Questa dilazione accordata dal mandatario della casa Thomson e French al momento in cui Morrel meno se lo aspettava, parve al povero armatore uno di quei ritorni di benessere che annunziano all’uomo la sorte essersi alfine stancata di perseguitarlo.
Lo stesso giorno raccontò a sua figlia e ad Emanuele ciò che gli era accaduto; e un poco di speranza, se non di tranquillità, rientrò nella famiglia. Disgraziatamente però Morrel non aveva affari soltanto con la casa Thomson e French che si era mostrata tanto facile ad un accomodamento; com’egli aveva detto, nel commercio si hanno corrispondenti, e non amici.
Allorché vi pensava profondamente, non comprendeva neppure la condotta generosa della casa Thomson e French verso di lui, e non la spiegava che con questa riflessione superlativamente egoista, che questa Casa doveva aver detto: val meglio sostenere quest’uomo che ci deve quasi trecentomila franchi, e avere questa somma in capo a tre mesi, che sollecitarne la rovina, e avere il sei o l’otto per cento del capitale. Disgraziatamente, fosse odio, fosse accecamento, tutti i corrispondenti di Morrel non fecero la stessa riflessione.
Le cambiali sottoscritte da Morrel furono presentate alla cassa con uno scrupoloso rigore, e grazie alla dilazione accordata dall’inglese furono pagate pronta cassa da Coclite, che continuò a rimanere tranquillo. Il solo Morrel vide con terrore, che se avesse dovuto rimborsare al 15 i centomila franchi di de Boville, e al 30 i trentaduemilacinquecento franchi di cambiali, per le quali, come per quelle dell’ispettore delle prigioni, aveva ottenuta una dilazione, sarebbe stato fin da quel mese un uomo perduto.
L’opinione di tutti i negozianti di Marsiglia era che Morrel non avrebbe potuto sostenere tutti i rovesci successivi che l’opprimevano. Fu dunque grande la meraviglia quando lo si vide compiere i pagamenti di fine mese coll’ordinaria esattezza.
Ma non per questo ritornò la fiducia negli animi, e in molti predissero che alla fine del mese seguente sarebbe stato depositato il bilancio del disgraziato armatore.
Tutto il mese passò in sforzi inauditi da parte di Morrel per riunire tutte le sue risorse. In altri tempi le sue cedole, a qualunque data, erano prese con fiducia, ed anzi richieste da tutti. Morrel tentò di negoziare delle cedole colla scadenza di novanta giorni, e trovò tutti i banchi chiusi.
Fortunatamente, aveva qualche incasso sul quale contare, e questo fu fatto: così si trovò ancora in condizione di far fronte ai suoi obblighi quando giunse la fine di luglio. D’altra parte, il mandatario della casa Thomson e French non era più stato visto a Marsiglia.
L’indomani della sua visita a Morrel era sparito: siccome in Marsiglia non aveva avuto a trattare che col sindaco, coll’ispettore delle prigioni, e con Morrel, così il suo passaggio non aveva lasciata altra traccia che i ricordi diversi che ne conservavano queste tre persone. In quanto ai marinai del Faraone sembrava che avessero ritrovato da impiegarsi, poiché essi pure erano spariti. Il capitano Gaumard rimessosi dalla malattia che lo aveva trattenuto a Palma ritornò egli pure: esitò a presentarsi al signor Morrel; ma questi saputo il suo arrivo, andò in persona a trovarlo. Il degno armatore sapeva già dal racconto di Penelon della coraggiosa condotta tenuta dal capitano durante tutto il naufragio, e si sforzò di consolarlo. Gli portò l’ammontare del suo soldo, che il capitano Gaumard non avrebbe certamente osato andare a riscuotere.
Quando Morrel discese la scala incontrò Penelon che saliva: aveva, a quanto sembrava, fatto un buon uso del denaro, poiché era vestito tutto di nuovo. Riconoscendo il suo armatore, il degno timoniere parve molto impacciato; si ritirò nell’angolo più lontano del pianerottolo, masticando il tabacco e girando due grossi occhi spaventati, non rispose che con una timida pressione alla stretta di mano che gli offerse Morrel colla sua ordinaria cordialità.
Morrel attribuì l’impaccio di Penelon all’eleganza del vestito: era evidente che non era entrato di tasca propria in tanto lusso; e chiaramente doveva essere già impiegato a bordo di qualche altro bastimento, e la vergogna gli veniva dal non avere, se è lecito esprimersi così, portato per un tempo maggiore il lutto del Faraone.
Forse si recava dal capitano Gaumard per metterlo a parte della sua fortuna, e per fargli delle offerte da parte del nuovo padrone.
“Brava gente!” disse Morrel allontanandosi. “Possa il vostro nuovo padrone amarvi come vi amavo io, ed essere più felici di me!…”
Passò il mese di agosto in tentativi, senza posa rinnovati da Morrel, per rialzare il suo credito, o per aprirsene uno nuovo.
Il 20 agosto si seppe a Marsiglia che Morrel aveva prenotato un posto nella Valigia postale; allora tutti opinarono che alla fine del mese si sarebbe depositato il bilancio, e che Morrel era partito prima per non assistere a quest’atto crudele, delegando senza dubbio il suo primo commesso Emanuele, e il cassiere Coclite. Ma contro ogni previsione allorché giunse il 31 agosto, la cassa si aprì secondo il solito.
Coclite apparve dietro l’inferriata, tranquillo come il giusto di Orazio, esaminò colla stessa attenzione le cedole che gli vennero presentate, e pagò le tratte dalla prima all’ultima colla stessa esattezza.
Vennero anche presentati due rimborsi previsti da Morrel, e Coclite li pagò con la puntualità propria dell’armatore. Nessuno ne capiva niente, ed i profeti di cattive notizie, con una particolare ostinazione, rinviavano il fallimento alla fine di settembre.
Giunse il primo del mese. Morrel era atteso da tutta la famiglia colla più grande ansietà, mentre contavano sull’esito del suo viaggio a Parigi come sull’ultima via di salute.
Morrel aveva pensato a Danglars, divenuto milionario, ed un giorno suo sottoposto, perché era stata la raccomandazione di Morrel a far entrare Danglars al servizio del banchiere spagnolo, presso il quale aveva cominciata la sua immensa fortuna. Si diceva che Danglars era possessore di sei-otto milioni, e che godeva di un credito illimitato.
Danglars senza levarsi uno scudo di tasca poteva salvare Morrel: non aveva che garantire un prestito, e Morrel era salvo. Morrel da lungo tempo aveva pensato a Danglars; ma vi sono alcune istintive repulsioni che non sappiamo superare. Aveva aspettato fino a che gli era stato possibile, prima di ricorrere a quest’ultimo mezzo. E ne aveva avuta ragione, poiché ritornava oppresso dall’umiliazione e dal rifiuto.
Al ritorno non manifestò alcun lamento, non proferì alcuna recriminazione; aveva stesa la mano amichevolmente ad Emanuele, si era chiuso nel suo ufficio del secondo piano, ed aveva chiesto di Coclite. Le due donne dissero ad Emanuele:
“Siamo perdute.”
Quindi in un breve conciliabolo tenuto fra loro, convennero che Giulia avrebbe scritto al fratello, in guarnigione a Nimes, di venire sul momento. Le povere donne sentivano di avere bisogno di tutte le loro forze per sostenere il colpo che le minacciava; d’altra parte Massimiliano Morrel, quantunque nell’età di ventidue anni, aveva già una grande influenza su suo padre.
Era un giovane deciso e abile.
Al momento di decidersi per la carriera, suo padre non aveva voluto imporgli una scelta ma aveva consultato il giovane Massimiliano.
Questi aveva detto di voler seguire la carriera militare: aveva per conseguenza fatti degli eccellenti studi, era entrato per concorso nella scuola politecnica, e n’era uscito sottotenente al 53° di linea.
Dopo un anno che occupava questo posto, aveva già la promessa che alla prima occasione l’avrebbero nominato tenente. Nel reggimento, Massimiliano Morrel era citato come il più rigido osservatore non solo di tutti gli obblighi imposti al soldato, ma anche di tutti i doveri propri all’uomo, e non veniva chiamato con altro nome, che con quello di stoico.
Inutile dire che la maggior parte di coloro che lo chiamavano con tal soprannome, lo ripetevano per averlo inteso dire, ma non sapevano che cosa volesse significare.
La madre e la sorella lo chiamavano in loro soccorso per sostenerle nella grave situazione che presagivano. Non si erano ingannate sulla gravità di questi presentimenti perché un momento dopo che Morrel era entrato nel suo ufficio con Coclite, Giulia vide uscire quest’ultimo pallido, tremante e col viso sconvolto.
Volle interrogarlo quando le passò accanto, ma il brav’uomo continuò a scendere la scala con una precipitazione che non gli era solita, e si contentò di gridare alzando le braccia al cielo:
“Oh signorina, signorina! Quale orribile disgrazia, e chi l’avrebbe mai creduto!”
Poco dopo, Giulia lo vide risalire portando due o tre grossi registri, e un rotolo di monete.
Morrel consultò i registri, aprì il portafogli, contò le monete. Tutte le sue risorse ascendevano a sei o otto mila franchi; i suoi crediti, realizzabili fino al giorno 5, a quattro o cinque mila; ciò che formava in contante, a dir molto, un attivo di quattordicimila franchi, per far fronte ad una cambiale di duecentottantasettemilacinquecento franchi. Non era neppure lecito offrire una simile somma in acconto.
Però quando Morrel scese per pranzare, sembrava assai tranquillo: il che spaventò le due donne assai più di un sommo abbattimento. Dopo pranzo Morrel aveva l’abitudine di uscire; andava a prendere il caffè al circolo dei Phocéens, o a leggere il “Sémaphore”: quel giorno non uscì, risalì nel suo ufficio. Quanto a Coclite, sembrava completamente ebete.
Durante una parte del giorno si era trattenuto in cortile, seduto sopra una pietra, con la testa nuda sotto un sole di trenta gradi.
Emanuele cercava di tranquillizzare le donne, ma non aveva sufficiente eloquenza. Il giovane era troppo al corrente degli affari per non sapere che una grande catastrofe era imminente sulla famiglia Morrel.
Venne la notte; le due donne vegliarono nella speranza che Morrel scendendo dall’ufficio sarebbe passato da loro; ma lo intesero passare dalla loro porta, camminando sulla punta dei piedi, per timore forse di esser chiamato: tesero le orecchie, e udirono che entrò in camera sua, e si chiuse dal di dentro.
La signora Morrel mandò sua figlia a dormire; quindi, mezz’ora dopo che Giulia si era ritirata, si alzò, si tolse le scarpe, entrò nel corridoio per vedere dalla serratura ciò che faceva suo marito; s’accorse allora d’un’ombra che si ritirava.
Era Giulia che, inquieta anch’essa, aveva preceduta sua madre.
La ragazza le andò incontro dicendole:
“Scrive.”
Le due donne avevano avuto lo stesso pensiero senza esserselo comunicato. La signora Morrel guardò per il buco della serratura.
Infatti Morrel scriveva: ma ciò che non aveva visto la figlia, lo notò la madre; Morrel scriveva sopra una carta bollata. Le venne la terribile idea che facesse il suo testamento; rabbrividì e non ebbe forza di dire una parola.
Il giorno dopo Morrel sembrava perfettamente tranquillo, si fermò allo scrittoio come d’ordinario e discese a far colazione. Solo dopo pranzo fece sedere la figlia vicino, cinse la testa della ragazza col suo braccio, e la tenne lungamente contro il petto.
La sera Giulia disse a sua madre che per quanto in apparenza sembrasse tranquillo, aveva notato che il cuore di suo padre batteva violentemente. Nello stesso modo passarono gli altri due giorni.
Il 4 settembre verso sera, Morrel chiese a sua figlia la chiave del suo ufficio. Giulia rabbrividì a questa domanda che gli sembrò di cattivo augurio.
Perché dunque suo padre voleva questa chiave che lei aveva sempre custodito, e che non le era mai stata tolta, meno nell’infanzia nei giorni in cui la si voleva castigare?
La ragazza guardò Morrel.
“Che ho fatto di male, padre mio” disse, “perché mi riprendiate questa chiave?”
“Niente, figlia mia” rispose lo sventurato Morrel a cui questa semplice domanda fece sgorgare dagli occhi il pianto, “nulla; solo ne ho bisogno.”
Giulia finse di cercare la chiave.
“L’avrò lasciata in camera mia” mentì.
Uscì, ma invece di andare nella sua camera, discese e corse a consigliarsi con Emanuele.
“Non restituite la chiave a vostro padre” disse questi, “e domattina, se è possibile, non lo lasciate solo un momento.”
Lei cercò invano di interrogare Emanuele, ma questi non sapeva altro, o non volle dire di più.
Durante tutta la notte dal 4 al 5 settembre la signora Morrel restò coll’orecchio contro la bussola, fino alle tre del mattino; intese suo marito camminare con agitazione nella camera; solo dopo le tre si gettò sul letto.
Le due donne passarono insieme il resto della notte. Fin dalla sera antecedente aspettavano Massimiliano.
Alle otto Morrel entrò nella loro camera: egli era tranquillo, ma gli si leggeva sul viso pallido e smunto l’agitazione della notte. Le donne non osarono chiedergli se aveva riposato bene. Morrel fu affabile con sua moglie, più tenero con sua figlia di quel che non fosse mai stato: non si stancava di guardare ed abbracciare la povera ragazza.
Giulia si ricordò la raccomandazione di Emanuele, e volle accompagnare il padre quando uscì, ma questi la respinse con dolcezza, dicendole:
“Resta con tua madre.”
Giulia volle insistere.
“Lo voglio” disse Morrel.
Era la prima volta che diceva a sua figlia: “Lo voglio!”. Ma lo disse con tale accento di paterna dolcezza, che Giulia non osò opporsi. Rimase al suo posto, ritta, muta ed immobile.
Pochi momenti dopo la porta si aprì, ed ella sentì due braccia che la stringevano ed un bacio sulla fronte. Alzò gli occhi, e mandò un’esclamazione di gioia.
“Massimiliano, fratello mio!” gridò.
A queste grida la signora Morrel accorse, e si gettò fra le braccia del figlio.
“Madre mia” disse il giovane guardando alternativamente la madre e la sorella, “che accade? La vostra lettera mi ha spaventato!”
“Giulia” disse la signora Morrel facendo un segno al figlio, “va’ a dire a tuo padre che è giunto Massimiliano.”
La ragazza si lanciò fuori dell’appartamento; ma sul primo gradino della scala incontrò un uomo che teneva una lettera in mano.
“Non siete voi la signorina Giulia Morrel?” disse quest’uomo con accento italiano.
“Sì” rispose Giulia balbettando, “ma che volete? Non vi conosco.”
“Leggete questa lettera” disse l’uomo presentandole il biglietto.
Giulia esitava.
“Ne va della salute di vostro padre!” disse il messaggero.
La ragazza gli tolse il biglietto dalle mani, poi l’aprì e lesse con ansietà:
“Portatevi in questo medesimo punto ai viali di Meillan, entrate nella casa n. 15, domandate al portinaio la chiave della camera del quinto piano; entrate; prendete dall’angolo del caminetto una borsa di cordonetto di seta rossa e recatela subito a vostro padre. È indispensabile che l’abbia prima delle undici. Voi mi avete promesso di obbedirmi ciecamente; invoco la vostra promessa.
Sindbad il marinaio.”
La ragazza gettò un grido di gioia, volle interrogare l’uomo che le aveva rimesso il biglietto, ma era già sparito.
Riportò allora gli occhi sul biglietto per leggerlo una seconda volta, si accorse che c’era un Post-scriptum. e lo lesse.
“È importante che adempiate questa missione in persona, e sola; se verrete in compagnia o altri verranno in vece vostra, il portinaio vi risponderà che non sa ciò che volete dire.”
Questo post-scriptum fece una forte impressione alla giovane.
Doveva temere qualche cosa? Poteva esser questo una trappola che le si tendeva? La sua innocenza non le permetteva di sapere quale erano i pericoli che poteva correre una ragazza della sua età. Ma non c’è bisogno di conoscere i pericoli per temerli; anzi si temono precisamente di più i pericoli che non si conoscono.
Giulia esitò; risolvette di domandar consiglio, ma per uno strano sentimento non lo chiese, né a sua madre né a suo fratello, ricorse ad Emanuele. Ridiscese, raccontò l’accaduto nel giorno in cui il mandatario della Casa Thomson e French venne da suo padre, la scena della scala, ripeté la promessa che aveva fatta, e mostrò la lettera.
“Bisogna andare signorina” disse Emanuele.
“Andare?” mormorò Giulia.
“Sì, vi accompagnerò.”
“Ma non avete letto che debbo andare sola?”
“Sarete ugualmente sola, vi aspetterò all’angolo della strada del Museo e se tardate in modo da farmi nascere qualche inquietudine verrò a raggiungervi, e, ve l’assicuro, disgraziati coloro di cui avrete a lamentarvi!”
“In tal modo, Emanuele” riprese esitando la ragazza, “il vostro consiglio è che io accetti questo invito?”
“Sì… Il messaggero non vi ha detto che si tratta della salvezza di vostro padre?”
“Ma che pericolo corre mio padre?” domandò la ragazza.
Emanuele esitò un momento, ma il desiderio che Giulia si risolvesse sul momento e senza ritardo la vinse.
“Ascoltate” disse, “non è oggi il 5 settembre?”
“Sì.”
“Oggi alle undici vostro padre deve pagare circa trecentomila franchi.”
“Sì, lo sappiamo.”
“Ebbene” disse Emanuele, “egli non ne ha neppure quindicimila in cassa.”
“E allora che avverrà?”
“Avverrà che se prima delle undici non trova qualcuno che gli venga in aiuto, vostro padre sarà obbligato a mezzodì, di dichiararsi fallito.”
“Ah, venite” gridò la ragazza, trascinando Emanuele.
In quel mentre la signora Morrel aveva detto tutto a suo figlio. Il giovane sapeva bene che in conseguenza delle successive disgrazie capitate a suo padre, erano state introdotte molto modifiche nelle spese di casa; ma non sapeva che le cose fossero giunte a tal punto.
Rimase annichilito; ma subito si lanciò fuori dall’appartamento, salì rapidamente le scale, credendo di ritrovare il padre in ufficio; ma bussò invano.
Mentre era alla porta, sentì che quella dell’appartamento si apriva, si volse e vide suo padre. Invece di risalire direttamente al suo ufficio, Morrel era rientrato nella sua camera, e ne usciva allora soltanto; egli mandò un grido di sorpresa scorgendo Massimiliano, poiché ne ignorava l’arrivo.
Rimase immobile al suo posto, strinse col braccio sinistro un oggetto che teneva nascosto sotto l’abito. Massimiliano scese sollecitamente la scala e si gettò al collo di suo padre; ma d’improvviso si ritrasse, lasciando soltanto la destra appoggiata al petto di Morrel.
“Padre mio” disse, diventando pallido come la morte, “perché avete un paio di pistole sotto l’abito?”
“Oh, ecco ciò che io temevo” disse Morrel.
“Padre mio… padre mio! In nome del cielo” gridò il giovane, “che volete fare di queste armi?”
“Massimiliano” rispose Morrel tenendo lo sguardo fisso sul figlio, “tu sei un uomo, ed un uomo d’onore, vieni, te lo dirò.”
E Morrel salì con passo sicuro fino al suo ufficio, mentre Massimiliano lo seguiva barcollando: aprì la porta, e la rinchiuse dopo che fu passato il figlio, quindi traversò l’anticamera, s’avvicinò allo scrittoio, depose le pistole sull’angolo della tavola, e mostrò a suo figlio colla punta del dito un registro aperto, su esso era fedelmente trascritto lo stato esatto della situazione: Morrel doveva pagare fra mezz’ora duecentottantasettemilacinquecento franchi ed in tutto ne possedeva quindicimiladuecentocinquantasette.
“Leggi!” disse Morrel.
Il giovane lesse e rimase un momento annientato. Morrel non diceva una parola: che avrebbe potuto dire o aggiungere all’inesorabile decreto delle cifre?
“E voi padre mio, avete fatto tutto il possibile per prevenire questa disgrazia?” disse dopo breve silenzio il giovane.
“Sì” rispose Morrel.
“Non contate su alcun rimborso?”
“No.”
“Avete esaurite tutte le risorse?”
“Tutte.”
“E fra mezz’ora…” aggiunse con voce cupa, “il nostro nome sarà disonorato?”
“Il sangue lava il disonore” disse Morrel.
“Avete ragione, padre mio, ora vi comprendo.”
Quindi stese la mano verso le pistole.
“Ve n’è una per voi e un’altra per me” disse. “Grazie!”
Morrel gli fermò la mano.
“E tua madre… e tua sorella… chi le nutrirà?”
Un fremito corse per tutte le membra del giovane.
“Padre” disse, “pensate che con ciò che mi dite io possa vivere?”
“Si, te lo dico” riprese Morrel, “perché questo è il tuo dovere; tu hai lo spirito tranquillo e forte, Massimiliano… tu non se uno dei soliti uomini. Nulla ti comando, nulla ti ordino; ti dico soltanto: Esamina la situazione come se tu vi fossi estraneo, e giudicala da te stesso.”
Il giovane rifletté un momento, quindi l’espressione della più sublime rassegnazione passò nei suoi occhi; solo si tolse con un movimento triste e lento la spallina e la mozzetta, distintivi del suo grado.
“Sta bene” disse tenendo la mano a Morrel, “morite in pace, padre mio, io vivrò.”
Morrel fece un movimento per gettarsi alle ginocchia del figlio. Massimiliano lo accolse fra le braccia, e per un momento questi due nobili cuori batterono l’un contro l’altro.
“Tu sai che non è per mia colpa?” disse Morrel.
Massimiliano sorrise.
“So, padre mio, che siete l’uomo più onesto che abbia mai conosciuto.”
“Sta bene, è detto tutto: ora ritorna da tua madre e da tua sorella.”
“Padre mio” disse il giovane piegando un ginocchio, “beneditemi!”
Morrel prese la testa di suo figlio fra le mani, l’avvicinò a sé, e v’impresse molti baci dicendo:
“Oh, sì, sì, ti benedico nel mio nome, nel nome di tre generazioni di uomini irreprensibili. Ascolta dunque ciò che essi ti dicono colla mia voce: l’edificio che la sventura ha distrutto, può essere riedificato dalla divina Provvidenza. Sapendomi morto in questo modo, i più inesorabili avranno pietà di me; a te forse sarà accordata una dilazione che a me sarebbe stata negata. Allora fa’ che la parola infame non sia pronunziata; mettiti all’opera, lavora, ragazzo! lotta ardentemente e con coraggio! Vivete tu, tua madre, e tua sorella del puro necessario, affinché giorno per giorno i beni di coloro che amo aumentino e fruttifichino fra le tue mani. Pensa che sarà un bel giorno, un gran giorno, un giorno solenne quello della riabilitazione, il giorno in cui, da questo stesso scrittoio tu potrai dire: “Mio padre è morto perché non poteva fare ciò che ho fatto io, ma è morto tranquillo, perché morendo sapeva che io lo avrei fatto.”
“Oh, padre mio, padre mio” esclamò il giovane, “se pure poteste vivere!…”
“Se io vivo tutto è perduto; se io vivo, la premura si cambia in dubbio, la pietà in accanimento; se io vivo, non sono più che un uomo che ha mancato alla sua parola, che ha fallito i suoi impegni, non ho più infine che la bancarotta. Se muoio, al contrario, pensaci bene, Massimiliano il mio cadavere è quello di un onest’uomo disgraziato. Vivo, i miei migliori amici eviterebbero la mia casa; morto, Marsiglia intera mi seguirà piangendo fino all’ultima mia dimora. Vivo, tu avresti onta del mio nome morto, puoi alzare la testa e dire ad alta voce: “Sono il figlio di colui che si è ucciso, perché costretto per la prima volta a mancare alla sua parola.”
Il giovane mandò un gemito, ma parve rassegnato. Era la seconda volta che la necessità era accettata dal suo cuore, ma non dallo spirito.
“Ora” disse Morrel, “lasciami solo e cerca di allontanare le donne.”
“Non volete rivedere mia sorella?” domandò Massimiliano.
Un’ultima e sorda speranza il giovane la riponeva in questo incontro, ecco perché lo proponeva.
Morrel scosse la testa.
“L’ho veduta questa mattina” disse, “e le ho detto addio.”
“Non avete alcuna raccomandazione particolare da farmi, padre mio?” domandò Massimiliano con voce alterata.
“Sì, figlio mio, una raccomandazione sacra.”
“Dite, padre mio.”
“La casa Thomson e French è la sola che per umanità, o forse per egoismo (ma non sta a me leggere nel cuore degli uomini), è la sola che abbia avuto pietà di me. Il suo mandatario, quello che fra dieci minuti si presenterà per riscuotere una tratta di duecentottantasettemilacinquecento franchi, non dirò mi abbia accordata, ma mi ha offerta una dilazione di tre mesi; questa Casa sia rimborsata per prima, figlio mio, che quest’uomo ti sia sacro.”
“Sì, padre mio” disse Massimiliano.
“Ed ora, ancora una volta, addio” disse Morrel, “va’, va’; ho bisogno di restar solo. Troverai il mio testamento nello scrigno della camera da letto.”
Il giovane rimase in piedi ed inerte, senza avere che la forza della volontà, ma non quella dell’azione.
“Ascolta, Massimiliano” disse suo padre, “supponi che io sia un soldato come te, che abbia ricevuto l’ordine di dar la scalata ad un bastione, e che tu sapessi che vado incontro ad una certa morte nell’assalirlo, non mi diresti tu come mi dicevi poco fa: “Andate, padre mio, perché vi disonorereste restando, e val meglio la morte che l’onta?”
“Sì, sì” disse il giovane, “sì” e stringendo convulsivamente tra le braccia il padre, “coraggio padre mio!” disse. E si lanciò verso l’ufficio.
Quando il figlio fu uscito, Morrel rimase un momento in piedi cogli occhi fissi alla porta, quindi tese la mano, tirò la corda del campanello e suonò.
Di lì a poco comparve Coclite. Non era più l’uomo di prima, questi giorni di consapevolezza lo avevano atterrato. Il pensiero che la Casa Morrel sospendeva i pagamenti lo curvava al suolo più che altri vent’anni accumulati sul suo capo.
“Mio buon Coclite” disse Morrel con un accento di cui sarebbe difficile dire l’espressione, “tu resterai nell’anticamera. Quando verrà quel signore che venne già tre mesi fa… lo conosci?… il mandatario della casa Thomson e French, verrai ad annunziarmelo.”
Coclite non rispose; fece un segno affermativo colla testa, andò a sedersi nell’anticamera ed aspettò.
Morrel ricadde sulla sedia, gli occhi si volsero verso l’orologio: gli rimanevano ancora sette minuti in tutto. La lancetta camminava con una rapidità incredibile; gli sembrava vederla andare.
Ciò che in quel momento passò nello spirito di quest’uomo che, giovane ancora, in conseguenza di un ragionamento falso, quantunque tale non sembrasse, stava per lasciare tutto ciò che di più caro aveva al mondo, e per abbandonare una vita piena di tutte le dolcezze della famiglia, è impossibile poterlo spiegare; sarebbe stato necessario essere presenti per averne un idea.
La fronte era ricoperta di sudore, e ciò nonostante rassegnata, gli occhi bagnati di lacrime, ma pur rivolti al cielo.
La lancetta camminava sempre: le pistole erano cariche; allungò la mano, ne prese una e mormorò il nome di sua figlia: depose l’arma mortale, prese la penna e scrisse alcune parole. Gli sembrava di non avere ancora detto abbastanza addio a questa figlia prediletta. Ritornò a guardar l’orologio: egli non contava più i minuti, ma i secondi. Riprese l’arma colla bocca semiaperta e gli occhi fissi all’orologio: poi rabbrividì al rumore che faceva nel caricare l’acciarino.
In quel momento un sudore più freddo gli passò sulla fronte, un’ansia più mortale gli strinse il cuore; intese la porta delle scale cigolare sui cardini, aprirsi quella del suo ufficio: l’orologio stava per battere le undici.
Morrel non si volse, aspettava che Coclite pronunciasse le fatali parole: “Il mandatario della casa Thomson e French…”. Avvicinò l’arma alla bocca… D’improvviso, invece della voce di Coclite intese un grido… Era la voce di sua figlia… Si volse e riconobbe Giulia… La pistola gli sfuggì di mano.
“Padre mio!” gridò la ragazza ansante, e quasi morente di gioia. “Salvo! siete salvo!”
E gli si gettò tra le braccia, alzando in alto colla mano la borsa di cordonetto di seta rossa.
“Salvo? Figlia mia, che vuoi dire?”
“Sì, salvo!… Guardate, guardate…” disse la ragazza.
Morrel prese la borsa e rabbrividì, perché una lontana rimembranza gli ricordava che quell’oggetto gli era in altro tempo appartenuto. Da una parte c’era la cambiale dei duecentottantasette mila cinquecento franchi già quietanzata; dall’altra vi era un diamante della grossezza di una nocciola con queste tre parole scritte sopra un pezzo di pergamena: “Dote di Giulia”.
Morrel si passò la mano sulla fronte: credeva di sognare.
Nel medesimo istante l’orologio batté le undici. Il martello batté per lui come se ciascun colpo venisse ripercosso sul suo cuore.
“Raccontami, figlia mia” disse, “spiegati. Dove ritrovasti questa borsa?”
“Nella casa numero 15 dei viali di Meillan sull’angolo del caminetto di una meschina cameretta del quinto piano.”
“Ma…” gridò Morrel, “questa borsa non è tua.”
Giulia presentò allora a suo padre la lettera che aveva ricevuta la mattina.
“E sei andata sola in quella casa?” disse Morrel dopo averla letta.
“Emanuele mi ha accompagnata. Doveva aspettarmi all’angolo della strada del Museo, ma, cosa strana, al mio ritorno non c’era più.”
“Signor Morrel!” gridò una voce dalle scale. “Signor Morrel!”
“Questa è la sua voce…” disse Giulia.
Nel medesimo tempo entrò Emanuele col viso sconvolto dalla gioia e dall’emozione.
“Il Faraone!” gridò, “il Faraone!”
“Ebbene che Faraone? Siete pazzo, Emanuele? Sapete bene che colò a fondo.”
“Il Faraone! signore, il faro ha dato il segnale del Faraone! Il Faraone entra in questo momento nel porto.”
Morrel ricadde sulla sedia; le forze gli mancarono. La sua intelligenza non era capace ad ordinare questa serie di avvenimenti incredibili, inauditi e favolosi. Suo figlio entrò a sua volta.
“Padre mio” gridò Massimiliano, “che dicevate dunque che il Faraone era perduto? Il faro lo ha segnalato, ed entra in porto in questo momento.”
“Amici miei” disse Morrel, “se ciò fosse, bisognerebbe credere ad un miracolo! Ma è impossibile! impossibile!”
Tutto ciò, quantunque sembrasse incredibile, era vero: la borsa che teneva in mano, la cambiale quietanzata, ed il magnifico diamante.
“Ah, signore” disse Coclite a sua volta, “e che vuol dir questo ‘il Faraone!?”
“Andiamo, figli miei” disse Morrel alzandosi, “andiamo a vedere, che il cielo abbia pietà di noi!, se questa non sia una falsa nuova.”
Scesero tutti: a metà delle scale li aspettava la signora Morrel; la poveretta non aveva avuto coraggio di salire. In un momento furono alla Canebière. Una gran folla era sul porto. Tutta quella folla si divise per lasciar libero il passaggio alla famiglia Morrel.
“Il Faraone! il Faraone!” si diceva da ogni lato, da ogni bocca.
Infatti, cosa meravigliosa, inaudita, dirimpetto alla torre di San Giovanni un bastimento portava sulla poppa queste parole scritte a grandi lettere bianche:
FARAONE: MORREL E FIGLI DI MARSIGLIA.
Questo bastimento era assolutamente della stessa portata e della stessa forma dell’altro Faraone, ed era carico ugualmente d’indaco e di cocciniglia. Gettò l’àncora, ammainò le vele. Sul ponte il capitano Gaumard dava gli ordini, e Penelon faceva segnali a Morrel.
Non c’era più dubbio, era la testimonianza dei sensi, e quella di diecimila e più persone. Mentre Morrel e suo figlio si abbracciavano fra gli applausi di tutta la città, testimone di questo prodigio, un uomo, il cui viso era per metà coperto da una barba nera, nascosto dietro il casotto di una sentinella, contemplava questa scena, mormorando queste parole:
“Nobile cuore, sii felice, sii benedetto per tutto ciò che ancora farai, e la mia riconoscenza resti nell’oscurità come il tuo beneficio!”
E con un sorriso di gioia e di felicità, abbandonò il luogo dove si era nascosto, e senza essere osservato da alcuno, tanto erano tutti occupati dall’avvenimento della giornata, discese una di quelle piccole gradinate che servono di scalo, e chiamò:
“Jacopo! Jacopo! Jacopo!”
Allora un battello venne, lo ricevette a bordo, e lo trasportò ad uno yacht riccamente addobbato, sul ponte del quale balzò colla leggerezza d’un marinaio; di là guardò ancora una volta Morrel, che piangendo di gioia distribuiva amichevoli strette di mano a tutta quella folla, ringraziando con uno sguardo singolare l’invisibile benefattore che gli sembrava dover cercare in cielo.
“Ora” disse l’uomo sconosciuto, “addio bontà, addio umanità, addio riconoscenza… addio a tutti quei sentimenti che inteneriscono il cuore!”
A queste parole fece un segnale, e come se non avesse atteso che ciò per partire, lo yacht prese immediatamente il mare.