’esatto momento in cui le scale tornarono in posizione.

Qualsiasi cosa fosse successa, era terribilmente imbarazzante.

Maggio 1994: Fine Settimo Anno
“Ehi, Caposcuola!” chiamò Oliver, arrivando sorridente. Avevano vinto la finale e lui non era semplicemente felice: era ubriaco di gioia. E probabilmente non solo di quello, visto che i gemelli avevano portato negli spogliatoi del Whiskey Incendiario per festeggiare. “Hai visto la partita?” domandò, fermandosi a pochi passi da Percy che lo guardò con la sua solita occhiata storta. Era colpa degli occhiali, come sapeva dall’anno prima, quando glieli aveva sfilati: anche quando Weasley faceva quell’occhiataccia non aveva un viso davvero cattivo. Sembrava più… un gufo. Un gufo smarrito, tipo.

“Certo che sì, complimenti,” disse, in tono monocorde.

Oliver non vi badò, mettendogli un braccio intorno alle spalle. “Allora,” iniziò, per poi perdere il filo del discorso, “uh, beh… che farai?”

“Come?”

“Che farai dopo scuola? Tenterai davvero d’entrare al Ministero?” domandò, perché nonostante avessero continuato a non parlarsi per più di anno, certe cose le ricordava ancora benissimo.

“Baston, se sei venuto qui appositamente per prendermi in giro, giuro che ti Schianto, e al diavolo l’essere Caposcuola!”

“Beh, tanto comunque perderai la carica fra pochi giorni,” osservò Oliver, stringendoselo di più contro. Percy gli diede una gomitata e l’altro lo mollò, ansimando per il dolore. “Allora?” domandò dopo un attimo, riprendendo fiato ed avvicinandosi di nuovo.

“Cosa?”

“Al Ministero, ci proverai?”

Percy lo squadrò da capo a piedi, gli occhi chiari contornati di ciglia rosse che lo studiavano con attenzione e disapprovazione. “Sì,” rispose alla fine, in tono asciutto, facendo ben capire che non aveva intenzione di parlarne ancora.

“Bene, spero che tu ce la faccia,” continuò Baston, tenendogli dietro, mentre vagavano per i corridoi della scuola; quasi tutti i Grifondoro si erano riuniti nella Sala Comune per festeggiare la vittoria e gli altri studenti erano ancora all’aperto, godendosi il bel tempo ed il fatto che i Dissennatori girassero alla larga dal campo da Quidditch.

L’altro gli lanciò un’occhiata scettica.

“Dico sul serio!”

“Ho studiato per questo,” borbottò Percy, fermandosi davanti alla porta del bagno dei Prefetti. “Beh, ora dovrei…”

“Oh, ti accompagno,” annuì Oliver senza pensarci, pronunciando la parola d’ordine ed entrando. “Dovrei fare una doccia, in effetti,” aggiunse, guardandosi la divisa sporca di erba e sudore con fare critico.

Percy lo seguì alzando gli occhi al cielo e chiudendo la porta; quando si voltò, Oliver si stava spogliando, mentre la vasca iniziava a riempirsi di acqua calda. “Ma sei scemo?!” gli chiese, sconvolto da tanta spudoratezza.

“Perché? Ti ho detto che devo lavarmi, no?”

“Ubriaco come sei rischi di affogarti nella vasca, cretino,” rimbrottò Percy, mentre gli occhiali gli si appannavano di vapore e la pelle pallida si arrossava.

Oliver si mise a ridere, poi gli si avvicinò e glieli tolse. “Sei buffo,” commentò ridacchiando.

L’altro strinse gli occhi - forse perché non vedeva bene, o forse perché era di nuovo arrabbiato - e fece per dire qualcosa. Poi lo fissò, accorgendosi che l’altro era completamente nudo e sobbalzò all’indietro, mentre il viso diventava ancora più rosso. “Ma che stai facendo?” chiese indignato, imbarazzato e del tutto incapace di non guardarlo.

“Mi piaci quando arrossisci,” gli disse Oliver senza alcuna soluzione di continuità. Poi successe qualcosa di inaspettato: Percy stava per gridargli ancora contro, ma Oliver lo afferrò per il polso e lo trascinò al bordo della vasca, buttandoli entrambi in acqua.

Riemersi in superficie seguì una breve lotta, condita con i più fantasiosi insulti che Percy riuscisse ad inventare, molti dei quali riguardavano il suo essere uno scimmione fissato con il Quidditch. A lui non interessava, in quel momento era talmente felice della vittoria appena conseguita e del fatto che l’altro lo insultasse, sì, ma che non lo ignorasse più, che non gli importava se gliene stava dicendo di tutti i colori. Si avvicinò a lui, mentre l’altro nuotava scompostamente verso il bordo, finché non lo raggiunse proprio un attimo prima che risalisse. Lo voltò e lo spinse contro la vasca, scorgendo nei suoi occhi più indignazione che paura, più paura che confusione; quando si chinò per baciarlo, gli tenne i polsi, memore dell’ultima volta che ci aveva provato - un anno prima, ormai.

La resistenza di Percy durò poco, giusto il tempo di mugugnare qualcosa contro la sua bocca e dargli così l’occasione di far scivolare la lingua nella sua.

Era incredibile, pensò Oliver piuttosto vagamente, mentre la sua testa sembrava riempirsi dello stesso vapore che li circondava. Lo baciò a lungo, lentamente, volendo assaporare il momento per intero; si tirò indietro solo quando l’altro iniziò a divincolare leggermente le mani per liberarsi dalla sua presa. Le lasciò, ma Percy non diede segno di volersene andare; aveva ancora l’espressione ribelle di sempre, ma i suoi occhi erano languidi e la sua bocca rossa.

Oliver gli prese il viso fra le mani, osservandolo attentamente: all’apparenza Percy non sembrava assomigliare a nessuno dei suoi fratelli, che erano tutti alti e robusti. Lui era gracile, sempre piegato sui libri, con le braccia secche e le gambe strette; i suoi occhiali gli coprivano metà della faccia e gli nascondevano il viso affilato e gli occhi azzurri, dal taglio molto simile a quello dei gemelli; aveva lo stesso naso di Charlie e la fronte ampia come lui. Non era sfacciatamente bello come lo erano gli altri, ma a guardarlo così da vicino Oliver si disse che non l’avrebbe cambiato con nessuno.

“Questo è… assolutamente inopportuno…” mormorò Percy, cercando di guardarlo male, ma riuscendo solo a fare una smorfia buffa. “Se Penny lo sapesse…”

“Non glielo dirà nessuno,” lo tranquillizzò l’altro, scostandogli i capelli bagnati dalla fronte.

“È inopportuno lo stesso,” protestò di nuovo il Caposcuola, ma non riuscì a dire altro, perché Oliver lo baciò ancora, e ancora, e ancora, finché a entrambi non sembrò d’essere diventati scemi a forza di baciarsi, a forza di toccarsi e sfiorarsi.

Le mani del capitano Grifondoro tiravano i vestiti di Percy, cercando di scoprirgli la pelle che sapeva essere molto pallida, ma che con l’acqua calda e l’imbarazzo stava diventando rossa un po’ ovunque. Seguì la linea del collo con le labbra, poi gli sbottonò la camicia e gli sfiorò il petto.

L’altro ragazzo lo spingeva via e poi lo tirava a sé in una lotta che sembrava più aver luogo dentro di lui, che tra loro; non resisteva alle carezze né ai baci, piuttosto si spingeva verso l’altro, con un cipiglio concentrato e le labbra che si aprivano morbidamente a esalare un sospiro ogni volta che i loro bacini si scontravano.

Oliver non sapeva esattamente cosa doveva fare, a quel punto, perché Percy era così imprevedibile nelle reazioni… Allungò una mano verso il basso, grato che la schiuma li coprisse entrambi, e gli sfregò piano il cavallo dei pantaloni tesi. Il ragazzo davanti a lui chiuse gli occhi e si morse le labbra, mentre le orecchie gli diventano paonazze; Oliver allungò la testa e gliele mordicchiò, mentre le mani ormai audaci sbottonavano i pantaloni e lo accarezzavano lentamente, la resistenza dell’acqua a rendere il suo tocco ancora più morbido e indolente di quanto fosse intenzionato.

“Cazzo!” esclamò quando Percy, con mano stranamente decisa, lo toccò con altrettanta delicatezza. Lo guardò in viso, scoprendo che lo osservava tra le ciglia strette, con la fronte aggrottata e le labbra schiuse che emettevano ansimi e cercavano invano di trattenere i gemiti.

Fu allora che Oliver lo baciò di nuovo, spingendosi contro la sua mano, ed accelerò il ritmo della propria. Non era facile muoversi nell’acqua, perché i loro corpi scivolavano e le loro gambe erano piegate in modo strano per far sì che le loro eccitazioni si sfiorassero tra una carezza all’altra; poi non ebbe più importanza, perché nessuno dei due sembrava più fare caso all’equilibrio. Percy sbatté la testa un paio di volte contro il bordo della vasca, ma non smise di masturbare l’altro e non smise di spingersi disperatamente verso la mano che lo toccava.

All’improvviso il Caposcuola scostò la testa di lato, interrompendo quel bacio infinito e disperato, e si tese contro l’altro, venendo; dalle sue labbra uscì un gemito strano, come una specie di uggiolio, qualcosa di così buffo e al tempo stesso così tenero che Oliver si buttò di nuovo contro il suo collo, mordendolo e baciandolo mentre spingeva i fianchi in avanti con sempre maggior impeto.

Quando raggiunse l’orgasmo, si rannicchiò contro l’altro, schiacciandolo contro il bordo della vasca e leccandogli il collo pallido, come se avesse voluto assaggiarlo.

“Inappropriato…” sussurrò Percy, voltando il capo verso di lui. Lo sentì respirare a fondo e stringergli per un attimo i capelli con una mano. “Sconveniente…” mormorò di nuovo, prima di divincolarsi per liberarsi dalla morsa in cui Oliver lo teneva bloccato. Uscì dalla vasca, riabbottonandosi la camicia e chiudendosi i pantaloni; poi tirò fuori la bacchetta e si asciugò velocemente con un incantesimo.

Oliver rimase a guardarlo nell’acqua, completamente soggiogato dalla mollezza che seguiva l’orgasmo, dall’alcol e dalla stanchezza del post-partita.

“Ehi,” chiamò Percy, e l’altro aprì gli occhi che non si era accorto d’aver chiuso. “Guarda che affoghi davvero così,” gli disse, guardandolo con le sopracciglia aggrottate e le guance rosse. Gli occhiali erano di nuovo sul suo naso e Oliver gli sorrise. “Esci, perché non ho intenzione di venire al tuo funerale.”

Il capitano fece come gli era stato detto, poi vide uscire l’altro ragazzo dal bagno e rimase a fissare la porta chiusa, chiedendosi appena e piuttosto vagamente cosa sarebbe successo dopo.

Continua

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