Capitolo 29. La casa Morrel

Oct 31, 2007 20:02

Colui che avesse lasciato Marsiglia qualche anno prima, conoscendo l’interno della casa di Morrel, e vi fosse rientrato all’epoca in cui siamo arrivati, vi avrebbe notato un grandissimo cambiamento.

Invece di quell’aura di vita, di agi e di felicità, che per così dire emana da una casa che sia benedetta dalla fortuna; invece di quelle allegre figure che si fanno vedere dietro le finestre, di quei commessi affaccendati che attraversano i corridoi con una penna cacciata dietro l’orecchio; invece di quel cortile ingombro di merci, rimbombante di grida e risa dei facchini, avrebbe trovato fin dal primo sguardo, un non so che di tristezza e di morte in corridoi deserti e in un vuoto cortile.

Dei tanti impiegati che in altri tempi popolavano gli scrittoi, appena due ne rimanevano; uno era Emanuele Raymond, giovane di ventitré anni, innamorato della figlia di Morrel, che era rimasto nel banco, quantunque i suoi parenti avessero fatto di tutto per toglierlo; l’altro era un vecchio cassiere, chiamato Coclite, soprannome che gli era stato dato dai giovani che in altro tempo popolavano questo alveare fervido e gioioso, oggi quasi disabitato, che aveva così bene e così perfettamente dimenticato il suo vero nome, per cui, secondo ogni probabilità, non si sarebbe neppure voltato, se non lo avessero chiamato con questo soprannome.

Egli era rimasto al servizio di Morrel, e nella situazione di questo bravo uomo si era operato uno strano cambiamento: mentre era salito al grado di cassiere, era contemporaneamente disceso al rango di domestico.

Ciò non gl’impediva di essere lo stesso Coclite, buono, paziente, affezionato ma inflessibile nei conti e in aritmetica, solo argomento sul quale avrebbe resistito contro il mondo intero, compreso il signor Morrel, non avendo a cultura che la sua tavola pitagorica nota fin sulla punta delle dita, qualunque fosse l’errore nel quale avessero tentato di farlo cadere.

In mezzo alla tristezza generale che aveva invaso la casa Morrel, Coclite era il solo che fosse rimasto impassibile.

Ora, che nessuno s’inganni, questa impassibilità non proveniva da mancanza di affezione, ma al contrario da una inalterabile convinzione. Come i topi che, si dice, abbandonino a poco a poco un bastimento da qualche tempo condannato dal destino a perire in mare, così tutta quella folla di commessi e d’impiegati che traevano la loro sussistenza dalla casa dell’armatore, avevano un poco per volta resi deserti scrittoi e magazzini. Coclite li aveva visti andarsene, senza neppure rendersi conto della loro partenza. Tutto, come abbiamo detto, si riduceva, per Coclite, a una questione di cifre, e da venti anni che era in casa di Morrel aveva sempre veduto effettuarsi i pagamenti a cassa aperta con una tale regolarità da fargli credere che questa non avrebbe mai potuto variare ed i pagamenti sospendersi, più di quanto un mugnaio che possiede un mulino messo in moto da un canale abbondante di acqua, può credere che un giorno o l’altro questa acqua possa venir meno.

Infatti fin allora, nulla era ancora sopraggiunto a mutare la convinzione di Coclite. Gli ultimi giorni dello scorso mese erano passati con una rigorosa puntualità. Coclite aveva notato un errore di settanta centesimi commesso da Morrel in suo sfavore, e lo stesso giorno aveva riportati i quattordici soldi di eccedenza a Morrel, che con un sorriso malinconico li aveva presi e lasciati cadere in un cassetto quasi vuoto, dicendo:

“Coclite, voi siete la perla dei cassieri.”

E Coclite si era ritirato soddisfatto in modo che non si sarebbe potuto esserlo di più, perché un elogio di Morrel, di questa perla degli uomini onesti di Marsiglia, lusingava Coclite molto più che una gratificazione di cinquanta scudi. Ma dopo la fine di quel mese vittoriosamente superato, Morrel aveva passato ore crudeli. Per fare fronte agli impegni di quel mese aveva riunite tutte le sue risorse e, temendo che l’eco delle sue ristrettezze si spandesse in Marsiglia, vedendolo ricorrere a simili estremi, era andato a fare un viaggio alla fiera di Beaucaire per vendere qualche gioiello che apparteneva a sua figlia, nonché una parte della sua argenteria: con tal sacrificio tutto era ancora superato, ad onore della casa Morrel.

Però la cassa era rimasta vuota. I finanziatori, allarmati dalle voci che circolavano, si erano eclissati, come succede in questi casi, per egoismo umano; e, per far fronte a cento mila franchi da pagarsi il 15 di quel mese al signor de Boville, e altri cento mila che scadevano il 15 del successivo mese, Morrel non aveva in realtà altra speranza che il ritorno del Faraone, di cui un bastimento che aveva levata l’àncora con esso, e già arrivato in porto, aveva annunciato la partenza. Ma questo battello che veniva da Calcutta come il Faraone, era già arrivato da quindici giorni, mentre del Faraone non si aveva alcuna notizia.

In questo stato di cose, l’indomani del giorno in cui aveva concluso l’affare con de Boville, da noi raccontato, l’incaricato della casa Thomson e French di Roma si presentò al signor Morrel. Lo ricevette Emanuele.

Il giovane che si spaventava all’entrata di ogni nuova persona perché poteva annunciare un nuovo creditore che veniva a importunare il capo della casa, volle risparmiare al padrone la noia di questa visita: interrogò il nuovo arrivato, il quale dichiarò che non aveva cosa alcuna da dire, ma che voleva parlare a Morrel in persona.

Emanuele sospirando chiamò Coclite; e questi comparve e ricevette l’ordine di condurre lo straniero dal signor Morrel. Coclite camminò avanti e lo straniero lo seguì. Sulla scala incontrarono una bella ragazza di diciassette anni che guardò lo straniero con inquietudine Coclite non notò questa espressione del viso di lei, che però non sfuggì al forestiero.

“Il signor Morrel è nel suo ufficio, non è vero, signorina Giulia?” domandò il cassiere.

“Sì, almeno credo di sì…” disse la giovane con esitazione. “Guardate prima, Coclite, e se mio padre c’è, annunciate il signore.”

“È inutile annunciarmi, signorina” rispose l’inglese, “il signor Morrel non conosce il mio nome. Questo bravo uomo ha da dirgli soltanto che io sono il primo commesso della casa Thomson e French di Roma, colla quale la casa di vostro padre è in relazione.”

La ragazza impallidì e continuò a scendere, mentre Coclite e lo straniero riprendevano a salire.

Lei entrò nella stanza dove era lo scrittoio d’Emanuele, Coclite invece aprì una porta del secondo piano, introdusse lo straniero in un’anticamera, aprì una seconda porta che richiuse dietro a sé, e dopo aver lasciato solo per un momento l’inviato di Thomson e French, ricomparve, facendogli segno che poteva entrare.

L’inglese entrando trovò il signor Morrel dietro il suo scrittoio, preoccupato delle colonne spaventose dei registri su cui stava scritto il suo passivo.

Vedendo lo straniero, Morrel chiuse i registri, si alzò, offrì una sedia, e quando lo vide a suo agio, egli pure sedette.

Quattordici anni avevano cambiato assai la fisonomia del negoziante, il quale, di trentasei anni al principio di questa storia, stava per compiere i cinquanta. I capelli erano incanutiti, la fronte era solcata da due profonde rughe, e lo sguardo, in altri tempi così fermo e sicuro, era diventato vago ed irresoluto, e sembrava dovesse sempre temere di fissarsi sopra un uomo o sopra una idea. L’inglese lo guardò con un sentimento di curiosità misto ad interesse.

“Signore” disse Morrel, a cui questo esame sembrava raddoppiare il malessere, “desideravate parlarmi?”

“Sì, signore… Sapete da quale parte vengo, non è vero?”

“A quanto mi ha detto il cassiere, da parte della casa Thomson e French.”

“Vi ha detto la verità. La casa Thomson e French ha tre- quattrocento mila franchi da pagare in Francia, parte nel mese corrente e parte nel prossimo, e conoscendo la vostra rigorosa esattezza ha riunito tutte le cambiali che ha potuto trovare con la vostra firma, e mi ha incaricato, a seconda che queste scadono, di ritirare i fondi da voi e d’impiegarli.”

Morrel mandò un profondo sospiro, e si passò la mano sulla fronte coperta di sudore.

“Voi dunque, signore” domandò Morrel, “avete delle cambiali firmate da me?”

“Sì signore, e per una somma abbastanza considerevole.”

“Per quale somma?” domandò Morrel, con voce che invano cercava di render sicura.

“Ecco qui” disse l’inglese, levandosi di tasca un plico: “per prima cosa due girate di duecento mila franchi del signor de Boville, l’ispettore delle prigioni. Convenite di dovergli quella somma?”

“Sì, signore, è un investimento che egli ha fatto nel mio banco al quattro e mezzo per cento, saranno presto cinque anni.”

“E che voi dovete rimborsare?…”

“Metà al 15 di questo mese, l’altra metà al 15 del prossimo venturo.”

“Bene, ora ecco trentaduemila e cinquecento franchi per la fine del corrente: queste sono cambiali firmate da voi e passate al nostro ordine da terzi giratari.”

“Le riconosco…” disse Morrel, al quale saliva al viso il rossore della vergogna, pensando che per la prima volta in vita sua non avrebbe potuto far onore alla sua firma.

“Sta tutto qui?…”

“No, signore, io ho ancora per la fine del mese venturo queste altre cambiali che sono passate dalla casa Pascal alla casa Wild e Turner di Marsiglia, cinquantacinque mila franchi circa. In tutto sono duecento ottantasette mila cinquecento franchi.”

Ciò che soffriva lo sfortunato Morrel in questa enumerazione, è impossibile poterlo descrivere.

“Duecento ottantasette mila cinquecento franchi!” ripeté macchinalmente.

“Sì” disse l’inglese, e continuò dopo un momento di silenzio: “Non vi nasconderò, signor Morrel, che mentre tutti fanno gli elogi della vostra probità senza macchia fino al presente, corre una sorda voce per Marsiglia, che voi non siate in grado di far fronte ai vostri affari”.

A questa introduzione, quasi brutale, Morrel impallidì spaventevolmente.

“Signore” disse, “fino a questo momento, e sono più di ventiquattro anni che ho ricevuto la casa da mio padre, che a sua volta l’aveva diretta per trentaquattro anni, fino a questo momento una cambiale firmata da Morrel e Figli, non fu presentata alla cassa senza essere pagata.”

“Sì, lo so” rispose l’inglese, “ma, da uomo d’onore, parlate francamente: pagherete tal somma con la stessa esattezza?”

Morrel rabbrividì, e guardò colui che gli parlava in tal modo con una maggior attenzione di quello che non aveva ancor fatto.

“A una domanda fatta con tanta franchezza” disse, “bisogna dare una risposta ugualmente franca. Sì, signore, io pagherò, se, come spero il mio bastimento giunge a buon porto, poiché il suo arrivo mi renderà quel credito che mi fu tolto dagli incidenti successivi di cui sono stato vittima. Ma se per disgrazia il Faraone, ultima risorsa sulla quale io conto, mi mancasse…”

Le lacrime sgorgarono dagli occhi del povero armatore.

“Ebbene?” domandò l’interlocutore. “Se questa ultima risorsa vi mancasse?”

“Ebbene, se questa ultima risorsa mi mancasse” continuò Morrel, “quantunque sia cosa crudele a dire… ma abituato ormai alla sventura bisogna che mi abitui all’onta… Ebbene, allora credo che sarei obbligato a sospendere i pagamenti.”

“E non avete amici che possano aiutarvi in simile congiuntura?”

Morrel sorrise tristemente.

“In commercio, signore, non si hanno che corrispondenti.”

“É vero…” mormorò l’inglese. “Per tal modo non avete più che una sola speranza?”

“Una sola, ed ultima…”

“E se questa fallisce…”

“Sono perduto, signore, interamente perduto!”

“Quando sono venuto da voi, un bastimento entrava nel porto.”

“Lo so, signore. Un giovane che è rimasto fedele alla mia cattiva fortuna passa una parte del suo tempo su una terrazza della mia casa, nella speranza di venire per primo ad annunziarmi una buona notizia. Da lui ho saputo l’entrata in porto di questo bastimento.”

“E non è il vostro?”

“No, è un naviglio bordolese, la Gironda; viene dalle Indie, ma non è quello che aspetto.”

“Forse avrà notizie del Faraone.”

“È necessario che ve lo dica? Io temo tanto di chiedere notizie del mio bastimento, quanto di restare nell’incertezza, la quale è pure una speranza.”

Quindi Morrel aggiunse con voce commossa:

“Questo ritardo non è naturale: il Faraone è partito da Calcutta il 5 febbraio, e dovrebbe essere in porto già da un mese.”

“Ma che è questo?” disse l’inglese tendendo l’orecchio. “Che vuol dire questo rumore?”

“Oh, mio Dio, mio Dio!” gridò Morrel impallidendo. “Che vi è ancora di nuovo?”

Infatti si fece sentire sulle scale un gran rumore, un andare e venire, e s’intese perfino un grido di dolore.

Morrel si alzò per andare ad aprire la porta, ma le forze gli vennero meno e ricadde sulla sedia. I due uomini rimasero in faccia l’un dell’altro. Morrel era scosso da tremiti; lo straniero lo guardava con un’espressione di profonda pietà.

Il rumore era cessato, ciò nonostante si sarebbe detto che Morrel aspettasse qualche cosa; questo rumore aveva dovuto avere una causa, e doveva avere una conclusione.

Sembrò allo straniero che qualcuno salisse pian piano la scala, e molte persone si fossero fermate sul pianerottolo.

Una chiave venne introdotta nella serratura della prima porta, e questa cigolò sui cardini.

“Non vi sono che due persone che hanno la chiave di questa porta” mormorò Morrel: “Coclite e Giulia.”

Nello stesso istante la porta si aprì, e comparve la ragazza, pallida e colle guance bagnate di lacrime.

Morrel si alzò tutto tremante, e si appoggiò ai braccioli del seggiolone, perché non avrebbe avuto la forza di tenersi in piedi. La sua voce voleva interrogare, ma non aveva più voce.

“Oh, padre mio” disse la giovane giungendo le mani, “perdonatemi di essere messaggera di una triste notizia.”

Morrel si ricoprì di un pallore mortale; Giulia venne a gettarsi fra le sue braccia.

“Oh, padre mio” disse, “coraggio!”

“E così il Faraone è perduto?” domandò Morrel con voce soffocata.
La ragazza non rispose, ma fece un segno affermativo con la testa appoggiata al petto del padre.

“E l’equipaggio?” domandò Morrel.

“Salvato” disse la ragazza, “salvato da quello della Gironda entrata or ora nel porto.”

Morrel alzò le mani al cielo con un’espressione di sublime rassegnazione e riconoscenza.

“Grazie, grazie, mio Dio!” disse Morrel. “Almeno non colpite che me solo.”

Per quanto flemmatico fosse l’inglese, una lacrima gli bagnò le palpebre.

“Entrate” disse Morrel, “entrate, perché suppongo che sarete tutti alla porta.”

Infatti, aveva appena pronunciate queste parole, che la signora Morrel entrò singhiozzando. Emanuele la seguiva; nel fondo dell’anticamera si vedevano le rozze figure di sette o otto marinai seminudi.

Alla vista di quegli uomini l’inglese rabbrividì, fece un passo per andare loro incontro, ma si contenne, ed invece si nascose nell’angolo più oscuro ed appartato dell’ufficio.

La signora Morrel andò a sedersi presso il marito, prese fra le sue le mani di lui, mentre Giulia restava in piedi appoggiata al petto del padre. Emanuele era rimasto a metà della stanza e sembrava il legame fra il gruppo della famiglia Morrel, e i marinai che stavano fermi sulla porta.

“Come avvenne questo infortunio?” domandò Morrel.

“Avvicinatevi Penelon” disse il giovane, “e raccontate il caso.”

Un vecchio marinaio, abbronzato dal sole dell’equatore, si avanzò ravvolgendo fra le mani gli avanzi di un cappello.

“Buon giorno, signor Morrel” disse, come se avesse lasciato Marsiglia il giorno precedente o giungesse da Tolone, o da Aix.

“Buon giorno, amico mio” disse l’armatore, non potendo fare a meno di sorridere in mezzo alle lacrime. “Ma dov’è il capitano?”

“Il capitano è rimasto malato a Palma; ma a Dio piacendo, è cosa da nulla, e voi lo vedrete giungere fra qualche giorno, tanto bene in salute quanto voi e me.”

“Sta bene… ora parlate, Penelon” disse Morrel.

Penelon fece passare da una parte all’altra della bocca il tabacco che masticava, quindi ponendo la mano davanti, lanciò nell’anticamera un getto di saliva nerastra, avanzò il piede e si equilibrò sulle anche narrando quanto appresso:

“Noi eravamo circa, qualche cosa più o meno, fra il capo Bianco e il capo Boyador camminando con una buona brezza di sud-ovest, dopo essere stati senza muoverci otto giorni per la bonaccia, quando il capitano Gaumard mi si avvicina: bisogna che sappiate che allora io ero al timone, e mi dice:

“Papà Penelon, che pensate di quelle nubi che si levano laggiù all’orizzonte.”

Le guardavo proprio in quel momento.

“Che ne penso io, capitano? Penso che vengano su un po’ più presto di quello che vorremmo, e che sono più nere di quello che si convenga a nuvole che non abbiano cattive intenzioni.”

“Questo è pure il mio parere” disse il capitano, “e vado subito a prendere le necessarie cautele. Abbiamo le vele troppo spiegate per il vento che farà… Olà, eh! Preparatevi a serrare le vele, ed a mandare sotto quella di trinchetto…”

Era tempo; fu appena eseguito l’ordine, che il vento infuriava su noi e il bastimento dava di banda.

“Bene!” disse il capitano. “Abbiamo ancora troppa tela: accomoda e serra la gran vela.”

Cinque minuti dopo, la gran vela era chiusa, e noi camminavamo colla mezzana, colla vela di gabbia e i parrocchetti.

“Ebbene! Papà Penelon!” disse il capitano. “Che avete? scuotete la testa?”

“È perché, al vostro posto, vedete, non resterei in un così brutto impiccio.”

“Credo che tu abbia ragione, vecchio” disse, “noi avremo fra poco un colpo di vento…”

“Ah, capitano” gli rispondo io, “chi volesse riscattare con un colpo di vento ciò che si prepara laggiù, guadagnerebbe assai; questa è una buona e bella tempesta dove io non mi vorrei trovare…”

Vale a dire che si vedeva venire il vento come si vede la polvere a Montredon: fortunatamente avevamo a che fare con un uomo che lo conosceva.

“Attenti a prendere tre terzaruoli nelle gabbie!” gridò. “Allarga le boline, braccio al vento, giù i pennoni!”

“Ciò non era abbastanza in quei paraggi” interruppe l’inglese, “io avrei preso quattro terzaruoli, e mi sarei spacciato della mezzana.”

Questa voce ferma, sonora ed inattesa fece scuotere tutti.

Penelon mise la mano sugli occhi e guardò colui che correggeva con tanta avvedutezza la manovra del suo capitano.

“Noi facemmo ancor meglio, signore” disse il vecchio con un certo rispetto, “perché caricammo a orza la brigantina, e mettemmo le barre al vento per correre avanti alla tempesta. Dieci minuti dopo caricammo le gabbie e ce ne andammo senza vele.”

L’inglese scosse la testa:

“Il bastimento era troppo vecchio per arrischiar questo” disse.

“È vero! è detto giustamente! Questo fu quello che ci perdette… In capo a dodici ore eravamo trabalzati come se il diavolo avesse preso l’armi, e si aperse una falla d’acqua.

“Penelon” mi disse il capitano, “credo che coliamo a fondo; dammi la barra del timone, e discendi nella stiva.”

Gli do la barra, e scendo; vi erano già tre piedi di acqua. Risalgo gridando:

“Alle pompe! alle pompe!”

Ebbene sì! Era troppo tardi. Tutti ci mettemmo all’opera e io credo che quanta più acqua cavavamo più ne entrava.

“Ah, in fede mia” dissi, dopo quattro ore di lavoro, “giacché affondiamo, lasciamoci affondare; non si muore che una volta.”

“È così che dai l’esempio, Penelon?” disse il capitano. “Ebbene aspetta, aspetta!” e andò in cabina a prendere un paio di pistole.

“Il primo che lascia la pompa” disse, “gli brucio le cervella!”

“Bravo!” disse l’inglese.

“Non c’è nulla che infonda tanto coraggio quanto le buone ragioni” continuò il marinaio, “tanto più che il tempo si era rischiarato, e il vento cominciava a indebolire. Non è meno vero che l’acqua saliva sempre; non molto ma circa due pollici l’ora, vedete, sembra che non sia niente, ma in dodici ore non sono men di ventiquattro pollici, che fan due piedi; e tre che ne avevamo già, fanno cinque; ciò vuol dire che quando un bastimento ha cinque piedi d’acqua nel ventre, può già passare per idropico.

“Andiamo” disse il capitano, “basta così, ed il signor Morrel non avrà nulla a rimproverarci: abbiamo fatto tutto ciò che si è potuto fare per salvare il bastimento; bisogna ora cercare di salvare gli uomini. Alla scialuppa, giovanotti, e più presto che si può!’

Ascoltate signor Morrel” continuò Penelon, “noi amavamo molto il Faraone; ma per grande che sia l’amore che i marinai portano al loro bastimento, essi però amano sempre di più la loro pelle. Così non ce lo facemmo ripetere due volte, mentre il bastimento aprendosi sembrava dirci:

“Andatevene dunque! ma andatevene dunque!”

E non mentiva il povero Faraone; noi lo sentivamo abbassarsi sotto i nostri piedi. Tanto fu: con un giro di mano la scialuppa era in mare, e in un batter d’occhio gli otto marinai erano dentro. Il capitano fu l’ultimo a scendere… o piuttosto no, non scese, non voleva abbandonare il battello, fui io che lo presi abbracciandogli il corpo e lo gettai ai compagni dopo di che saltai io pure. Ed era tempo. Appena ebbi fatto il salto, il ponte si spaccò con un rumore tale, che si sarebbe detta una bordata di vascello da quarantotto. Dieci minuti dopo affondò in avanti, poi indietro, quindi si mise a girare su se stesso, come un cane che corre dietro la propria coda, e infine, buona sera alla compagnia, brrrru! tutto finito, il Faraone non c’era più! In quanto a noi, siamo stati tre giorni senza bere e senza mangiare, ed era tale la nostra fame che già si cominciava a parlare di fare a sorte per sapere chi sacrificare, come cannibali, quando scoprimmo la Gironda, le facemmo dei segnali… Ci vide, volse la prua verso di noi ci spedì la sua scialuppa e ci raccolse. Ecco come è andata, signor Morrel parola d’onore! sulla fede di marinaio! Non è vero, compagni?”

Un mormorio generale indicò che il narratore aveva avuto l’approvazione di tutti per la verità del racconto ed il pittoresco dei particolari.

“Bene, amici miei” disse Morrel, “siete della brava gente; già sapevo che nella disgrazia che mi sarebbe toccata, nessuno avrebbe avuto colpa fuorché il destino: questa è la volontà di Dio, e non colpa degli uomini. Chiniamoci alla volontà di Dio. Ora ditemi quanto vi debbo per il vostro soldo?”

“Oh, bah, non parliamo di questo, signor Morrel…”

“Al contrario, parliamone” disse l’armatore con un triste sorriso.

“Ebbene, dobbiamo avere tre mesi di soldo” disse Penelon.

“Coclite, pagate duecento franchi a ciascuno di questi bravi uomini. In altri tempi, amici miei, avrei detto: date cento franchi a ciascuno di gratificazione, ma i tempi sono disgraziati, cari amici, e il poco denaro che mi resta non è più mio; scusatemi dunque, e non per questo cessate dall’amarmi.”

Penelon fece un gestaccio di tenerezza, si volse ai compagni, scambiò con loro qualche parola e replicò:

“Per quello che riguarda ciò, signor Morrel” disse masticando tabacco, e lanciando nell’anticamera un secondo getto di saliva che andò a tener compagnia al primo, “per quello che riguarda ciò…”

“Ciò, cosa?”

“Il denaro…”

“Ebbene?”

“Ebbene, signor Morrel, i compagni dicono che per il momento sono sufficienti cinquanta franchi per ciascuno, e che per il resto aspetteranno.”

“Grazie, amici miei, grazie!” gridò il signor Morrel commosso fino al cuore. “Siete tutti brava gente, ma prendete! prendete! e se trovate un buon servizio, entrateci pure.”

Questa ultima parte della frase produsse un effetto prodigioso su quei degni marinai, si guardarono gli uni e gli altri con la faccia smarrita. Penelon, a cui mancava il fiato, poco mancò non inghiottisse la boccata di tabacco.

“Come, signor Morrel” disse con voce soffocata, “come, voi ci licenziate, siete dunque malcontento di noi?”

“No figli miei” disse l’armatore, “no, non sono malcontento di voi, tutto al contrario, no, io non vi licenzio. Ma che volete farci, non ho più bisogno di marinai.”

“Come, non avete più bastimenti?” disse Penelon. “Ebbene ne farete costruire degli altri! Aspetteremo. Grazie a Dio noi sappiamo ciò che vuol dire…”

“Io non ho più denari per far costruire bastimenti” disse l’armatore con triste sorriso. “Quindi non posso accettare la vostra offerta, per quanto sia cortese.”

“Ebbene, se non avete più denari, allora non dovete pagarci; faremo come ha fatto il povero Faraone, correremo in secco, ecco tutto.”

“Basta, basta, amici miei” disse Morrel soffocato dall’emozione, “basta, ve ne prego, ci rivedremo in tempi migliori. Emanuele, accompagnateli e vigilate affinché siano compiuti i miei desideri.”

“Almeno a rivederci non è vero, signor Morrel?” disse Penelon.

“Sì, amici miei, almeno lo spero. Andate.”

E fece segno a Coclite che camminò avanti, e i marinai seguirono il cassiere. Emanuele tenne loro dietro.

“Ora” disse l’armatore a sua moglie ed a sua figlia, “lasciatemi solo un momento, poiché debbo parlare con questo signore.”

E indicò con gli occhi il mandatario della casa Thomson e French che era rimasto in piedi ed immobile in un angolo durante tutta questa scena, alla quale egli non aveva presa altra parte che quella delle poche parole che abbiamo riportate.

Le due donne alzarono gli occhi sullo straniero completamente dimenticato, e si ritirarono; ma nel ritirarsi la giovane lanciò a quest’uomo uno sguardo di sublime preghiera cui egli corrispose con un sorriso, che un freddo osservatore si sarebbe stupito di vedere spuntare su quel viso di ghiaccio.

I due uomini rimasero soli.

“Ebbene, signore” disse Morrel lasciandosi ricadere sul suo seggio, “avete tutto veduto ed inteso, non ho più altro da aggiungere.”

“Ho visto” disse l’inglese, “che vi è sopraggiunta una nuova disgrazia, immeritata come le altre, e ciò mi ha confermato nel desiderio di esservi utile.”

“Oh signore!” disse Morrel.

“Vediamo” continuò lo straniero, “sono uno dei vostri principali creditori, non è vero?”

“Siete almeno quello che possiede le cambiali a più corta scadenza.”

“Desiderate una dilazione per pagarmi?”

“Una dilazione potrebbe salvarmi l’onore” disse Morrel, “e per conseguenza la vita.”

“Quanto tempo desiderate?”

Morrel esitò.

“Due mesi” disse.

“Bene” fece lo straniero, “ve ne darò tre…”

“Ma, credete che la casa Thomson e French?…”

“State tranquillo, prendo tutto sopra di me. Oggi siamo al 5 giugno?”

“Sì.”

“Ebbene rinnovatemi tutti questi biglietti e al 5 settembre alle undici del mattino mi presenterò a voi.”

L’orologio in quel momento segnava appunto le 11 precise.

“Vi aspetterò, signore, e sarete pagato, o io sarò morto.”

Queste ultime parole furono pronunciate a sì bassa voce che lo straniero non poté intenderle.

Le cambiali furono rinnovate; vennero stracciate le antiche ed il povero armatore si trovò almeno ad avere tre mesi per poter riunire le sue ultime risorse.

L’inglese ricevette i suoi ringraziamenti colla flemma particolare alla sua gente, e prese congedo da Morrel, che lo ricondusse benedicendolo fino alla porta.

Sulle scale incontrò Giulia: la ragazza sembrava discendere, ma in realtà lo aspettava.

“Oh, signore!” disse giungendo le mani.

“Signorina” disse lo straniero, “voi un giorno riceverete una lettera firmata… Sindbad il marinaio. Fate appuntino ciò che vi dirà la lettera per quanto strana vi possa sembrare la raccomandazione.”

“Sì, signore” rispose Giulia.

“Mi promettete di farlo?”

“Ve lo giuro.”

“Basta così: addio signorina, siate sempre buona e savia come siete ed ho fiducia che Iddio vi ricompenserà, dandovi per marito Emanuele.”

Giulia mandò un piccolo grido, divenne rossa come una ciliegia, e si tenne al cordone delle scale per non cadere.

Lo straniero continuò il cammino, facendole un gesto di addio. Nel cortile incontrò Penelon che teneva un rotolo di cento franchi in ciascuna mano, e che sembrava non potersi risolvere a portarli via.

“Venite, amico mio” gli disse, “ho bisogno di parlarvi.”

alexandre dumas père, il conte di montecristo

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