Verso il principio del 1838 si trovavano a Firenze due giovani che appartenevano alla società più elegante di Parigi: uno era il visconte Alberto de Morcerf, l’altro il barone Franz d’Epinay.
Avevano stabilito fra loro che sarebbero andati a passar quel carnevale a Roma, ove Franz, che abitava l’Italia da più di quattro anni, avrebbe fatto da cicerone ad Alberto. Ora, siccome non è piccola cosa l’andare di carnevale a Roma, particolarmente quando non si vuole andare a dormire in piazza del Popolo, o al Foro Romano, essi scrissero a Pastrini proprietario dell’albergo Londra in piazza di Spagna per pregarlo di serbar loro un comodo appartamento.
Pastrini rispose che non aveva più che due camere ed un locale al secondo piano, che lo offriva loro mediante la modica spesa di un luigi al giorno.
I due giovani accettarono. Quindi Alberto, volendo mettere a profitto il tempo che gli rimaneva, partì per Napoli.
Franz rimase a Firenze. Dopo aver goduto qualche tempo dei piaceri che procura la città dei Medici, dopo aver lungamente passeggiato in quell’Eden che vien chiamato le Cascine, dopo essere stato ricevuto da quegli ospiti magnifici che si chiamano Corsini, Montfort, Poniatowski, gli prese fantasia, essendo già stato a visitare la Corsica, culla di Bonaparte, di andare a vedere l’isola d’Elba, questo luogo della forzata sosta di Napoleone.
Una sera dunque staccò una barchetta dall’anello di ferro che l’attraccava al porto di Livorno, vi si sdraiò in fondo, avvolto nel suo mantello, e disse ai marinai queste sole parole:
“All’isola d’Elba!”
La barca lasciò il porto come un uccello lascia il nido, e l’indomani Franz era a Portoferraio. Traversò l’isola imperiale seguendo tutte quelle tracce che vi hanno lasciato i passi del gigante, e andò ad imbarcarsi a Marciana.
Due ore dopo aver lasciata la terra, la riguadagnò di nuovo per sbarcare alla Pianosa, ove veniva assicurato che avrebbe trovato una quantità di pernici rosse.
La caccia fu cattiva; Franz ammazzò a stento poche pernici magre, e come fanno tutti i cacciatori che si sono stancati senza alcun pro, risalì nella barca di assai cattivo umore.
“Se Vostra Eccellenza volesse” gli disse il padrone della barca, “potrebbe fare una bella caccia.”
“E dove?”
“Vedete quell’isola?” continuò il marinaio stendendo il dito verso mezzogiorno, indicando una massa conica che usciva dal mare tinta di un bellissimo color indaco.
“Ebbene, che cos’è quell’isola?” domandò Franz.
“È l’isola di Montecristo” rispose il livornese.
“Ma io non ho licenza d’andare a caccia in quell’isola.”
“Vostra Eccellenza non ne ha bisogno; l’isola è deserta.”
“Oh, per Bacco, un’isola deserta in mezzo al Mediterraneo, è una cosa curiosa.”
“E naturale, Eccellenza. Quest’isola è un ammasso di scogli, ed in tutta la sua estensione non vi è forse un palmo di terreno coltivabile.”
“E a chi appartiene?”
“Alla Toscana.”
“E qual selvaggina vi si trova?”
“Migliaia di capre selvagge.”
“Che vivono leccando delle pietre?” disse Franz con un sorriso d’incredulità.
“No, ma sfrondando le macchie, i mirti, e gli alti pruni che nascono tra i massi.”
“Ma dove dormirò?”
“O a terra, o nelle grotte, o a bordo, avvolto nel vostro mantello. D’altra parte, se Vostra Eccellenza lo desidera, potremo partir subito dopo la caccia: sa che noi navighiamo tanto di giorno quanto di notte, e che quando non lavorano le vele, lavoriamo coi remi.”
Rimanendogli ancora del tempo prima di raggiungere il compagno, e non avendo più inquietudini per l’alloggio in Roma, Franz accettò la proposta di rifarsi della sua prima caccia.
Alla risposta affermativa, i marinai si scambiarono alcune parole a voce bassa.
“Ebbene, che abbiamo di nuovo?” domandò. “Sarebbe sopraggiunta qualche difficoltà?”
“No” rispose il padrone, “ma dobbiamo avvertirvi che l’isola di Montecristo è in contumacia.”
“E che significa questo?”
“Vuol dire, siccome Montecristo è disabitata, e qualche volta serve di fermata a contrabbandieri e pirati che vengono dalla Corsica e dall’Africa, se qualche segno denuncia il nostro soggiorno nell’isola, saremo costretti al nostro ritorno in Livorno, a fare una quarantena di sei giorni.”
“Diavolo! Questo cambia tutto: sei giorni! Sarebbe troppo.”
“Ma chi dirà che Vostra Eccellenza è stata a Montecristo?”
“Oh, questo non importa.”
“Oh, ma non sarò io certamente…” grido Gaetano.
“E neppure noi!” dissero i marinai.
“In questo caso, andiamo a Montecristo.”
Il padrone comandò la manovra, volse la prua sull’isola, e la barca si avviò da quella parte.
Franz lasciò compiere l’operazione, e quando ormai si era nella nuova rotta, quando la vela fu gonfia dalla brezza, e i quattro marinai ebbero preso il loro posto, tre davanti ed uno al timone, riannodò la conversazione.
“Mio caro Gaetano” disse al padrone, “voi mi diceste, credo, che l’isola di Montecristo serve da rifugio a contrabbandieri e pirati, e ciò mi pare ben altra selvaggina che le capre selvatiche.”
“Sì, Eccellenza, questa è la verità.”
“Sapevo esservi dei contrabbandieri, ma credevo che dopo la presa di Algeri, e la distruzione della reggenza, i pirati non esistessero più che nei romanzi di Cooper e del capitano Marryat.”
“Ebbene, Vostra Eccellenza sbaglia. Accade dei pirati come degli assassini, che quantunque siano creduti sterminati, pure aggrediscono tutti i giorni i viaggiatori fin sotto le porte delle città. È successo presso Velletri, saranno appena sei mesi. Se Vostra Eccellenza abitasse a Livorno, come facciamo noi, sentirebbe dire, di tempo in tempo, che un piccolo bastimento carico di mercanzie, o un bel yacht inglese che era aspettato a Bastia, a Portoferraio o a Civitavecchia, non è più arrivato, e non si sa che ne sia avvenuto; e che senza dubbio si sarà sfracellato contro qualche scoglio. Ma lo scoglio che ha incontrato è una barca bassa e stretta, montata da sei o otto uomini che lo hanno sorpreso e saccheggiato in una notte oscura e tempestosa, nei dintorni di un qualche isolotto selvaggio e disabitato, non diversamente dagli assassini che arrestano e spogliano una carrozza di posta all’angolo di un bosco.”
“Ma infine” riprese Franz sempre steso nella barca, “perché quelli ai quali accadono simili disgrazie non fanno le loro denunzie? perché non richiamano su questi pirati la vigilanza del governo francese, sardo o toscano?”
“Perché?” disse ridendo Gaetano.
“Sì perché?”
“Perché prima si trasporta dal bastimento o dallo yacht sulla barca tutto ciò che vi è di meglio da prendersi; quindi si legano mani e piedi a tutto l’equipaggio, e si attacca al collo di ciascuno una palla da ventiquattro, poi si fa un bel foro, come quello di un barile, nella chiglia del bastimento catturato, si risale sul ponte, si chiude il boccaporto, e si passa sulla barca. In capo a dieci minuti il bastimento comincia a lamentarsi, e gemere. Un poco alla volta affonda. Dapprima cala una delle sue parti poi la rialza, quindi s’immerge di nuovo affondando sempre più. D’improvviso scoppia un rumore simile a quello di una cannonata: è l’acqua che infrange il ponte. Allora il bastimento si dibatte come chi sta per annegarsi, divenendo sempre più pesante. Ben presto l’acqua, troppo compressa nelle cavità, prorompe da tutte le aperture, simile alle colonne liquide che soffiano dalle narici le gigantesche balene. Finalmente manda un ultimo strepito, fa un giro su se stesso, ed affonda scavando nell’abisso una vasta tromba che per un momento si aggira, si ricolma a poco a poco, e finisce per cancellarsi del tutto, tanto bene che in capo a cinque minuti non c’è che l’occhio di Dio che possa andare a discernere nel fondo del mare il bastimento sparito. Comprenderete ora in qual modo il bastimento non ritorna in porto, e perché l’equipaggio non fa le sue querele?”
Se Gaetano avesse raccontata la cosa prima di proporre la spedizione, è probabile che Franz vi avrebbe pensato due volte prima d’intraprenderla, ma la barca vogava nella direzione dell’isola, e gli sembrò che sarebbe stata una viltà ritornare indietro.
Franz era uno di quegli uomini che non corrono mai incontro al pericolo, ma che, se il pericolo viene innanzi a loro, conservano una prontezza d’animo inalterabile per combatterlo; era uno di quegli uomini di volontà fredda, che guardano un pericolo nella vita come un avversario in un duello, che ne calcolano i movimenti, che ne studiano la forza, che indietreggiano spesso per prender fiato, e per non comparir vili, infine che, conoscendo con un solo sguardo tutti i loro vantaggi, ammazzano con un solo colpo.
“Bah” disse, “ho traversato la Sicilia e la Calabria, ho navigato due mesi nell’arcipelago, e non ho veduto mai l’ombra di un bandito o di un pirata.”
“Non ho raccontato tutto questo a Vostra Eccellenza” disse Gaetano, “per farla rinunciare al progetto; mi ha fatto delle domande, ed io ho risposto.”
“Sì, mio caro Gaetano, la vostra conversazione è attraente; e siccome voglio goderne il più lungamente possibile, così andiamo a Montecristo.”
Frattanto si accostavano rapidamente al termine del loro viaggio, il vento era favorevole, e la barca faceva sei miglia l’ora. Man mano che si avvicinavano, l’isola sembrava sorgere gigantesca dal seno del mare e, attraverso l’atmosfera limpida degli ultimi raggi del giorno, si distinguevano come le palle ammonticchiate in un arsenale, gli scogli messi a piramide l’un sopra l’altro, e negli interstizi di quelli si vedevano rosseggiare le macchie e verdeggiare gli alberi. In quanto ai marinai, quantunque sembrassero perfettamente tranquilli, era però evidente che stavano all’erta, e che i loro sguardi scrutavano il vasto specchio su cui navigavano, e l’orizzonte, soltanto popolato da qualche barca peschereccia, le cui vele bianche si libravano, come allodole, sulla cima dei flutti.
Erano distanti soltanto una quindicina di miglia da Montecristo, quando il sole declinò dietro la Corsica, le cui montagne comparivano a destra, delineando nel cielo il loro irregolare profilo, e mostrando ancora illuminata l’estremità di quella massa di pietre, che pari al gigante Adamastor, s’innalzavano davanti alla barca.
Poco per volta l’ombra salì dal mare, e sembrò scacciare dinanzi a sé gli ultimi riflessi del giorno che stava per finire; poi il raggio luminoso fu spinto fino alla cima del cono, ove si fermò un momento, come il pennacchio infiammato di un vulcano; finalmente l’ombra sempre crescente invase progressivamente la sommità come aveva invaso la base, e l’isola non apparve più che una montagna grigia che andava sempre più oscurandosi: mezz’ora dopo era notte perfetta.
Fortunatamente i marinai erano nei loro abituali paraggi, e conoscevano fin l’ultimo degli scogli dell’arcipelago toscano; poiché in mezzo all’oscurità profonda nella quale era involta la barca, Franz non sarebbe stato del tutto senza inquietudine.
La Corsica era interamente sparita, e l’isola di Montecristo era divenuta invisibile; ma i marinai sembravano avere, come le linci, la facoltà di vedere fra le tenebre, e il pilota che regolava il timone non mostrava il più piccolo dubbio.
Era passata circa un’ora dopo il tramonto del sole, quando Franz credette scorgere ad un quarto di miglio a sinistra una massa nera, ma era tanto impossibile distinguere ciò che fosse, che temendo di muovere a riso i marinai, scambiando una nube per la terra ferma, stette zitto.
D’improvviso apparve una gran luce, la terra poteva assomigliare ad una nube, ma quel fuoco non poteva credersi una meteora.
“Che cosa è quella luce?” domandò Franz.
“Zitto!” disse Gaetano. “È un fuoco.”
“Ma non diceste che l’isola è disabitata?”
“Dissi che non aveva una popolazione fissa, ma dissi pure che questo luogo è rifugio dei contrabbandieri.”
“E dei pirati?”
“E dei pirati” continuò Gaetano, ripetendo le parole di Franz, “ed è perciò che ho dato ordine di passare oltre, poiché, come vedete, ora il fuoco è dietro a noi.”
“Ma questo fuoco” continuò Franz, “mi sembra piuttosto un motivo di sicurezza che d’inquietudine: gente che temesse di essere veduta non accenderebbe il fuoco.”
“Oh, questo non vuol dir niente” rispose. “Se voi in mezzo a questa oscurità poteste giudicare della posizione dell’isola, vedreste che questo fuoco in quel punto, non può essere scorto, né dalla Corsica, né dalla Pianosa, ma soltanto in alto mare.”
“Credete che annunci cattiva compagnia?”
“Questo è da stabilire!” rispose Gaetano, tenendo sempre gli occhi fissi sull’isola.
“E come volete assicurarvene?”
“State a vedere.”
A queste parole, Gaetano tenne un breve consiglio coi compagni, e dopo cinque minuti venne eseguita nel più gran silenzio una virata di bordo allora si riprese il cammino già fatto, e qualche secondo dopo questo cambiamento di direzione il fuoco disparve nascosto dietro un picco roccioso. Allora il pilota dette al piccolo bastimento, con una girata di timone, una nuova direzione, e si avvicinarono visibilmente all’isola distante circa cinquanta passi.
Gaetano tolse la vela, e la barca rimase quieta sull’onda.
Tutto ciò fu fatto nel più gran silenzio; dopo il cambiamento di rotta non era stata pronunciata una parola a bordo. Gaetano, che aveva proposta la spedizione, ne aveva presa sopra di sé tutta la responsabilità.
Gli altri tre marinai mentre preparavano i remi, e stavano pronti a fuggire remando, non toglievano lo sguardo da lui per eseguire qualsiasi manovra che lor venisse ordinata da un gesto, e che per l’oscurità si sarebbe potuta eseguire molto facilmente.
Franz visitava le armi colla prontezza d’animo che abbiamo in lui riconosciuta. Aveva due fucili a due canne ed una carabina, li caricò, si assicurò degli acciarini, e aspettò.
Durante questo tempo Gaetano s’era tolto il cappotto e la camicia, aveva assicurati i calzoni intorno ai fianchi e siccome aveva i piedi nudi, si risparmiò la pena di levarsi le calze e le scarpe.
Così abbigliato, si mise l’indice della mano davanti alle labbra per ordinare il più profondo silenzio, e si lasciò immergere in mare. Nuotò verso l’isola con tale cautela che riusciva impossibile discernere il più piccolo rumore. Si poteva soltanto seguire collo sguardo la traccia del suo nuotare dalla scia fosforescente lasciata dai suoi movimenti.
Questa scia ben presto disparve: era segno evidente che Gaetano aveva preso terra. Sul piccolo bastimento rimasero tutti immobili per una mezz’ora, trascorsa la quale, si vide ricomparire dalla riva alla barca la scia luminosa.
In pochi momenti Gaetano aveva raggiunta la barca.
“Ebbene?” fecero ad un tempo Franz ed i tre marinai.
“Ebbene” disse, “sono contrabbandieri spagnoli; e hanno con loro due banditi corsi.”
“E che fanno questi contrabbandieri spagnoli?”
“Eh, mio Dio, Eccellenza” rispose Gaetano con un accento di vivo amore del prossimo, “bisogna bene aiutarsi gli uni con gli altri. Spesse volte i banditi vengono un poco troppo inquietati sulla terra; allora ritrovano una barca, ed in essa dei buoni diavoli come noi; vengono a domandarci l’ospitalità nella nostra casa galleggiante. Non si può fare a meno di prestare soccorso ad un povero diavolo perseguitato; noi li riceviamo a bordo, e per maggior sicurezza prendiamo il largo. Ciò non costa nulla, e salva per lo meno la vita a qualcuno dei nostri simili, il quale, all’occasione, sa essere riconoscente del servizio reso, indicandoci un buon luogo ove sbarcare le nostre mercanzie senza essere incomodati dai curiosi.”
“Va bene” disse Franz. “Anche voi, mio caro Gaetano, siete dunque un po’ contrabbandiere?”
“Eh, che volete” disse, con un sorriso impossibile a descriversi, “si fa un po’ di tutto; bisogna pur vivere.”
“Allora voi siete con amici quando vi trovate cogli attuali abitatori dell’isola di Montecristo.”
“Pressappoco… Noi marinai abbiamo alcuni segni per riconoscerci.”
“E credete che non avremo nulla a temere sbarcando anche noi?”
“Assolutamente nulla! I contrabbandieri non sono ladri!”
“Ma questi due banditi corsi…” riprese Franz, calcolando prima tutte le eventualità del pericolo.
“Eh, mio Dio” disse Gaetano, “non è colpa loro se sono banditi, ma colpa altrui.”
“In che modo?”
“Senza dubbio, essi sono perseguitati non per altro, che per aver fatta la pelle a qualcuno, mossi da spirito di vendetta (del che non li lodo), ma pure accade così.”
“Che intendete col fare la pelle? Avere assassinato un uomo?” disse Franz.
“Intendo avere ucciso un nemico!” rispose il pilota. “Il che è molto diverso.”
“Ebbene” disse il giovane, “andiamo dunque a domandare ospitalità ai contrabbandieri ed ai banditi. Credete che ci verrà accordata?”
“Senza alcun dubbio.”
“Quanti sono?”
“Tre contrabbandieri e due banditi.”
“Va bene, sono appunto in numero pari al nostro: noi siamo in forza uguale, nel caso che questi signori mostrassero cattive intenzioni, e per conseguenza in grado di poter contenerli. Per l’ultima volta dunque: andiamo a Montecristo.”
“Sì, Eccellenza… Ma ci permette ancora di prendere qualche cautela?”
“E in qual modo, mio caro? Siete saggio come Nestore, e prudente come Ulisse. Intanto faccio ancor più che permettervelo, perché ve ne prego.”
“Ebbene, silenzio allora!” disse Gaetano.
Tutti tacquero.
Per un uomo come Franz che osservava tutte le cose nel loro vero punto di vista, la situazione, senza essere pericolosa non era però priva di una certa gravità. Egli si trovava nella più profonda oscurità, isolato in mezzo al mare con marinai che non conosceva, che non avevano alcuna ragione d’essergli affezionati, e che sapevano che aveva nella ventriera qualche migliaio di franchi, e che per più volte, se non invidiato, avevano almeno esaminate con molta curiosità le sue armi, che erano bellissime.
D’altra parte egli approdava con questa sorta di uomini in un’isola che, sebbene portasse un nome molto religioso, non sembrava, dati i tre contrabbandieri e i due banditi, promettere un’ospitalità molto caritatevole poi la storia dei bastimenti mandati a fondo, che di giorno gli era sembrata esagerata, di notte gli apparve verosimile. Posto fra questi due pericoli, forse immaginari, ma fors’anche reali, non abbandonava i suoi uomini con gli occhi, né il fucile con la mano. I marinai avevano nuovamente spiegata la vela ed avevano preso la scia già percorsa nell’andare e venire.
Attraverso l’oscurità, Franz, un poco abituato alle tenebre, distingueva il gigante di granito che la barca andava costeggiando; poi finalmente, oltrepassando di nuovo l’angolo di una roccia, scoperse il fuoco che brillava più vivamente che mai, e intorno al quale erano sedute quattro, o cinque persone.
Il riverbero del fuoco si estendeva a un centinaio di passi nel mare.
Gaetano costeggiò la luce, mantenendo sempre la barca nella parte meno illuminata; quindi, quando fu tutta dirimpetto al fuoco, volse su quello, ed entrò nel cerchio luminoso, intonando una canzone da pescatori di cui cantava le strofe egli solo, ed i compagni ripetevano in coro il ritornello.
Alla prima parola della canzone, gli uomini intorno al fuoco si erano alzati; e si erano avvicinati al molo, con gli occhi fissi sulla barca, sforzandosi visibilmente di giudicarne la forza, e d’indovinarne le intenzioni.
Ben presto parve che avessero fatto un esame sufficiente, e ad eccezione di uno che rimase in piedi a fare la sentinella, gli altri andarono a sedersi intorno al fuoco davanti al quale veniva arrostito un capretto tutto intero.
Quando il battello fu a venti passi dalla terra, l’uomo che stava di sentinella sulla spiaggia fece macchinalmente colla carabina un atto simile a quello di un soldato in fazione quando aspetta la pattuglia, e gridò, Chi vive, in dialetto sardo.
Franz montò freddamente i due fucili, Gaetano scambiò con quest’uomo alcune parole che il viaggiatore non capì, ma che dovevano necessariamente riguardarlo, perché Gaetano volgendosi gli chiese:
“Vostra Eccellenza vuol dire il suo nome, o conservare l’incognito?”
“Il mio nome dev’esser del tutto sconosciuto a questi signori” rispose Franz, “dunque dite loro soltanto che io sono un francese che viaggia per diletto.”
Allorché Gaetano ebbe trasmessa questa risposta, la sentinella dette un ordine ad uno degli uomini intorno al fuoco che subito si alzò, e disparve fra le rocce.
Seguì un silenzio di qualche minuto.
Ciascuno sembrava preoccupato dei propri affari: Franz dello sbarco, i marinai delle vele, i contrabbandieri del loro capretto; ma in mezzo a questa apparente noncuranza tutti si osservavano attentamente. L’uomo che si era allontanato ricomparve presto dal lato opposto a quello da cui era sparito; fece un segno colla testa alla sentinella, che voltandosi alla barca si limitò a dire: S’accomodi.
Il s’accomodi degli italiani non è traducibile in altra lingua: significa ad un tempo: “Venite, entrate, siate il benvenuto, fate come se foste in casa vostra, voi siete il padrone”, il s’accomodi è quella frase turca di Molière che meravigliava tanto il gentiluomo borghese per la quantità di significati che conteneva. I marinai non se lo fecero dire due volte, in due colpi di remi, la barca toccò terra.
Gaetano saltò a prua, scambiò ancora qualche parola a voce bassa con la sentinella, i compagni discesero l’un dopo l’altro, quindi toccò finalmente a Franz.
Egli aveva uno dei fucili a bandoliera, Gaetano l’altro: uno dei marinai teneva la carabina. Il vestito, un misto del costume di un artista e di un dandy, non ispirò alcun sospetto ai suoi ospiti e per conseguenza nessuna inquietudine. Assicurata la barca alla spiaggia, si avviarono per cercare un comodo spazio al bivacco; ma la direzione che presero non piaceva al contrabbandiere che faceva le funzioni di vigilare, perché gridò a Gaetano:
“Non da quella parte!”
Gaetano balbettò una scusa, e senza aggiungere parola si mosse verso la parte opposta, mentre i due marinai accesero dei rami d’albero al fuoco per farne una torcia e illuminare il sentiero.
Fecero circa trenta passi e si fermarono sopra una piccola spianata, tutta circondata di rocce nelle quali erano stati scolpiti alcuni sedili, incavati in modo che si poteva stare seduti al coperto. Intorno verdeggiavano alcune querce selvagge e dei cespugli di mirto.
Franz prese uno dei rami accesi che servivano da torcia, e fu il primo a riconoscere dalla comodità del luogo, che questa doveva essere una delle soste abituali dei visitatori dell’isola di Montecristo.
Quanto alla sua aspettativa di disavventure, era cessata; una volta messo piede a terra, una volta constatata la disponibilità se non amichevole, almeno indifferente dei suoi ospiti, ogni preoccupazione era sparita, e all’odore del capretto che arrostiva nel vicino bivacco, la preoccupazione era cambiata in appetito.
Disse due parole a Gaetano, e questi rispose che nulla era più facile quanto l’allestire una cena in pochi minuti, avendo nella barca del pane, del vino, le pernici prese alla caccia, e un buon fuoco per farle arrostire.
“D’altra parte” aggiunse, “se Vostra Eccellenza è tentato dall’odore del capretto, posso andare dai nostri vicini con due dei vostri uccelli ed offrirli in cambio di un pezzo del loro capro.”
“Fate” disse Franz, “fate pure, Gaetano, voi siete nato veramente col genio di negoziare.”
Nel frattempo i marinai avevano divelto dei rami dalle macchie, e fatti dei fasci di mirto e di querce verdi, a cui avevano dato fuoco, un focolare molto rispettabile. Franz aspettò dunque con impazienza (annusando sempre l’odore del capretto) il ritorno del pilota, ed allorché questi ricomparve, aveva un aspetto molto preoccupato.
“Ebbene” domandò, “che abbiamo di nuovo? è stata rifiutata la nostra offerta?”
“Al contrario” disse Gaetano, “il capo, cui è stato detto che voi siete un gentiluomo francese, v’invita a cena con lui.”
“Va bene” disse Franz, “è un uomo molto civile questo capo, e non vedo perché dovrei ricusare, tanto più che porto la mia parte di cena.”
“Oh, non è questo, egli ha di che cenare e al di là del bisogno, ma mette una singolare condizione alla vostra visita in casa sua.”
“In casa sua?” disse il giovane. “Ha dunque fatto costruire una casa?”
“No, ma possiede un appartamento molto comodo, almeno a quanto si assicura.”
“Dunque conoscete questo capo?”
“Ne ho soltanto sentito parlare.”
“In bene o in male?”
“In tutti e due i modi.”
“Che diavolo! E qual è la condizione che m’impone?”
“Che vi lasciate bendare gli occhi, e che non tentiate di togliervi la benda che quando ve lo dirà lui stesso.”
Franz indagò per quanto possibile lo sguardo di Gaetano per sapere ciò che nascondeva questa proposta.
“Oh, diavolo” riprese questi, rispondendo al pensiero di Franz. “Io so bene, la cosa merita molta riflessione.”
“Che fareste voi al posto mio?” chiese il giovane.
“Io, che non ho niente da perdere, accetterei.”
“Accettereste?”
“Non foss’altro che per curiosità.”
“Vi è dunque qualche cosa di curioso da vedere presso questo capo?”
“Ascoltate” disse Gaetano abbassando la voce, “io non so se tutto ciò che si dice è vero.”
Qui si fermò guardando attorno se qualche estraneo ascoltava.
“E che si dice?”
“Si dice che questo personaggio abiti un palazzo sotterraneo, in paragone del quale il palazzo Pitti è poca cosa.”
“Questo è un sogno!” disse Franz.
“Oh, non è un sogno, è una realtà. Cama, il pilota del San Ferdinando, vi entrò un giorno, e ne uscì tutto meravigliato, dicendo che simili tesori non si trovano che nei racconti delle fate.”
“Ma sapete voi” disse Franz, “che con simili parole mi fareste credere di dover discendere nella caverna di Alì Babà!”
“Dico ciò che mi è stato detto, Eccellenza.”
“Allora mi consigliate di accettare?”
“Oh, non dico questo, Vostra Eccellenza faccia ciò che meglio crede; non vorrei darvi un consiglio in un simile frangente.”
Franz rifletté per qualche momento, e comprese che quest’uomo così ricco non poteva aver preso di mira lui che non portava altro che qualche migliaio di franchi: e siccome in tutto questo non intravedeva che un’eccellente cena, accettò.
Gaetano andò a portare la risposta.
Abbiamo detto che Franz era prudente; e per questo volle raccogliere quanti più particolari possibile su un ospite così strano e misterioso. Si rivolse dunque ad un marinaio, che durante questo tempo aveva spennato le pernici con la gravità di un uomo fiero delle sue funzioni, e gli chiese con che barca questi uomini avevano potuto approdare, non vedendo né barche, né speroniere, né tartane.
“Oh, non è questo che mi dà pensiero” disse il marinaio, “conosco il bastimento sul quale montano.”
“È un bel bastimento?”
“Ne auguro a Vostra Eccellenza uno simile per fare il giro del mondo.”
“E di che stazza?”
“Di circa cento tonnellate. Del resto è un bastimento da diporto, uno yacht, come dicono gli inglesi, ma costruito in modo da potersi tenere in mare per lungo viaggio.”
“E dov’è stato costruito?”
“Non so, ma credo a Genova.”
“E come mai un capo di contrabbandieri” continuò Franz, “osa far costruire uno yacht per il suo commercio clandestino in un porto di Genova?”
“Non ho detto che il proprietario di questo yacht sia un capo di contrabbandieri.”
“No, ma mi sembra che lo abbia detto Gaetano.”
“Gaetano aveva visto gli uomini dell’equipaggio da lontano, e quando lo disse non aveva ancora parlato ad alcuno.”
“Ma se quest’uomo non è un capo di contrabbandieri, chi è mai?”
“È un ricco signore che viaggia per diletto.”
“Andiamo avanti” pensò Franz, “il personaggio diventa sempre più misterioso, poiché i racconti sono diversi” e disse: “Come si chiama?”.
“Quando gli si domanda, risponde che si chiama Sindbad il marinaio; ma dubito che questo sia il suo vero nome.”
“Sindbad il marinaio?”
“Sì.”
“E dove abita questo signore?”
“Sul mare.”
“Di quale paese è?”
“Non lo so.”
“L’avete mai veduto?”
“Qualche volta.”
“Che uomo è?”
“L’Eccellenza Vostra ne giudicherà da se stessa.”
“E dove mi riceverà?”
“Senza dubbio nel palazzo sotterraneo di cui vi ha parlato Gaetano.”
“E non avete mai avuto la curiosità quando siete venuto qui ed avete trovata l’isola deserta, di cercare di penetrare in questo palazzo incantato?”
“Oh, davvero, Eccellenza, e più d’una volta, ma le nostre ricerche sono sempre riuscite inutili. Noi abbiamo cercato la grotta dappertutto, e non abbiamo trovato il più piccolo passaggio. Si dice però che la porta non si apra con una chiave, ma con una parola magica.”
“Andiamo pur innanzi” mormorò Franz, “eccomi capitato in uno dei racconti delle Mille e una notte.”
“Sua Eccellenza vi aspetta” disse una voce dietro a lui, che riconobbe per quella della sentinella.
Il nuovo arrivato era accompagnato da due altri uomini dell’equipaggio dello yacht.
Per tutta risposta, Franz si cavò di tasca il fazzoletto e lo presentò a colui che aveva parlato. Senza dire una parola, gli furono bendati gli occhi con molta cautela; gli fu fatto giurare che non avrebbe tentato in nessun modo di togliersi la benda prima che fosse invitato a farlo.
Egli giurò.
Allora i due uomini lo presero ciascuno per un braccio, e s’incamminò guidato da essi e preceduto dalla sentinella. Dopo una trentina di passi sentì dal calore della brace e dall’odore sempre più appetitoso del capretto che ripassava davanti al bivacco, quindi gli venne fatta continuare la strada per altri cinquanta passi, inoltrandosi evidentemente verso la parte dove la sentinella non aveva permesso a Gaetano di penetrare, proibizione che ora si capiva.
Ben presto un cambiamento di atmosfera avverti Franz che entrava in un sotterraneo. Dopo alcuni secondi di cammino sentì aprirsi una porta, e gli sembrò che l’atmosfera mutasse di natura, diventasse tiepida e profumata, e s’accorse allora che i piedi posavano sopra un tappeto fitto e morbido; in quel momento le guide lo abbandonarono.
Si fece un breve silenzio, ed una voce disse in buon francese, quantunque con un accento straniero:
“Signore, siete il benvenuto in casa mia, e potete togliervi la benda.”
Come si intuiva facilmente, Franz non si fece ripetere l’invito due volte, si levò il fazzoletto, e si ritrovò dirimpetto a un uomo sui trentotto quaranta anni che indossava un costume tunisino, vale a dire una calotta rossa con una lunga nappa di seta turchina, una veste di panno nero tutta ricamata d’oro, pantaloni color sangue di bue larghi e gonfi, le ghette dello stesso colore orlate d’oro come la veste, ed i pianelli gialli, una magnifica sciarpa di cachemire gli cingeva la vita al disopra dei fianchi, e un piccolo cangiar acuto e ricurvo passava dentro alla cintura.
Quantunque di un pallore quasi livido, quest’uomo aveva una fisionomia molto bella: gli occhi erano vivi e penetranti, il naso dritto, e quasi a livello della fronte, tradiva il tipo greco in tutta la sua purezza, e i denti bianchi come perle spiccavano mirabilmente sotto i baffi neri. Soltanto questo pallore era strano: si sarebbe detto un uomo rinchiuso da lungo tempo in una tomba che non avesse potuto riprendere la carnagione dei vivi.
Senza essere di grande persona, era ben fatto, e come gli uomini del mezzogiorno, aveva le mani e i piedi piccoli. Ma ciò che meravigliò Franz, che aveva trattato da visionario Gaetano, fu la sontuosità degli arredi.
Tutta la camera era parata di stoffa turca di color cremisi tessuta a fiori d’oro.
In un vano c’era una specie di sofà sormontato da un trofeo di armi coi foderi di argento dorato e tempestate di pietre risplendenti; dal soffitto pendeva una lampada di cristallo di Venezia di un color grazioso, e i piedi posavano su un tappeto turco.
Magnifiche le portiere per le quali entrò Franz, e davanti ad un’altra porta che metteva in una seconda camera splendidamente illuminata.
L’ospite lasciò Franz per alcuni momenti tutto stupito, intanto non tralasciava di esaminarlo da capo a piedi.
“Signore” disse finalmente, “vi chiedo perdono delle cautele che son costretto a prendere con quelli che vengono introdotti qui, ma siccome la maggior parte dell’anno, quest’isola è deserta, se il segreto di questa dimora fosse conosciuto, al mio ritorno, senza dubbio, troverei questo mio rifugio in cattivo stato; cosa che mi dispiacerebbe immensamente, non per la perdita che mi causerebbe, ma perché non avrei più la certezza di potermi separare dal resto del mondo quando me ne venisse la volontà. Frattanto cercherò di farvi dimenticare questo piccolo disturbo con l’offrirvi ciò che non avreste certamente creduto di ritrovar mai in quest’isola, una cena passabile ed un letto abbastanza buono.”
“In fede mia, caro ospite” rispose Franz, “non vedo perché dobbiate fare scuse: ho sempre saputo che si bendano gli occhi alle persone che entrano nei palazzi incantati, vedete Raul negli Ugonotti, e veramente non posso lamentarmi, perché ciò che mi mostrate appartiene alle meraviglie delle Mille e una notte.”
“Ah, potrei dirvi come Lucullo, se avessi saputo di avere l’onore di una vostra visita, mi sarei preparato. Ma infine metto a vostra disposizione il mio eremo com’è; e vi offro la mia cena, per quanto poca cosa. Alì, è pronto?”
Nel medesimo istante la portiera si sollevò, e un moro della Nubia, nero come l’ebano, e vestito d’una semplice tonaca bianca, fece segno al padrone che poteva passare nella camera da pranzo.
“Ora” disse lo sconosciuto a Franz, “non so se siate del mio avviso, ma trovo che non vi è niente di più incomodo quanto restare due o tre ore in una stanza, senza sapere con quale nome o qual titolo chiamarsi. Rispetto troppo le leggi dell’ospitalità per non domandarvi né il nome né il titolo; vi prego soltanto di indicarmi come indirizzarvi la parola. In quanto a me, per levarvi ogni incomodo, vi dirò che hanno l’abitudine di chiamarmi Sindbad il marinaio.”
“Ed io” rispose Franz, “vi dirò, che siccome non mi manca altro, per essere nella situazione di Aladino, che la famosa lampada meravigliosa, così non trovo nessuna difficoltà che per il momento mi chiamiate Aladino. Così non andremo fuori di Oriente, dove son tentato di credere di essere stato trasportato dalla potenza di qualche buon genio.”
“Ebbene, signor Aladino” disse lo strano anfitrione, “avete inteso che è tutto preparato? Abbiate dunque il disturbo di passare nella sala da pranzo; il vostro umilissimo servitore andrà innanzi per indicarvi il cammino.”
A queste parole venne sollevata la portiera, e Sindbad passò effettivamente davanti a Franz.
Franz passava da incanto in incanto: la tavola era splendidamente apparecchiata.
Una volta convinto di questo punto importante, girò lo sguardo intorno a sé.
La sala da pranzo non era meno splendida dell’altra: essa era tutta in marmo con bassorilievi antichi del maggior prezzo, e ai quattro angoli di questa sala alquanto bislunga stavano quattro statue con in capo dei cestelli contenenti delle piramidi di frutta magnifiche: ananas di Sicilia, mele granate di Malaga, portogalli delle isole Baleari, pesche di Francia e datteri di Tunisi.
La cena si componeva di un fagiano arrostito con contorno di merli di Corsica, un cosciotto di cinghiale con la gelatina, un quarto di capretto alla tartara, e una gigantesca aragosta; tra i piatti, piattini che contenevano antipasti. I piatti erano d’argento, i piattini di porcellana del Giappone. Franz si strofinò gli occhi per assicurarsi bene che non stravedeva. Alì solo era impiegato a fare il servizio e se ne disimpegnava molto bene.
Il convitato fece i complimenti al suo ospite.
“Sì” disse questi facendo gli onori della cena con molta disinvoltura, “sì, questo povero diavolo mi è molto affezionato, e fa il meglio che può. Si ricorda che gli ho salvato la vita, e siccome ama molto la vita, a quanto pare, mi professa della riconoscenza per avergliela conservata.”
Alì, quantunque non intendesse una parola in francese, accorgendosi dagli sguardi di Sindbad che parlava di lui, si avvicinò alla tavola, prese la mano del padrone e la baciò.
“Sarei troppo indiscreto, signor Sindbad, se vi chiedessi in quale occasione faceste un così bell’atto?”
“Oh, mio Dio, è una cosa ben semplice. Sembra che il furbo avesse ronzato vicino al serraglio del Bey di Tunisi, più di quel che fosse conveniente ad uno del suo colore, per cui venne condannato dal Bey ad avere la lingua, la mano e la testa tagliate; la lingua il primo giorno la mano il secondo, e la testa il terzo. Avevo sempre desiderato di avere un muto al mio servizio: aspettai che gli fosse tagliata la lingua e andai a proporre al Bey di darmelo in cambio di un magnifico fucile a due canne che il giorno prima mi era sembrato avesse destato i desideri di Sua Altezza. Egli stette per un momento in forse, tanto gli premeva di finirla con questo povero diavolo. Ma io aggiunsi subito al fucile un coltello da caccia inglese, col quale avevo spezzato il guatan di Sua Altezza; il Bey si risolvette a fargli grazia della mano destra e della testa, a condizione però che non avrebbe mai più messo piede in Tunisi. La raccomandazione era inutile. Quando il miscredente vede le coste d’Africa, per quanto siano lontane, corre a salvarsi nel fondo del bastimento, e non si può farlo uscire di là che quando si è fuori vista della terza parte del mondo.”
Franz restò un poco muto e pensieroso cercando ciò che doveva pensare della crudele bonarietà con la quale il suo ospite gli aveva fatto questo racconto.
“E voi passate la vostra vita” disse, cercando di cambiare conversazione, “viaggiando come il degno marinaio di cui avete preso il nome?”
“Sì, è un voto che feci in tempi nei quali non credevo di poterlo compiere…” disse lo sconosciuto sorridendo. “Ne ho fatti pure alcuni altri in questo modo, e spero ben presto poterli compiere.”
Quantunque Sindbad avesse pronunciate tali parole con la più grande pacatezza, pure i suoi occhi avevano lanciato uno sguardo di selvaggia ferocia.
“Voi avete molto sofferto, signore?” disse Franz.
“Da che lo arguite?” disse.
“Da tutto” rispose Franz, “dalla vostra voce, dal vostro sguardo e dalla vita stessa che conducete.”
“Io conduco la vita più felice che si conosca, una vera vita da pascià: mi piace un luogo, vi resto, me ne annoio, parto: sono libero come l’uccello, ho le ali come lui. Le genti che mi circondano mi obbediscono; e qualche volta mi diverto ad inceppare la giustizia umana o togliendole un bandito che cerca, o un galantuomo che perseguita. Poi ho la mia giustizia; giustizia alta e bassa senza dilazione, senza appello, che condanna o assolve ed alla quale nessuno può obiettare. Ah, se aveste gustata la mia vita, non ne vorreste altra, e non rientrereste giammai nel mondo, a meno che non aveste da compiere un qualche gran compito.”
“Una vendetta, per esempio!” disse Franz.
Lo sconosciuto fissò sul giovane uno di quegli sguardi che penetrano nel più profondo del cuore e del pensiero.
“E perché una vendetta?” domandò.
“Perché” soggiunse Franz, “voi avete l’aspetto di un uomo che, perseguitato dalla società, ha qualche terribile conto da regolare.”
“Ebbene” disse Sindbad, ridendo con quello strano riso che mostrava i denti bianchi ed acuti, “non avete indovinato. Io sono una specie di filantropo, e forse un giorno andrò a Parigi per far conoscenza col signor Appert, l’uomo dal piccolo mantello blu.”
“E sarà la prima volta che farete questo viaggio?”
“Oh, mio Dio, sì… Ho l’aspetto di essere ben poco curioso, non è vero? Ma vi assicuro che non fu colpa mia se ho ritardato tanto; ciò accadrà da un giorno all’altro.”
“E pensate di farlo presto questo viaggio?”
“Non lo so ancora; dipende da congiunture sottoposte ad incerte combinazioni.”
“Vorrei esservi al tempo in cui vi verrete; cercherei di rendervi, per quanto mi fosse possibile, l’ospitalità che così largamente mi prodigate a Montecristo.”
“Accetterei la vostra offerta con gran piacere” rispose l’ospite, “ma disgraziatamente, se vi vado, ciò sarà forse in incognito!”
Frattanto la cena si avanzava e sembrava essere stata preparata soltanto per Franz, perché era molto se lo sconosciuto aveva toccato coi denti uno o due piatti dello splendido festino che aveva offerto e al quale il suo inatteso convitato aveva fatto così largamente onore.
Finalmente Alì portò la frutta, o piuttosto prese i cestelli dal capo delle statue e li posò sulla tavola. Fra i quattro cestelli pose una tazza d’argento dorata, chiusa da un coperchio dello stesso metallo.
Il rispetto col quale Alì aveva portata questa tazza punse la curiosità di Franz.
Alzò il coperchio e vide un specie di pasta verdastra che assomigliava alle confetture d’Angelica, ma a lui del tutto sconosciuta.
Rimise il coperchio senza aver saputo che cosa conteneva la tazza, e volgendo gli occhi sul suo ospite vide che sorrideva del suo impaccio.
“Voi non potete indovinare” disse questi, “quale specie di commestibile contenga questo piccolo vaso, e ciò vi dà a pensare… Non è vero?”
“Lo confesso.”
“Ebbene, questa specie di confettura verde è l’ambrosia che Ebe serviva alla tavola di Giove.”
“Ma codesta ambrosia” disse Franz, “passando per le mani degli uomini, avrà certamente perduto il nome celeste per prenderne uno umano. In lingua volgare, come si chiama questo ingrediente per il quale non sento però di avere grande simpatia?”
“Ah, ecco precisamente” gridò Sindbad, “spesse volte noi passiamo molto vicini alla fortuna senza vederla, senza guardarla, senza riconoscerla. Siete un uomo positivo, e l’oro è il vostro idolo? Gustate di questa, e le miniere del Perù, di Gizerate e di Golgonda vi saranno aperte. Siete un uomo di immaginazione? Siete poeta? Gustaste di questa, e le barriere del possibile spariranno; vi si apriranno i campi dell’infinito, e passeggerete libero di cuore, di spirito nei domini senza confine dell’ideale. Siete ambizioso? Correte dietro le grandezze della terra? Gustate di questa, e dopo un’ora sarete idealmente, non re di un piccolo regno nascosto in un angolo d’Europa, come la Francia, la Spagna o l’Inghilterra, ma sarete il Re del mondo. Il vostro trono sarà eretto sopra le montagne di Satanasso e senza aver bisogno di fargli omaggio, senza essere costretto a baciarne gli artigli, sarete il sovrano, padrone di tutti i regni della terra. Non vi tenta ciò che vi offro, dite? Non vi sembra cosa facile? Osservate!”
A queste parole scoprì la piccola tazza di argento dorato che conteneva la sostanza tanto lodata, prese un cucchiaio da caffè di questa confettura magica, la portò alla bocca, e l’assaporò lentamente con gli occhi semichiusi e la testa rovesciata all’indietro.
Franz gli lasciò tutto il tempo di sorbire il suo cibo favorito; poi quando vide che ritornava un poco in sé:
“Ma finalmente che cos’è questa vivanda preziosa?”
“Avete mai inteso parlare del Vecchio della Montagna, quello stesso che volle fare assassinare Filippo Augusto?”
“Senza dubbio.”
“Ebbene, voi sapete che regnava in una ricca vallata dominata dalla montagna di cui aveva preso il nome pittoresco. In questa vallata c’erano magnifici giardini piantati da Hassen-Ben-Sabah, e in questi giardini vi erano dei padiglioni isolati: in questi faceva entrare i suoi eletti, e là faceva loro mangiare, disse Marco Polo, una certa erba che li trasportava nell’Eden, in mezzo a piante sempre fiorite, a frutti sempre maturi. Ora ciò che questi giovani felici prendevano per una realtà non era che un sogno, ma un così dolce, inebriante, un così voluttuoso sogno, che si vendevano interamente a colui che lo elargiva, e gli obbedivano ciecamente. Essi andavano a colpire in capo al mondo la vittima designata, morivano fra i tormenti della tortura senza lamentarsi, nella sola idea che quella morte che soffrivano non era che un passaggio a quella vita di delizie di cui l’erba misteriosa, ora avanti a voi, aveva dato un saggio.”
“Allora” gridò Franz, “è l’hashish. Sì, la conosco, almeno di nome.”
“Precisamente, voi avete detto il suo vero nome, signor Aladino, questo è hashish, tutto ciò che si fa di meglio e di più puro in hashish ad Alessandria, l’hashish d’Abou Gor, il gran confetturiere, l’uomo al quale si dovrebbe fabbricare un palazzo con questa iscrizione:
AL MERCANTE DELLA FELICITA, IL MONDO RICONOSCENTE.”
“Sapete” disse Franz, “che mi viene voglia di giudicare da me stesso quanto v’è di vero nei vostri sperticati elogi?”
“Giudicate: ma non siate soddisfatto di un primo esperimento. Come in tutte le cose, bisogna abituare i sensi ad una così nuova impressione, sia essa dolce o violenta, sia triste o gioconda. Vi è una lotta della natura contro questa portentosa sostanza, della natura che non è fatta per la gioia e che ci avvince al dolore. Bisogna che la natura vinta soccomba nel conflitto; bisogna che la realtà succeda al sogno, e allora il sogno regna come padrone, allora è il sogno che diventa vita, e la vita diviene sogno. Ma qual differenza in questa trasfigurazione! Paragonando i dolori dell’esistenza reale ai godimenti della fittizia, non vorrete più vivere, ma vorrete sempre sognare. Quando lascerete il vostro mondo per passare al mondo degli altri, vi sembrerà di passare ad una primavera napoletana da un inverno della Lapponia. Vi sembrerà di lasciare l’Eden per la terra, il cielo per l’inferno. Gustate dell’hashish mio caro, gustatene!”
Per tutta risposta Franz prese un cucchiaio di questa pasta meravigliosa, misurato sulla quantità che ne aveva presa il suo anfitrione, e la portò alla bocca.
“Diavolo!” disse, dopo avere inghiottito questa pasta divina. “Io non so se il risultato sarà gradevole quanto dite, ma la sostanza non mi sembra tanto saporosa quanto affermavate.”
“Perché le papille del palato non sono ancora adatte alla sublimità della sostanza che gustano. Ditemi, la prima volta che gustaste le ostriche, il tè, il porter, i tartufi, li assaporaste con tanto piacere quanto ne aveste poi in seguito? Comprendereste il piacere che provavano i romani nel condire i fagiani con l’assafetida, ed i cinesi, che mangiano i nidi delle rondinelle? Eh, mio Dio, no. Ebbene, è lo stesso con l’hashish: mangiatene soltanto otto giorni di seguito, e poi, nessun nutrimento al mondo vi sembrerà della squisitezza di questo, che oggi vi sembra forse fetido e nauseante. Ma ora passiamo alla camera vicina, e Alì ci servirà il caffé, e ci darà le pipe.”
Tutti e due si alzarono, e mentre colui cui si è dato il nome di Sindbad, e così chiamato per distinguerlo dal suo convitato, dava alcuni ordini al suo domestico, Franz entrò nella camera attigua.
Questa era arredata più semplicemente quantunque non meno riccamente; di forma rotonda, un gran divano le girava intorno. Ma il divano, i muri, il soffitto, e il pavimento erano ricoperti di magnifiche pelli lisce e morbide come più morbido tappeto; erano pelli di leoni dell’Atlante dalle possenti criniere, pelli di tigri del Bengala dalle calde righe, pelli di pantere del Capo, screziate come quella che apparve a Dante; finalmente pelli d’orsi della Siberia, e di volpi della Norvegia, e tutte gettate in profusione le une sulle altre, dimodoché si sarebbe creduto di camminare sui prati più fioriti, e di riposare sui letti più soffici. Tutti e due si stesero sopra i divani, una quantità di pipe con le canne di gelsomino e le imboccature d’ambra erano a portata di mano, e già preparate affinché non si avesse la noia di fumare due volte nella stessa: ne presero una per ciascuno.
Alì le accese, ed uscì per andare a prendere il caffé.
Vi fu un po’ di silenzio, durante il quale Sindbad si lasciò trasportare dai pensieri che sembrava l’occupassero senza posa anche in mezzo alla conversazione, e Franz si abbandonò a quella muta esaltazione, alla quale si cede quasi sempre fumando un eccellente tabacco, che sembra portar via con la fumata tutte le pene dello spirito, e rendere al fumatore tutti i sogni dell’anima.
Alì portò il caffè.
“Come lo prendete?” disse l’incognito, “alla francese o alla turca, forte o leggero, con zucchero o senza, filtrato o bollito? Scegliete; c’è preparato in tutti i modi.”
“Lo prenderò alla turca” disse Franz.
“E avete ragione: ciò prova che avete disposizione per la vita orientale. Ah, gli orientali, sono i soli che sappiano vivere. In quanto a me” soggiunse, con uno di quei sorrisi singolari che non sfuggono, “quando avrò finito i miei affari a Parigi, andrò a morire in Oriente, e se vorrete ritrovarmi bisognerà che mi cerchiate o al Cairo, o a Bagdad, o a Ispahan.”
“In fede mia” disse Franz, “questa sarà la cosa più facile del mondo perché sembra che mi spuntino le ali d’aquila, e con queste farei il giro del mondo in ventiquattro ore.”
“Ah, ah, è l’hashish che opera! Ebbene, aprite le ali, e volate nelle regioni sovrumane; non temete, si veglia su voi, e se, come quelle d’Icaro, le vostre ali si liquefanno al sole, noi siamo qui per ricevervi.”
Disse qualche parola araba ad Alì, che fece un segno d’obbedienza, e si ritirò ma senza allontanarsi.
In quanto a Franz, una strana trasformazione si operava in lui: tutta la fatica fisica della giornata, tutte le preoccupazioni che avevano fatto nascere gli avvenimenti della sera, sparivano come in un momento di riposo in cui si è svegli abbastanza per sentire che il sonno viene. Sembrava che il corpo acquistasse una leggerezza fuori del materiale, lo spirito s’illuminasse in modo inaudito; i sensi sembravano raddoppiare le loro facoltà.
L’orizzonte si allargava, ma non l’orizzonte cupo sul quale aleggia un vago terrore, quale l’aveva osservato prima del sonno, ma un orizzonte azzurro, trasparente, vasto con tutto ciò che il mare ha di bello, che il sole ha di raggi, che la brezza ha di profumo: quindi, in mezzo al canto dei suoi marinai, canto così limpido e chiaro, che se ne sarebbe fatta un’armonia celeste se si fosse potuto, vedeva comparire l’isola di Montecristo non più come uno scoglio minaccioso sui flutti, ma come un’oasi perduta nel deserto; poi a seconda che la barca s’avvicinava, i canti divenivano più numerosi, poiché un’armonia incantatrice e misteriosa saliva da quest’isola al cielo, come se qualche fata come Lorelay, o qualche mago come Amfione avesse voluto attirarvi qualche spirito, o fabbricarvi una città.
Finalmente la barca toccò la riva, ma senza scossa, allo stesso modo che le labbra toccano le labbra, e sembrò a Franz di entrare nella grotta senza che cessasse questa incantevole musica; discese, o meglio gli sembrò scendere qualche scalino respirando un’aria fresca e balsamica come quella che circondava l’isola di Circe, composta di tanti profumi da far andar in estasi, di ardori tali da far bruciare i sensi, e rivide tutto ciò che aveva veduto prima del sogno, cominciando dall’ospite fantastico Sindbad fino ad Alì il muto servitore; poi gli sembrò che tutto si cancellasse, e si confondesse sotto i suoi occhi come le ultime ombre di lanterna magica che si spenga, e si ritrovò nella camera delle statue, illuminata soltanto da una di quelle lampade antiche e pallide che ardono nel mezzo della notte sul sonno della voluttà.
Erano le stesse statue belle per le forme e per la poesia, con gli occhi magnetici, con i capelli abbondanti; erano Frine, Cleopatra, Messalina, le tre donne più celebri per la loro dissolutezza; poi nel mezzo di queste s’introduceva una di quelle ombre calme, una di quelle visioni dolci che sembrano coprir di un velo gli occhi verginali.
Allora gli sembrò che queste tre statue avessero riuniti i loro amori per un sol uomo e che questi fosse lui; che si avvicinassero dove faceva un secondo sogno, coi piedi coperti dalle loro lunghe e bianche tonache, coi capelli cadenti ad onde, in una di quelle pose irresistibili, con uno di quegli sguardi inflessibili e ardenti, pari a quello che vibra il serpente all’uccello, e che lui si abbandonasse a quegli sguardi, dolorosi come un laccio, voluttuosi come un bacio.
Sembrò a Franz di chiudere gli occhi e, attraverso l’ultimo sguardo intorno, intravedere la statua pudica che si velava internamente; quindi, i suoi occhi chiusi alle cose reali, i suoi sensi si aprirono alle impressioni impossibili.
Allora, per Franz che subiva la prima volta l’effetto dell’hashish, fu una voluttà, un amore come quello che prometteva il Vecchio della Montagna ai suoi seguaci.