Il giorno dopo Franz si svegliò per primo, e appena desto suonò.
Il tintinnio del campanello risuonava ancora quando Pastrini entrò di persona.
“Ebbene!” disse l’albergatore trionfante, e senza aspettare che Franz lo interrogasse. “Facevo bene ieri sera a non promettere niente; avete aspettato troppo, e adesso non c’è neppure una carrozza da nolo in Roma per tre giorni, s’intende.”
“Sì” rispose Franz, “vale a dire per quelli in cui è assolutamente necessaria!”
“Che c’è?” domandò Alberto entrando. “Non si trovano carrozze?”
“Precisamente mio caro amico” rispose Franz. “Avete indovinato al primo colpo.”
“Ah, è una gran bella città questa vostra città eterna!”
“Cioè, Eccellenza” riprese Pastrini, che desiderava mantenere la capitale del mondo cristiano in un certo decoro in faccia ai viaggiatori, “non vi sono più carrozze da domenica mattina a martedì sera; ma da oggi a domenica ne troverete cinquanta, se lo volete.”
“Non è poco” disse Alberto. “Oggi è giovedì; chi sa di qui a domenica quello che può accadere.”
“Accadrà l’arrivo di dieci o dodici mila forestieri” rispose Franz, ai quali renderanno la difficoltà sempre più grande.”
“Amico mio” disse Morcerf, “godiamo del presente, non ci prendiamo cura dell’avvenire.”
“Almeno” domandò Franz, “potremo avere una finestra?”
“Su che strada?”
“Sul Corso, per Bacco!”
“Ah sì, una finestra” esclamò Pastrini, “impossibilissimo! Ne restava una al quinto piano del palazzo Doria, ed è stata affittata ad un principe russo per venti zecchini al giorno.”
I due giovani si guardarono con aria stupefatta.
“Ebbene, mio caro” disse Franz ad Alberto. “Sapete ciò che torna meglio di fare? Andare a finire il carnevale a Venezia; almeno là, se non troviamo carrozze, troveremo gondole!”
“Ah, in fede mia” gridò Alberto, “ho deciso di vedere il carnevale di Roma, e lo vedrò, fosse anche sopra una panchetta!”
“Bravo!” gridò Franz. “È un’idea magnifica, particolarmente per spegnere i moccoletti; ci maschereremo da Pulcinella e faremo un effetto meraviglioso.”
“Le Loro Eccellenze desiderano sempre la carrozza fino a domenica?”
“Per Bacco” disse Alberto, “credete che noi siamo persone da correre le strade di Roma a piedi come i portieri e i cursori?”
“Vado ad eseguire gli ordini delle Loro Eccellenze” disse Pastrini, “le prevengo soltanto che la carrozza costerà sei scudi al giorno.”
“Ed io, caro Pastrini” disse Franz, “che non sono il milionario nostro vicino, vi prevengo per parte mia che essendo la quarta volta che vengo a Roma, conosco il prezzo delle carrozze per i giorni ordinari, le domeniche e le feste; vi daremo dodici piastre per oggi, domani e dopo domani, e voi ci troverete anche un non piccolo guadagno.”
“Ma Eccellenza…” disse Pastrini, tentando di ribellarsi.
“Andate, andate mio caro” disse Franz, “o vado io stesso a fare il prezzo dal padrone delle scuderie, che conosco bene; è un vecchio amico, mi ha già rubato non poco denaro, e, nella speranza di rubarmene dell’altro, accetterà anche per un prezzo minore di quello che vi offro; perdereste la differenza e per colpa vostra.”
“Non vi prendete questo incomodo, Eccellenza” disse Pastrini col sorriso dello speculatore di locanda che si confessa vinto, “farò il meglio che potrò, e sarete contento.”
“A meraviglia; ecco ciò che si chiama parlare.”
“Quando volete la carrozza?”
“Fra un’ora.”
“Fra un’ora sarà alla porta.”
Un’ora dopo effettivamente la carrozza aspettava i due giovani; era un modesto calesse, che per la solennità della festa era salito al grado di carrozza di piazza. Ma quantunque di mediocre apparenza, i due giovani sarebbero stati ben contenti di avere un tale veicolo per gli ultimi tre giorni del carnevale.
“Eccellenza” gridò il servitore di piazza, vedendo Franz mettere il naso alla finestra, “vuole che faccia avvicinare la carrozza al palazzo?”
Per quanto Franz fosse abituato all’enfasi italiana, il suo primo movimento fu di guardarsi intorno, ma a lui stesso venivano rivolte quelle parole…
Franz era l’Eccellenza, il calesse era la carrozza, il palazzo era l’albergo Londra.
Tutto il genio della nazione era in questa sola frase.
Franz ed Alberto discesero, la carrozza si avvicinò al palazzo, le Loro Eccellenze allungarono le gambe sui posti davanti, e il cicerone saltò sul sedile di dietro.
“Dove vogliono andare le Loro Eccellenze?”
“Prima a San Pietro e poi al Colosseo” disse Alberto da vero parigino.
Ma non sapeva una cosa, cioè che ci vuole un giorno per vedere San Pietro, e un mese per studiarlo.
La giornata fu tutta impiegata nel veder San Pietro.
D’improvviso i due amici si accorsero che il giorno declinava. Franz cavò l’orologio: erano le quattro e mezzo. Ritornarono all’albergo. Giunti alla porta, Franz dette ordine di tenersi pronto per le otto; voleva far vedere ad Alberto il Colosseo al chiaro di luna, come gli aveva fatto vedere San Pietro in pieno giorno.
Allorché si fa vedere ad un amico una città, che si è già veduta, ci si mette quella civetteria che si usa quando si indica una donna della quale si è stati l’amante.
In conseguenza Franz indicò al cocchiere il suo itinerario: dovete uscire dalla porta del Popolo, andare intorno alle mura esterne della città, e rientrare dalla porta San Giovanni. In tal modo il Colosseo compare d’improvviso, e senza che il Campidoglio, il Foro, l’Arco di Settimio Severo, il tempio di Antonino e Faustina, e la Via Sacra abbiano anticipato gli effetti di quelle maestose rovine.
Si fermarono per il pranzo.
Pastrini aveva promesso ai suoi ospiti un eccellente desinare, gliene dette uno passabile, non c’era nulla da dire.
Alla fine del pranzo entrò egli stesso. Franz sulle prime credette che fosse venuto per ricevere i loro complimenti, e si apprestava a farglieli allorché, alle prime parole, egli lo interruppe.
“Eccellenza” disse, “sono lusingato della vostra approvazione, ma non è questo il motivo che mi ha fatto salire da voi.”
“È forse per venirci a dire che avete trovato la carrozza?” domandò Alberto, accendendo un sigaro.
“Per niente, ed anzi, Vostra Eccellenza farà bene a non pensarci più. In Roma le cose o si possono o non si possono. Quando vi si è detto che non si possono, tutto è finito.”
“A Parigi, è molto più comodo; quando una cosa non si può avere, la si paga il doppio, e si ha sul momento ciò che si domanda.”
“Sento sempre dire la stessa cosa da tutti i francesi” disse Pastrini, un poco contrariato, “e non so comprendere come con tante meraviglie che ci sono a Parigi, i parigini viaggino.”
“Ma è così” disse Alberto, mandando flemmaticamente una fumata al soffitto e rovesciando il capo indietro sulla poltrona, “non vi sono che i pazzi, e gli oziosi come noi che viaggino, la gente di buon senso non lascia la casa della rue Helder, il Bastione di Gand, e il Caffè di Parigi.”
Non è necessario dire che abitava nella strada suddetta, che tutti i giorni faceva la sua passeggiata elegantemente vestito sul Bastione di Gand, e che pranzava tutti i giorni al Caffè di Parigi avendo confidenza coi camerieri.
Pastrini restò un momento silenzioso, era evidente che meditava sulla risposta che gli aveva dato Alberto, risposta che senza dubbio non gli pareva molto chiara.
“Ma infine” disse Franz a sua volta, interrompendo le riflessioni geografiche del suo albergatore, “eravate venuto con qualche scopo: volete esporci l’oggetto della vostra visita?”
“Oh è vero, eccolo: avete ordinato la carrozza per le otto.”
“Sicuramente.”
“Avete l’intenzione di visitare il Coliseo!”
“Cioè il Colosseo.”
“È la stessa cosa.”
“Sia.”
“Avete detto al vostro cocchiere di uscire dalla porta del Popolo, e fare il giro delle mura per rientrare dalla porta di San Giovanni!”
“Queste sono le mie precise parole.”
“Ebbene, questo itinerario è impossibile, o almeno molto pericoloso.”
“Pericoloso!? Perché?”
“A causa del famoso Luigi Vampa.”
“Per prima cosa, mio caro Pastrini, chi è questo famoso Luigi Vampa?” domandò Alberto. “Può essere famosissimo a Roma, ma vi assicuro che è perfettamente sconosciuto a Parigi.”
“Come, non lo conoscete?”
“Non ho quest’onore.”
“Ebbene, è un bandito, vicino al quale i Decesaris e i Gasperoni sono specie di chierichetti.”
“Attenti!” Alberto gridò. “Franz, ecco dunque finalmente un brigante! Vi prevengo, mio caro Pastrini, che non crederò una parola di tutto ciò che state per dirci; ma parlate quanto volete, vi ascolto.”
“C’era una volta…”
“Avanti dunque.”
Pastrini si volse dalla parte di Franz sembrandogli il più ragionevole dei due giovani.
Bisogna rendere giustizia al brav’uomo: aveva alloggiati molti francesi, ma non aveva mai ben capito ciò che essi chiamano il loro spirito.
“Eccellenza” disse con gravità, volgendosi a Franz, “se mi credete un cantastorie è inutile che vi dica ciò che volevo; posso però assicurarvi che lo facevo per la premura che ho per le Loro Eccellenze.”
“Alberto non vi ha detto che siete un cantastorie, mio caro Pastrini, vi ha detto soltanto che non vi crederà, ma io vi crederò, state tranquillo: parlate dunque.”
“Però convenite, Eccellenza, che se si mette in dubbio la sincerità delle mie parole…”
“Mio caro, voi siete più suscettibile di Cassandra, che pure era una indovina, e alla quale nessuno credeva; mentre voi siete sicuro di essere creduto almeno dalla metà del vostro uditorio. Sedetevi, diteci chi è questo signor Vampa?”
“Ve lo dissi, Eccellenza, è uno di quei banditi di cui non abbiamo mai avuto l’eguale dall’epoca di Mastrilli.”
“Ebbene, che rapporto ha questo bandito con l’ordine che ho dato al cocchiere di partire da porta del Popolo e di rientrare per porta San Giovanni.”
“C’è” rispose Pastrini, “che potreste uscir dall’una ma dubiterei che potreste entrare per l’altra.”
“E perché?” domandò Franz.
“Perché quando è notte, non c’è sicurezza in quelle contrade.”
“Parola d’onore?” gridò Alberto.
Pastrini, sempre punto nel fondo dell’anima per i dubbi sulla sua veracità, rispose:
“Signor conte, ciò che dico non è per voi, e per il vostro compagno di viaggio che conosce Roma e sa benissimo che su questi argomenti non si scherza.”
“Mio caro” disse Alberto volgendosi a Franz, “ecco un’ammirabile avventura: empiamo il nostro calesse di pistole, tromboni, e fucili a due canne. Luigi Vampa viene per arrestarci, e noi invece arrestiamo lui: lo portiamo a Roma, ne facciamo un omaggio al Senato romano: se il senatore domanda che può fare per dimostrarci la sua riconoscenza, reclamiamo puramente e semplicemente una carrozza e due cavalli delle scuderie del senatore: e negli ultimi giorni, godiamo del carnevale in carrozza, senza calcolare che il popolo romano riconoscente potrebbe incoronarci in Campidoglio, e proclamarci, come Curzio e Orazio Coclite, i salvatori della patria.”
“In primo luogo” domandò Franz ad Alberto, “dove prendere queste pistole, questi tromboni, e questi fucili a due canne, coi quali volete riempire la vostra carrozza?”
“Il fatto sta, che certamente non potrei prenderli nel mio arsenale” diss’egli, “perché a Terracina mi è stato tolto perfino il mio pugnale. E voi?”
“Mi hanno fatto altrettanto ad Acquapendente.”
“Così, mio caro Pastrini” disse Alberto accendendo un secondo sigaro al residuo del primo, “sapete che questa è una fortuna stramaledetta per quei banditi?”
“Sua Eccellenza sa che non c’è l’uso di difendersi quando si viene aggrediti dai banditi” rispose Pastrini, che non voleva mettersi a fare osservazioni sulle leggi d’oltralpe.
“Come?” gridò Alberto, il cui coraggio si rivoltava all’idea di lasciarsi svaligiare senza dir niente, “come non c’è l’uso?”
“No, perché qualunque difesa sarebbe inutile. Che volete fare contro una dozzina di assassini che escono da un fosso, da un antro o da un acquedotto, e vi mettono nello stesso tempo le armi alla gola?”
“Ah, per Bacco! voglio farmi ammazzare!” gridò Alberto.
L’albergatore si volse verso Franz con una espressione che voleva dire: “Davvero, Eccellenza, il vostro camerata è pazzo”.
“Mio caro Alberto” soggiunse Franz, “la vostra risposta è sublime, e merita il dovea morir! del vecchio Cornelio; soltanto che, quando Orazio rispondeva questo, si trattava della salvezza di Roma, e la cosa era abbastanza importante: ma in quanto a noi non si tratterebbe che di un capriccio, e sarebbe ridicolo arrischiare la propria vita per soddisfare un tal capriccio.”
“Ah, per Bacco!” gridò Pastrini, “alla buon’ora, questo si chiama parlare!”
Alberto si versò un bicchiere di lacrimacristi, che bevve a sorsate frammettendovi un brontolio di parole confuse che nessuno poté intendere.
“Ebbene, Pastrini” rispose Franz, “ora che il mio compagno si è calmato, e voi avete potuto apprezzare le sue intenzioni pacifiche, sentiamo: chi è questo signor Luigi Vampa? È giovane o vecchio? È contadino o patrizio? descrivetecelo affinché se lo avessimo per caso da incontrare nella società, come Giovanni Sbagar, o Lara, lo possiamo riconoscere.”
“Non vi potevate rivolgere meglio che a me per averne esatti particolari, poiché ho conosciuto Luigi Vampa da ragazzo, e un giorno anzi che caddi nelle sue mani, andando da Ferentino ad Alatri, si sovvenne, fortunatamente per me, della nostra antica conoscenza, e non solo mi lasciò andare liberamente senza esigere riscatto, ma volle farmi il regalo di un bell’orologio, e raccontarmi tutta la sua storia.”
“Vediamo l’orologio” disse Alberto.
Pastrini cavò dal taschino un magnifico orologio a cilindro di Beguet col nome dell’autore, il bollo di Parigi e una corona da conte.
“Eccolo qui” diss’egli.
“Poffare!” fece Alberto, “ve ne faccio i miei complimenti. Io ne ho uno press’a poco come questo, che costa tremila franchi. Eccolo…” e cavò l’orologio dal taschino del giubbetto.
“Sentiamo ora la storia” disse Franz, tirando una sedia, e facendo segno a Pastrini di sedersi.
“Le Loro Eccellenze mi permettono…” disse l’albergatore.
“Per Bacco” disse Alberto, “non siete un predicatore, mio caro, per parlare sempre in piedi.”
L’albergatore si accomodò, dopo aver fatto un saluto rispettoso a ciascuno dei suoi uditori come per far intendere che era pronto a dar loro quei particolari ch’essi avessero domandato.
“A noi!” disse Franz interrompendo Pastrini al momento che stava per aprire bocca. “Dicevate d’aver conosciuto Luigi Vampa quando era ragazzo; è dunque molto giovane ancora?”
“Lo credo bene! Ha appena ventidue anni! È un galeotto che ne farà di strada, state sicuri.”
“Che ne dite Alberto? È una bella cosa a ventidue anni essersi già fatta una reputazione” disse Franz.
“Sì certamente, alla sua età, Alessandro, Cesare e Napoleone non erano tanto avanti, e sì che hanno fatto poi qualche rumore nel mondo.”
“E così” riprese Franz, volgendosi all’albergatore, “l’eroe di cui ora sentiremo la storia, non ha che ventidue anni?”
“Appena, come ebbi l’onore di dirvi.”
“È grande o piccolo?”
“Di mezza statura, presso a poco come voi, signore” disse l’albergatore, designando Alberto.
“Grazie del paragone” disse quegli, inchinandosi.
“Avanti, Pastrini” riprese Franz sorridendo della suscettibilità del suo amico. “E a qual classe della società appartiene?”
“Era un semplice pastore, addetto alla fattoria del conte San Felice situata fra Palestrina e il lago di Gabri: nacque a Pampinara e fino dall’età di cinque anni entrò al servizio del conte. Suo padre, pastore in Agnani, possedeva un piccolo gregge e viveva della lana dei montoni e del prodotto delle pecore che veniva a vendere a Roma. Fin da fanciullo il piccolo Vampa aveva un’indole strana. Un giorno all’età di sette anni, andò a trovare il curato di Palestrina, e lo pregò d’insegnargli a leggere. Era una cosa assai difficile, perché il pastorello non poteva lasciare le pecore. Ma il buon curato andava tutti i giorni a dire la messa in un piccolo borgo, troppo povero e troppo poco considerevole per poter mantenervi un prete, e che, non avendo neppure un nome, era conosciuto sotto quello di Borgo. Egli offrì a Luigi di trovarsi sulla strada che percorreva nell’ora del ritorno, e di dargli così la lezione, prevenendolo che questa sarebbe stata corta, e che per conseguenza avrebbe dovuto applicarsi molto per renderla profittevole. Il fanciullo accettò con gioia.
Luigi conduceva tutti i giorni il gregge a pascolare sulla strada da Palestrina a Borgo; e la mattina alle nove il curato passava: il prete ed il fanciullo si sedevano sull’orlo di un fosso e il giovane pastorello prendeva lezione sul breviario del curato. Il prete fece fare a Roma da un maestro di calligrafia tre esemplari di alfabeto, uno grande, uno mezzano e l’altro piccolo, e gli fece vedere che imitando quegli esemplari sopra una pietra di lavagna, con l’aiuto di una punta di ferro, poteva imparare a scrivere. La sera stessa, quando ebbe rinchiuso il gregge nell’ovile, il piccolo Vampa corse dal fabbro ferraio di Palestrina, prese un grosso chiodo e lo arroventò, lo martellò, lo arrotondò, e ne formò una specie di stiletto antico: l’indomani unì una quantità di pezzi di lavagna, e si mise all’opera. Dopo tre mesi egli sapeva scrivere.
Il curato meravigliato di questa profonda intelligenza, e ammirando questa attitudine, gli fece regalo di parecchi quaderni di carta, di alcune penne, e di un temperino. Allora ebbe a fare un altro studio; ma uno studio che era ben poca cosa dopo il primo. Otto giorni dopo maneggiava la penna come prima lo stiletto. Il curato raccontò quest’aneddoto al conte di San Felice, che volle vedere il pastorello, lo fece leggere e scrivere innanzi a sé, ordinò al suo intendente di farlo mangiare coi domestici, assegnandogli due scudi al mese. Con questo denaro Luigi comprò dei libri e delle matite. Difatti applicava a tutti gli oggetti il suo spirito di imitazione, e, come Giotto fanciullo, copiava sulle lavagne le pecore, gli alberi, le case. Poi con la punta del temperino cominciò a tagliare dei pezzi di legno, e a dar loro tutte le forme che voleva. Pinelli, l’artista popolare, aveva cominciato così.
Una ragazzina di sei sette anni, cioè poco più giovane di Vampa, era pur essa alla custodia delle pecore in una vicina tenuta, presso Palestrina: questa bambina era orfana, nata a Valmontone, e si chiamava Teresa. I due fanciulli s’incontravano, sedevano l’un presso all’altro, lasciavano i loro greggi mischiarsi e pascere insieme, discorrevano, ridevano, scherzavano; poi la sera separavano il gregge del conte San Felice da quello del barone Cervetri e si lasciavano, promettendosi di ritrovarsi l’indomani.
L’indomani infatti mantenevano la parola, e intanto crescevano sia l’uno che l’altra. I loro istinti naturali si svilupparono. Accanto al gusto per le arti, che Luigi aveva spinto tant’oltre quanto è permesso nella solitudine, egli era a tratti triste, ardente, collerico per capriccio, burbero sempre. Nessuno dei giovani di Pampinara, di Palestrina e di Valmontone aveva potuto, non solo prendere alcuna influenza su di lui, ma neppure divenire suo compagno. Il suo temperamento e l’essere sempre disposto ad esigere, e non mai a lasciarsi piegare ad alcuna concessione, gli allontanava ogni approccio amichevole, ed ogni dimostrazione di simpatia. Teresa sola comandava con una parola, con un gesto, con uno sguardo questa indole, che cedeva sotto la mano di una donna, ma che sotto quella di un uomo si sarebbe irritata all’eccesso. Teresa al contrario era vivace, vispa e gaia, ma eccessivamente civettuola. I due scudi che Luigi riceveva dall’intendente di San Felice, il ricavato di tutti i lavori d’intaglio che vendeva ai mercanti di giocattoli in Roma, si tramutavano in orecchini di perle, in collane di cristallo, in spilli di oro; per la prodigalità del giovane amico, Teresa era la più bella e la più elegante di tutte le contadine delle vicinanze di Roma.
I due giovani continuavano a crescere, passando la giornata insieme, e si abbandonavano senza opposizione a tutti i moti della loro natura; così nelle conversazioni, nei loro desideri, nei loro castelli in aria, Vampa si figurava sempre capitano di vascello, o governatore di una provincia; Teresa si vedeva ricca, vestita delle più belle stoffe, seguita da servitori in livrea. Quando avevano passata un’intera giornata ad abbellire il loro avvenire di questi folli e brillanti sogni, si separavano per ricondurre ciascuno il suo gregge alla stalla, ricadendo dall’altezza dei sogni alla umiliante realtà della loro condizione.
Il giovane pastore disse un giorno all’intendente del conte, che aveva veduto un lupo uscir dalle montagne della Sabina e ronzare attorno al gregge. L’intendente gli dette un fucile; era ciò che ambiva Vampa. Questo fucile aveva un’eccellente canna di Brescia che sparava come una carabina inglese; l’incassatura soltanto era stata in qualche modo guastata dal conte, mentre dava la caccia alle volpi, e per questo il fucile messo fra gli scarti. Non c’era difficoltà per un intagliatore come Vampa. Esaminò la forma primitiva, calcolò ciò che bisognava cambiare per metterlo a posto, e fece un’altra incassatura zeppa di ornamenti così meravigliosi che certamente avrebbe potuto guadagnarci una ventina di scudi, dal solo incasso, se fosse venuto a venderlo in città. Ma non lo vendette: un fucile era stato da gran tempo il sogno del giovane.
In tutti i paesi il primo bisogno che prova ogni cuore forte, ogni giovane vigoroso, è quello di un’arma, che assicuri nello stesso tempo l’assalto e la difesa, e facendo terribile chi la porta spesso lo fa temuto. Da quel giorno Vampa impiegò nell’esercizio del fucile tutt’i momenti che gli rimanevano liberi: comprò della polvere e delle pallottole, e tutto gli serviva di bersaglio: il tronco di un ulivo, triste, pallido e cenerino, che vegeta sul declivio delle montagne della Sabina; la volpe, che nella sera usciva dalla tana per cominciare la caccia notturna; l’aquila, che s’innalza per l’aria. Ben presto diventò così valente, che Teresa, superato quel primo moto di paura causata dalla detonazione, si divertiva nel vedere il giovane compagno colpire dove aveva indicato, così precisamente come avesse accompagnato il tiro con la mano.
Una sera, un lupo uscì effettivamente da un buco, vicino al quale i due giovani avevano l’abitudine di stare; il lupo non aveva fatti dieci passi sulla pianura che già era morto. Vampa, fiero di questo bel colpo, se lo caricò sulle spalle e lo portò alla fattoria. Tutti questi particolari davano a Luigi una certa reputazione nei dintorni della fattoria: l’uomo superiore in qualunque luogo si trovi si forma una clientela d’ammiratori. Nei luoghi circonvicini si parlava di questo giovane pastore come del più destro, del più forte, e del più bravo contadino che fosse a dieci leghe di distanza, e quantunque Teresa, in una zona più estesa ancora, passasse per la più bella delle ragazze della Sabina, pure nessuno si arrischiava a dirle una parola d’amore, perché la si sapeva amata da Vampa. E frattanto i due giovani non si erano mai detti che si amavano. Avevano vissuto l’uno accanto all’altro, come due alberi che uniscono le radici nel suolo che intrecciano i rami nell’aria, il profumo nel cielo; soltanto era in loro lo stesso desiderio di vedersi: questo desiderio divenne bisogno, ed era per loro assai più facile comprendere la morte che una separazione, anche di un sol giorno. Teresa aveva allora sedici anni e Vampa diciassette.
In quel tempo si cominciava a parlare molto di una banda di briganti che si rintanava sui monti Lepini. Il brigantaggio, per quanto efficaci furono le misure prese, non è mai stato completamente sconfitto nelle nostre campagne. Qualche volta manca un capo, ma, quando se ne presenta uno, è difficile che manchi di una banda. Il celebre Cucumetto, perseguitato negli Abruzzi, cacciato dal regno di Napoli ove sostenne una vera guerra, aveva traversato il Garigliano come Manfredi, ed era venuto fra Sonnino e Giuperno, a rifugiarsi sulle rive dell’Amasina, egli si occupava a riordinare una banda che avrebbe camminato sulle onde di Gasparone e di Decesaris, che sperava ben presto di superare. Molti giovani di Palestrina, di Frascati e di Pampinara scomparvero da casa. Sulle prime, si stette in pena sul loro conto, ma ben presto si seppe ch’erano andati a raggiungere la banda di Cucumetto. In capo a poco tempo Cucumetto diventò l’oggetto dell’attenzione generale. Venivano ovunque citate imprese di questo capo bandito di estrema audacia, e di rivoltante brutalità.
Un giorno rapì una ragazza, la figlia d’un agrimensore di Frosinone. Le leggi dei banditi sono positive: una giovane appartiene da prima a colui che la rapì; poi gli altri la tirano a sorte fra loro, e l’infelice serve ai piaceri di tutta la banda fino a che i banditi l’abbandonino o muoia. Quando i parenti sono ricchi abbastanza per riscattarla, si manda un messaggero che tratta la taglia; la testa della prigioniera risponde della fede dell’emissario. Se la taglia è ricusata, la prigioniera è irrevocabilmente condannata.
La giovane aveva nella banda di Cucumetto il suo amante che si chiamava Carlini. Riconoscendo il giovane, gli tese le braccia, e si credette salva. Ma il povero Carlini riconoscendola sentì spezzarglisi il cuore, perché non si faceva illusioni sulla triste sorte che l’aspettava.
Tuttavia essendo il favorito di Cucumetto, e partecipando da tre anni a tutti i suoi pericoli, e avendogli salvata la vita, uccidendo con un colpo di pistola un gendarme che aveva già levata la sciabola, sperò che costui avrebbe avuto un po’ di pietà. Lo chiamò a parte, mentre la giovane appoggiata contro il tronco di un pino in una radura della foresta tutta nuda e ricoperta soltanto della pittoresca capigliatura delle contadine romane, nascondeva il viso ai lussuriosi sguardi dei banditi. Carlini raccontò tutto al suo capo, i suoi amori con la prigioniera, i loro giuramenti di fedeltà, e come ogni notte, quando la banda era in quei dintorni, i due amanti si davano convegno in un luogo appartato.
Quella sera appunto Cucumetto aveva mandato Carlini in un villaggio, e così non aveva potuto trovarsi al convegno; ma Cucumetto vi era giunto per caso ed aveva così rapita la ragazza. Carlini supplicò il suo capo di fare un’eccezione e rispettar Rita, dicendogli che il padre era ricco, e avrebbe sborsato una buona somma per riscattarla.
Cucumetto parve arrendersi alle preghiere dell’amico, e lo incaricò di trovare un contadino da poter mandare dal padre di Rita a Frosinone. Carlini allora si avvicinò alla ragazza, le disse all’orecchio che era salva, e la invitò a scrivere a suo padre una lettera su quanto le era accaduto annunciandogli che la somma del riscatto era fissata a trecento piastre. Al padre non si dava che dodici ore, vale a dire fino alle nove del mattino del giorno seguente.
Scritta la lettera, Carlini corse alla pianura per cercarvi un messaggero. Trovò un giovane che faceva pascolare il suo gregge. I messaggeri naturali dei briganti sono i pastori, che vivono fra la città e la campagna, tra la vita selvaggia e la vita incivilita. Il giovane pastore partì subito, promettendo di essere prima di un’ora a Frosinone.
Carlini tornò subito, gaio e contento, a raggiungere la sua amante ed annunciarle la buona novella. La banda era al medesimo posto e cenava allegramente con le provvigioni che i briganti prendevano ai contadini come tributo: fra quegli allegri convitati Carlini cercò inutilmente Cucumetto e Rita. Domandò dove fossero; i banditi risposero con uno scroscio di risa.
Un freddo sudore gli bagnò la fronte, e parve che l’angoscia lo prendesse per i capelli.
Rinnovò la sua domanda. Uno dei convitati riempì un bicchiere di vino di Orvieto e glielo tese dicendo:
“Alla salute del bravo Cucumetto e della bella Rita!”
In quel momento Carlini credette di udire un grido di donna: indovinò tutto. Prese il bicchiere e lo spezzò sulla faccia di colui che glielo aveva offerto, poi si slanciò nella direzione del grido.
A cento passi, alla svolta di un cespuglio, trovò Rita svenuta nelle braccia di Cucumetto. Scorgendo Carlini, Cucumetto si alzò tenendo in ognuna delle mani una pistola. I due banditi si guardarono un istante: l’uno, il sorriso della lussuria sulle labbra; l’altro, il pallore della morte sulla fronte. Si sarebbe creduto che tra questi due uomini stesse per succedere qualche cosa di terribile. Ma a poco a poco i lineamenti di Carlini cominciarono a calmarsi: la mano, che aveva portato ad una delle pistole che pendevano dalla cintura, si ritrasse di lato. Rita era coricata fra loro due.
La luna rischiarava la scena.
“Ebbene?” disse Cucumetto, “hai fatto la commissione di cui eri incaricato?”
“Sì, capitano” rispose Carlini, “domani, prima delle nove, il padre di Rita sarà qui col denaro.”
“A meraviglia! Intanto, mentre l’aspetto, noi vogliamo passare un allegra notte. Questa giovane è magnifica, e tu hai davvero buon gusto, mastro Carlini. Così, non sono egoista, torniamo ai nostri camerati per tirare a sorte colui cui ora deve appartenere.”
“Siete deciso ad abbandonarla alla legge comune?” chiese Carlini.
“E perché si dovrebbe fare eccezione in suo favore?”
“Avevo creduto che alla mia preghiera…”
“E che, sei tu più degli altri?”
“È giusto.”
“Ma sta’ tranquillo” rispose Cucumetto ridendo, “prima o dopo, verrà la tua volta…”
I denti di Carlini si serrarono al punto che parevano spezzarsi.
“Andiamo” disse Cucumetto, facendo un passo verso i convitati.
“Vieni tu?”
“Vi seguo…”
Cucumetto si allontanò, senza perdere di vista Carlini, perché temeva che volesse colpirlo di dietro, ma niente nel brigante tradiva un’intenzione ostile. Era in piedi, le braccia conserte, presso Rita sempre svenuta.
Cucumetto pensò per un istante che il giovane la prendesse fra le braccia o fuggisse con lei. Ma ciò poco gli importava: da Rita aveva avuto quel che voleva; quanto al danaro, trecento piastre divise fra la banda, faceva una così povera somma che ben poco gliene importava.
Continuò dunque il suo cammino verso i briganti; ma, con suo gran stupore, Carlini arrivò quasi prima di lui.
“L’estrazione a sorte! l’estrazione a sorte!” gridavano tutti i banditi, nello scorgere il loro capo.
E gli occhi di tutti quegli uomini sfavillarono di ebbrezza, e di lascivia, mentre la fiamma del fuoco acceso gettava su tutti una luce rossastra che li faceva somigliare a demoni.
La loro domanda era giusta: e però il capo fece un cenno colla testa, condiscendeva. Tutti i nomi furono subito messi in un cappello, compreso quello di Carlini, e il più giovane della banda tirò un bullettino dall’urna improvvisata. Quel bullettino portava il nome di Diavolaccio; era quello stesso che aveva proposto a Carlini di bere alla salute del capo, e a cui Carlini aveva risposto col spezzargli il bicchiere sulla faccia.
Diavolaccio, vedendosi favorito dalla fortuna, diede in uno scoppio e risa.
“Capitano” disse, “poco fa, Carlini non ha voluto bere alla vostra salute; proponetegli ora di bere alla mia… Avrà forse più riguardo per voi che per me.”
Ognuno aspettava una reazione violenta di Carlini; ma, con grande stupore di tutti, prese con la mano un bicchiere, con l’altra un fiasco riempiendo il bicchiere:
“Alla tua salute, Diavolaccio!” disse con voce perfettamente calma, e tracannò il contenuto del bicchiere senza che per nulla tremasse la sua mano.
Poi, sedendosi accanto al fuoco:
“La mia porzione di cena!” disse. “La corsa fatta mi ha ridestato l’appetito.”
“Viva Carlini!” gridarono i briganti.
“Alla buon’ora, ecco ciò che si dice prender la cosa da buon compagno.”
E tutti formarono circolo intorno al fuoco, mentre Diavolaccio si allontanava.
Carlini mangiava e beveva, come nulla fosse accaduto. I briganti lo guardavano stupefatti; essi non comprendevano quella impassibilità, quando intesero dietro di loro un passo pesante. Si voltarono, e scorsero Diavolaccio, che tra le braccia aveva la ragazza. Lei aveva la testa rovesciata, e i lunghi capelli fino a terra.
Mentre entravano nello spazio rischiarato dal fuoco, si accorsero del pallore della donna e del bandito. Quella apparizione aveva qualcosa di così strano e di solenne che tutti si alzarono, eccetto Carlini, che restò seduto, e continuò a bere e mangiare come nulla accadesse intorno lui.
Diavolaccio continuava ad avanzarsi in mezzo al più profondo silenzio e depose Rita ai piedi del capitano.
Allora tutti poterono vedere la causa del pallore della donna del bandito. Rita aveva un coltello conficcato sino al manico sotto la poppa sinistra.
Tutti gli sguardi si portarono su Carlini; la guaina del coltello pendeva vuota alla sua cintura.
“Ah, ah” disse il capo, “ora comprendo perché Carlini era rimasto indietro.”
Ogni natura selvaggia è capace di apprezzare una forte azione; quantunque forse nessuno di quei banditi avrebbe fatto ciò che aveva fatto Carlini, tutti però compresero la sua azione.
“Ebbene” disse Carlini alzandosi, ed a sua volta avvicinandosi al cadavere, la mano sulla impugnatura di una pistola, “c’è ancora qualcuno qui che mi disputa questa donna?”
“No” disse il capo. “È tua.”
Allora Carlini la prese fra le braccia, e la portò al di là dello spazio illuminato dalla fiamma.
A mezzanotte la sentinella dette la sveglia, e in un istante tutti furono in piedi, il capo e i suoi compagni. Era il padre di Rita, che andava egli stesso a portar la somma per il riscatto di sua figlia.
“Tieni” disse a Cucumetto, porgendogli un sacco di denaro, “ecco trecento piastre, rendimi la mia figliola.”
Ma il capo, senza prendere il denaro, gli fece cenno di seguirlo.
Il vecchio obbedì; tutti e due si allontanarono sotto gli alberi, attraverso i cui rami filtravano i raggi della luna. Finalmente Cucumetto si fermò mostrando al vecchio un gruppo di due persone ai piedi di un albero.
“Tieni” disse, “domanda a Carlini, egli te ne renderà conto.”
E se ne tornò verso i suoi compagni.
Il vecchio restò immobile, gli occhi fissi. Sentiva che qualche sventura ignota, immensa, inaudita gravava su di lui. Al rumore che il vecchio faceva avanzandosi, Carlini alzò la testa, e le forme delle due persone cominciarono ad apparire più distinte agli occhi di lui.
Una donna era coricata per terra, la testa appoggiata sulle ginocchia di un uomo seduto, chinato su di lei; nell’alzar la testa quell’uomo aveva scoperto il volto della donna, che teneva serrato contro il petto. Il vecchio riconobbe sua figlia, e Carlini riconobbe il vecchio.
“Io t’aspettavo…” disse il bandito al padre di Rita.
“Miserabile!” disse il vecchio. “Che hai fatto?”
E guardava con terrore Rita, pallida, immobile, insanguinata, con un coltello nel petto.
Un raggio di luna la rischiarava della sua pallida luce.
“Cucumetto aveva violata tua figlia” disse il bandito, “e siccome io l’amavo, l’ho uccisa; poiché, dopo di lui, sarebbe stata lo zimbello di tutta la banda.”
Il vecchio non pronunziò una parola; solamente divenne pallido come uno spettro.
“Ed ora” disse Carlini, “se ho avuto torto, vendicala!”
E strappato il coltello dal seno della fanciulla, levandosi in piedi, lo porse al vecchio, mentre coll’altra mano slacciava la camicia sul petto, offrendolo nudo.
“Tu hai ben fatto…” disse il vecchio con voce sorda. “Abbracciami, figlio mio.”
Carlini si gettò singhiozzando fra le braccia del padre della sua amante: erano le prime lacrime che versava quell’uomo sanguinario.
“Ed ora” disse ancora il vecchio a Carlini, “aiutami a seppellire mia figlia.”
Carlini andò a cercare due zappe, e il padre e l’amante si misero a scavar la terra ai piedi di una quercia, i cui folti rami dovevano far ombra sulla tomba della fanciulla.
Quando la fossa fu scavata, il padre abbracciò Rita per primo, dopo abbracciò l’amante. Quindi, prendendola l’uno per i piedi, l’altro per le spalle, la scesero nella fossa. Ciò fatto, s’inginocchiarono ai due lati della tomba, e recitarono le preghiere dei morti. Quando ebbero terminato gettarono terra sul cadavere sino a che la fossa fu colma. Allora, stendendogli la mano: ù
“Io ti ringrazio, figliolo…” disse il vecchio a Carlini. “Ora lasciami solo.
“Ma intanto…” disse costui.
“Lasciami…, te l’ordino.”
Carlini obbedì: andò a raggiungere i suoi compagni si avviluppò nel mantello, e ben presto parve addormentato profondamente come gli altri.
Il giorno prima era stato deciso che la banda avrebbe cambiato rifugio. Un’ora prima del giorno, Cucumetto svegliò i suoi uomini e fu dato l’ordine di partenza; ma Carlini non volle lasciare la foresta senza sapere che ne fosse del padre di Rita. Si diresse verso il luogo dove lo aveva lasciato. Trovò il vecchio appiccato ad uno dei rami della quercia sulla tomba della figlia.
Sul cadavere dell’uno e sulla fossa dell’altra, fece allora il giuramento di vendicarli entrambi. Ma quel giuramento non lo poté mantenere perché due giorni dopo, in uno scontro coi gendarmi romani, Carlini fu ucciso. Solamente qualcuno si stupì che avesse ricevuto una pallottola fra le spalle, mentre s’era tenuto sempre in faccia al nemico. Lo stupore cessò quando uno dei briganti fece osservare ai compagni che Cucumetto era dieci passi dietro Carlini quando costui era caduto colpito.
La mattina della partenza dalla foresta di Frosinone aveva seguito Carlini nell’oscurità, aveva inteso il giuramento fatto, e da uomo cauto lo aveva preceduto.
Si raccontavano ancora su cotesto terribile capobanda altre storie non meno strane di questa. Così da Fondi a Perugia tutti tremavano al solo nome di Cucumetto.
Le storie di ogni genere su questo capo bandito formavano spesso l’oggetto delle conversazioni di Luigi e di Teresa. La pastorella tremava molto a questi racconti; ma Vampa la tranquillava battendo in terra il suo bel fucile. Poi, quando non era del tutto tranquilla, le faceva vedere un qualche corvo posato sopra una frasca secca di un albero, metteva il fucile alla guancia, premeva sul grilletto, e l’animale colpito cadeva ai piedi dell’albero.
Parte seconda