Capitolo 34. Le apparizioni

Nov 20, 2007 20:03

Franz aveva trovato una via di mezzo, perché Alberto potesse giungere al Colosseo senza passare davanti ad alcuna rovina antica, e per conseguenza senza nulla togliere alle gigantesche proporzioni del Colosseo.

Proporre di passare per la via Sabina, voltare ad angolo retto davanti a Santa Maria Maggiore e giungere per la via urbana e San Pietro in Vincoli alla via del Colosseo. D’altra parte questo itinerario offriva anche un altro vantaggio, quello di non distrarre con altre impressioni Franz da quella prodotta in lui dalla storia raccontata dal Pastrini, e nella quale vi si trovava mischiato il suo anfitrione di Montecristo. Perciò si era appoggiato col gomito nell’angolo, ed era ricaduto in quelle mille domande che infinite volte aveva già fatte a se stesso, e alle quali mai era riuscito a dare una risposta soddisfacente.

Un’altra cosa gli aveva ancora fatto sovvenire il suo amico Sindbad il marinaio, ed era la relazione tra i banditi ed i marinai. Ciò che aveva detto Pastrini sul rifugio che Vampa trovava nelle barche dei pescatori e dei contrabbandieri, ricordava a Franz quei due banditi corsi ch’egli aveva visto cenare insieme all’equipaggio del piccolo yacht, che deviando a bella posta dal suo cammino era approdato a Porto Vecchio col solo scopo di metterli a terra.

Il nome che il suo ospite si dava di Conte di Montecristo, pronunciato dall’albergatore dell’albergo Londra, provava che era lo stesso che sosteneva la parte filantropica sulle coste di Piombino, di Civitavecchia, d’Ostia e di Gaeta, come su quelle di Corsica, di Toscana, di Spagna, non meno che su quelle di Tunisi e di Palermo.

Era una prova che egli abbracciava una cerchia di relazioni molto estesa.

Ma per quanto queste riflessioni fossero presenti allo spirito del giovane, esse svanirono quando cominciò a farsi scorgere il tetro e gigantesco spettro del Colosseo fra le cui rovine la luna faceva passare quei lunghi e pallidi raggi, che sembra cadano dagli occhi dei fantasmi. La carrozza si fermò a qualche passo dalla fontana denominata “Meta sudans”.

Il cocchiere aprì la portiera, i due giovani saltarono a terra, e si trovarono in faccia ad un cicerone, che sembrava uscito di sotto terra. Quello dell’albergo pure li aveva seguiti, e così ne ebbero due.

Del resto è impossibile poter evitare a Roma questo lusso di guide: oltre il cicerone generale che s’impadronisce di voi dal momento che mettete il piede sulla porta di un albergo o di una locanda, e che non vi abbandona che il giorno in cui mettete il piede fuori della città, vi è pure un cicerone addetto a ciascun monumento; si giudichi dunque se si può restar privi di cicerone al Colosseo, vale a dire al monumento per eccellenza, che faceva dire a Marziale: “Che Menfi cessi di vantare i barbari miracoli delle sue piramidi, che cessino di essere vantate le meraviglie di Babilonia, tutto deve annichilirsi davanti all’opera immensa dell’anfiteatro dei Cesari, e tutte le voci della celebrità devono unirsi per lodare questo monumento”.

Franz ed Alberto non tentarono nemmeno di sottrarsi alla tirannide ciceronica, molto più poi sarebbe stato difficile al Colosseo, perché ivi le sole guide hanno il diritto di percorrere i diversi punti praticabili del monumento, colle torce accese. Non fecero dunque alcuna resistenza, e si abbandonarono anima e corpo ai loro conduttori. Franz conosceva già questa passeggiata per averla fatta dieci altre volte: ma siccome il suo compagno, più novizio, metteva per la prima volta il piede nell’anfiteatro di Flavio Vespasiano, debbo confessarlo a sua lode, nonostante il cicalare ignorante delle guide, egli era commosso da vive impressioni. Non è possibile, senza vederlo, formarsi un’idea della maestà di una simile rovina, le cui proporzioni sono tutte raddoppiate dalla misteriosa chiarezza di quella luna meridionale, i cui raggi sembrano i crepuscoli d’occidente.

Il riflessivo Franz, fatti appena cento passi sotto i portici interni, lasciò Alberto alle guide, che non volevano rinunciare a fargli vedere la fossa dei Leoni, le stanze dei Gladiatori, il Palco dei Cesari, e salì per una scala mezzo rovinata, facendo loro continuare il metodico giro, si assise all’ombra di una colonna, dirimpetto ad una curva che gli permetteva di potere abbracciare collo sguardo il gigante di marmo in tutta la sua estensione. Franz era là da circa un quarto d’ora, nascosto dall’ombra della colonna, ed occupato a guardare Alberto e coloro che gli portavano le torce; uscivano in quel momento da un romitorio posto all’altra estremità del Colosseo, simili ad ombre che segnano un fuoco fatuo. Discendevano di scalino in scalino verso il luogo che era riservato alle Vestali, quando Franz sembrò udire il rumore di una pietra che si staccasse e cadesse dalla scala ch’egli pure aveva ascesa.

Certo non è cosa rara sentir cadere una pietra che sotto i piedi del tempo si stacca e va a rotolare nell’abisso; ma questa volta gli sembrò fosse il piede di un uomo, e che il rumore dei passi giungesse fino a lui, sebbene chi li causava facesse di tutto per renderli impercettibili.

Difatti, dopo un momento, comparve un uomo, uscendo gradatamente dall’ombra mentre saliva la scala la cui apertura, posta dirimpetto a Franz, era illuminata dalla luna.

Poteva essere un viaggiatore come lui, che preferiva una meditazione solitaria al ciarlare insignificante delle guide, e per conseguenza la sua comparsa nulla aveva di sorprendente; ma all’esitazione colla quale salì gli ultimi scalini, al modo con cui, giunto sul piano, si fermò e parve mettersi in ascolto, era evidente essere venuto là con qualche scopo.

Per un movimento istintivo Franz si nascose quanto più potette dietro la colonna. A dieci passi dal luogo ove si trovavano la volta era diroccata, e, da una apertura rotonda come quella di un pozzo, lasciava vedere il cielo tutto brillante di stelle.

Attorno a questa apertura che forse da qualche secolo dava passaggio ai raggi della luna, vegetavano dei cespugli il cui verde spiccava con vigore sul pallido azzurro del firmamento, mentre grandi frasche e mazzi di ellera pendevano da questa terrazza superiore, e ondulavano sotto la volta a guisa di corde flottanti.

Il personaggio che aveva attirata l’attenzione di Franz era in una mezza ombra che non permetteva di distinguerne i tratti, ma non abbastanza oscura per impedirgli di vedere i particolari del vestito.

Era avvolto in un gran mantello scuro, un lembo, gettato sulla spalla sinistra, gli copriva la parte inferiore del viso, mentre un cappello a larghe tese copriva la parte superiore. L’estremità del vestito era illuminata dai raggi obliqui della luna che passavano dall’apertura, e che permettevano di distinguere i calzoni neri, che elegantemente finivano su un paio di stivali di pelle lucida.

Quest’uomo apparteneva evidentemente se non all’aristocrazia, almeno alla buona società.

Erano già trascorsi alcuni minuti da che era là, e già cominciava a dare qualche segno d’impazienza, allorché si udì un piccolo rumore nella terrazza sovrapposta. Nel medesimo punto un’ombra intercettò la luce, un uomo apparve all’orlo dell’apertura, gettò uno sguardo penetrante nelle tenebre, e vide l’uomo del mantello, che, reggendosi ad un pugno di quelle frasche e di quei rami d’ellera ondulante, si lasciò scivolare, e, giunto a tre o quattro piedi dal suolo, saltò leggermente a terra.

Questi era interamente vestito da trasteverino.

“Scusatemi, Eccellenza, se vi ho fatto aspettare” disse in dialetto romano, “però non sono in ritardo che di pochi minuti; le dieci sono suonate or ora a San Giovanni in Laterano.”

“Sono stato io che sono venuto prima, e non voi che avete tardato” rispose lo straniero nel più puro toscano, “non facciamo cerimonie perché quand’anche mi aveste fatto aspettare, sarei ben certo che sarebbe stato per qualche motivo indipendente dalla vostra volontà.”

“Ed avete ragione, Eccellenza, vengo da Castel Sant’Angelo, ed ho avuto tutte le difficoltà possibili per poter parlare a Beppe.”

“Chi è questo Beppe?”

“Beppe è un impiegato delle prigioni al quale passo un piccolo compenso mensile per sapere ciò che succede in Castello.”

“Ah, ah, vedo che siete un uomo pieno di cautele, mio caro.”

“Che volete, Eccellenza, non si sa ciò che può accadere: forse io pure sarò un giorno o l’altro preso nella rete, come quel povero Peppino, ed avrò io pure bisogno di un sorcio per rodere qualche maglia della mia prigione.”

“Alle corte, che avete saputo?”

“Che martedì vi saranno due esecuzioni, alle due del pomeriggio, come è solito in certe ricorrenze particolari. Uno dei condannati sarà impiccato: è un miserabile che ha ucciso quella stessa persona che lo aveva allevato, e questi non merita alcun interesse; l’altro sarà decapitato, e questi è il povero Peppino.”

“Che volete, mio caro, voi ispirate un terrore così grande non solo al governo pontificio, ma agli Stati vicini, che assolutamente si vuol dare un esempio.”

“Ma Peppino non faceva neppure parte della mia banda; era un povero pastore che non ha commesso altro delitto che quello di fornirci viveri.”

“E ciò lo fa vostro complice in piena regola. Anzi vedete che gli usano dei riguardi. Invece di impiccarlo, come faranno a voi se mai vi metteranno le mani addosso, si contentano di ghigliottinarlo. E vedete bene che daranno due spettacoli differenti.”

“Senza contare quello che gli preparerò io, e che non si aspettano” soggiunse il trasteverino. “Mio caro, permettetemi di dirvi che mi sembrate del tutto disposto a fare qualche sciocchezza.”

“Sono disposto a far di tutto per impedire l’esecuzione di quel povero diavolo, che si trova nell’impiccio per avermi servito. Mi terrei per un vile, se non facessi qualche cosa per questo bravo giovane.”

“E che fareste?”

“Metterò una ventina di uomini intorno al patibolo, e quando vi verrà condotto, ad un segnale che darò, ci slanceremo col pugnale alla mano sulla scorta, e lo porteremo via.”

“Questa è una cosa troppo incerta, ed io ritengo che il mio disegno sia migliore del vostro.”

“E qual è il disegno di Vostra Eccellenza?”

“Farei in modo di parlare ad uno che conosco pregandolo di ottenere che l’esecuzione si differisca a quest’altro anno: quindi nel corso dell’anno tornerei a parlare con commovente eloquenza ad un altro tale che pure conosco, e lo farei evadere di prigione.”

“Siete sicuro della riuscita?”

“Parbleu!” disse in francese l’uomo del mantello.

“Che vuol dire?” domandò il trasteverino.

“Vuol dire che farò più colle mie insinuanti macchinazioni che voi con tutta la vostra gente, coi loro pugnali, le loro pistole, le carabine ed i tromboni. Lasciatemi dunque fare.”

“A meraviglia! Ma, ricordatevi bene, se non ci riuscirete, ci terremo sempre preparati.”

“Tenetevi sempre preparati, se così vi piace, ma siate certi che avrò la sua grazia.”

“Ricordatevi che martedì è dopo domani. Voi non avete più che il solo domani.”

“Sta bene, ma un giorno si compone di ventiquattro ore, ciascun’ora di sessanta minuti, ciascun minuto di sessanta secondi, e in ottantaseimilaquattrocento secondi si fanno moltissime cose.”

“Come sapremo se Vostra Eccellenza è riuscita?”

“È semplicissimo: ho preso in fitto le tre ultime finestre del caffè Ruspoli, se ho ottenuta la grazia, le due finestre ai lati avranno un tappeto di damasco giallo, e quella di mezzo ne avrà uno di damasco bianco con una croce rossa.”

“Sta benissimo. E da chi farete presentar la grazia?”

“Inviatemi uno dei vostri uomini travestito da confratello, e la consegnerò a lui. Mediante questo travestimento, egli potrà giungere fino ai piedi del patibolo, e rimetterà il foglio al capo della confraternita che lo passerà al carnefice. Frattanto, fate sapere questa notizia a Peppino, che egli non abbia a morire di paura, o non abbia a divenir pazzo, che sarebbe come farci fare un’opera buona inutilmente.”

“Ascoltate, Eccellenza” disse il trasteverino, “io vi sono affezionato, ne siete convinto?”

“Lo spero almeno.”

“Ebbene, se voi salvate Peppino, la mia non sarà più affezione, ma per l’avvenire sarà cieca obbedienza.”

“Ebbene, fa’ attenzione a ciò che dici, mio caro, forse un giorno avrò a ricordarti questo discorso e chissà che un giorno io pure abbia bisogno di te…”

“Allora, Eccellenza, mi troverete nel momento del bisogno, come io avrò trovato voi; foste anche all’altra estremità del mondo, non avreste che a scrivermi “fate questo” ed io lo farei sulla fede di…”

“Zitto” disse lo sconosciuto, “sento del rumore.”

“Sono viaggiatori che visitano il Colosseo.”

“È inutile che ci trovino insieme. Queste spie di guide potrebbero riconoscervi, e per quanto sia onorevole la nostra relazione, pur non ostante se si sapesse che siamo uniti in amicizia, questo legame mi farebbe perdere non poco il mio credito.”

“E così, se voi avrete la grazia?…”

“La finestra di mezzo avrà il tappeto bianco ed una croce rossa.”

“Se non la otterrete?…”

“Tutte e tre le finestre saranno addobbate coi tappeti gialli.”

“E allora?…”

“Allora, menate il pugnale a vostro piacere, vi prometto di esser là per assistervi.”

“Addio, Eccellenza; conto su di voi, e voi contate su di me.”

A queste parole il trasteverino sparì per la scala, mentre lo sconosciuto coprendosi più che mai il viso col mantello, passò a due passi da Franz e discese nell’arena per la gradinata esterna.

Un minuto dopo, Franz intese il proprio nome ripetersi sotto le volte: era Alberto che lo chiamava. Aspettò per rispondere che i due interlocutori si fossero allontanati, non volendo si sapesse esservi stato un testimonio, il quale, se non aveva veduti i loro volti non aveva però perduto una parola della loro conversazione. Dieci minuti dopo Franz percorreva la strada per andare a piazza di Spagna, ascoltando distratto la dotta dissertazione che Alberto faceva, dietro la testimonianza di Plinio e Calpurnio, sulle reti guarnite di punte di ferro che impedivano agli animali feroci di slanciarsi sugli spettatori.

Egli lo lasciò discorrere senza contraddirlo; aveva troppa fretta di trovarsi solo, per pensare senza distrazione a quanto era avvenuto vicino a lui.

Di questi due uomini l’uno certamente era italiano, ed era la prima volta che lo vedeva e lo sentiva, ma non era così dell’altro, e quantunque Franz non ne avesse distinte le forme del viso, sempre nascoste nell’ombra o nel mantello, l’accento di questa voce lo aveva troppo colpito la prima volta che l’aveva intesa, perché potesse mai più risuonare a lui vicino senza riconoscerla.

Vi era, particolarmente nelle intonazioni ironiche, qualche cosa di stridulo e di metallico, che lo aveva fatto rabbrividire fra le rovine del Colosseo, non meno che nella grotta di Montecristo; per cui era ben convinto che fosse Sindbad il marinaio.

In tutt’altra congiuntura, la curiosità che gli ispirava quest’uomo sarebbe stata così grande, che si sarebbe fatto riconoscere; ma in questa occasione, la conversazione che aveva intesa era troppo intima per non essere trattenuto dal timore che una sua comparsa non sarebbe stata gradita. Lo aveva dunque lasciato allontanare, come si è veduto, ma ripromettendosi se lo avesse incontrato un’altra volta, di non lasciarsi sfuggire una seconda occasione.

Franz era troppo preoccupato per potere dormire bene. La notte fu impiegata a passare e ripassare tutte le più minute particolarità che avevano relazione con l’uomo della grotta, e con lo sconosciuto del Colosseo; e più Franz ci pensava, più si convinceva della sua opinione.

Si addormentò sul far del giorno, si svegliò molto tardi.

Alberto, da vero parigino, aveva già le sue mire per la serata. Aveva mandato a cercare un palco al teatro Argentina. Franz aveva molte lettere da scrivere in Francia, e lasciò la carrozza ad Alberto per tutta la giornata.

Alle cinque questi ritornò; aveva già portate le lettere di raccomandazione, ricevuto inviti per tutte le conversazioni serali, e veduto Roma.

Un giorno era bastato ad Alberto per far tutto questo, ed aveva anche avuto il tempo di informarsi dell’opera che si cantava, e degli attori che la eseguivano.

L’opera s’intitolava Parisina; gli attori erano Cosselli, Moriani e la Spech. I nostri due giovani non erano disgraziati, come si vede, avrebbero sentita la musica di una delle migliori opere dell’autore della Lucia di Lammermoor, cantata dai tre artisti più rinomati d’Italia. Alberto non aveva mai potuto abituarsi ai teatri oltramontani, nell’orchestra dei quali non è permesso andare e che non hanno né palchi, né logge scoperte; ciò era penoso per un uomo che aveva il suo posto agli Italiani, e nella loggia infernale all’Opéra.

Ciò però non gl’impediva di vestirsi con accuratezza tutte le volte che andava a teatro con Franz, toilettes sprecate, perché, bisogna confessarlo a vergogna di uno dei rappresentanti più degni del nostro bonton, in quattro mesi che viaggiava l’Italia in tutti i sensi, non aveva avuta ancora alcuna avventura.

Alberto qualche volta cercava di scherzare su questo argomento; ma nel fondo del cuore era grandemente mortificato, egli, Alberto Morcerf, uno dei giovani più intraprendenti, non aveva ancora fatta alcuna conquista. La cosa era tanto più penosa, perché, secondo l’abituale modestia dei nostri cari compatrioti, Alberto era partito da Parigi con la ferma convinzione di avere in Italia il più felice successo, e di ritornare a formar la delizia del Bastione di Gand col racconto delle sue avventure.

Ahimé! non ne aveva avuta alcuna: le graziose contesse genovesi, fiorentine e napoletane si erano conservate per i loro mariti, per i loro amanti, ed Alberto aveva acquistata la crudele convinzione che le italiane sanno essere almeno fedeli. Anche se non voglio dire che in Italia, come in ogni altro luogo, non vi siano le loro eccezioni. Eppure Alberto non era solo un cavaliere molto elegante, ma aveva anche dello spirito; in più, era visconte, e di nobiltà recente, è vero, ma oggi che importa, se la propria nobiltà porta la data del 1393 o del 1815? Oltre tutto aveva cinquantamila lire di rendita; e questo è molto più di quanto bisogna per essere un giovane alla moda in Parigi. Era dunque un poco umiliante non essere stato ancora seriamente osservato da alcuna signora nelle città in cui aveva soggiornato.

Ma aveva stabilito di vendicarsi nel carnevale, essendo questo un tempo di libertà in tutti i paesi della terra in cui è introdotta questa istituzione, e nella quale anche i più stoici cadono in qualche follia.

Ora, siccome il carnevale si apriva il giorno appresso, era necessario che Alberto facesse conoscere il suo programma prima di quest’apertura.

Alberto dunque, con questa idea, aveva preso in fitto uno dei palchi più esposti, e prima di andarci fece una toilette irreprensibile. Era al primo ordine, e del resto le tre prime file di palchi sono ugualmente ed indistintamente aristocratiche, e per questo si chiamano gli ordini nobili. Questo palco, nel quale si poteva stare in dodici senza pigiarsi, era costato molto meno che non sarebbero costati quattro posti in una loggia dell’Ambigu.

Alberto aveva ancora un’altra speranza, ed era che se giungeva a prendere un posto nel cuore di qualche bella romana, ciò lo avrebbe naturalmente condotto anche a conquistare un Posto nella carrozza. e per conseguenza a vedere il Corso dall’alto di una carrozza aristocratica o da una finestra principesca.

Tutte queste considerazioni lo tenevano dunque in continuo movimento.

Egli volgeva le spalle agli attori, sporgeva per metà fuori del palco guardando le più belle donne con un cannocchiale lungo sei pollici, cosa che non sollecitava alcuna signora a ricompensare di un solo sguardo, anche di semplice curiosità, tutti i movimenti di Alberto.

Difatti ciascuna parlava dei suoi affari, dei suoi piaceri, del carnevale che cominciava l’indomani, senza fare attenzione né agli attori, né alla musica, ad eccezione dei momenti in cui si volgeva verso il palcoscenico per sentire un recitativo di Cosselli, per applaudire a qualche bella nota del Moriani, per gridare brava alla Spech. Indi le particolari conversazioni riprendevano il loro corso abituale.

Verso la fine del secondo atto si aprì la porta di un palco rimasto vuoto fino allora, e Franz vide entrarvi una persona alla quale aveva avuto l’onore di essere stato presentato a Parigi e che credeva ancora in Francia.

Alberto vide il movimento che fece il suo amico a questa comparsa, e volgendosi a lui:

“Conoscete forse quella signora?” disse.

“Sì, che ve ne pare?”

“Graziosa, mio caro; è bionda. Oh, che capelli adorabili! È una francese?”

“No, è veneziana.”

“Come si chiama?”

“La contessa G*.”

“Oh, io la conosco di nome” esclamò Alberto, “dicono che sia tanto spiritosa quanto è bella. Per Bacco, avrei potuto farmi presentare a lei a Parigi all’ultimo ballo della Villefort, e non l’ho avvicinata, sono un grande stupido!”

“Volete che ripari a questo torto?” domandò Franz.

“Come! voi la conoscete con abbastanza intimità per presentarmi nel suo palco?”

“Non ho avuto l’onore che di parlarle tre o quattro volte in vita mia, ma a tutto rigore ciò basta per non commettere una sconvenienza.”

In questo momento la contessa riconobbe Franz, e colla mano gli fece un grazioso cenno, al quale egli rispose con un rispettoso inchino di testa.

“Mi sembra che siate molto nelle sue grazie!” disse Alberto.

“Ecco ciò che inganna, e a noi francesi farà fare sempre mille sciocchezze all’estero: sottomettere tutto ai punti di vista parigini. Nella Spagna, e soprattutto in Italia, non giudicate mai della intimità delle persone, dalla libertà dei rapporti. Io e la contessa ci troviamo simpatici, ed ecco tutto.”

“Simpatici di cuore?” domandò ridendo Alberto.

“No, di spirito…” rispose seriamente Franz.

“Ed in quale occasione?”

“Nell’occasione di una passeggiata al Colosseo, come quella che abbiamo fatta insieme.”

“Al chiaro di luna?”

“Sì.”

“Soli?”

“Quasi.”

“Ed avete parlato?…”

“Di morti.”

“Ah, doveva essere una cosa assai piacevole. Ebbene, vi prometto che se avrò la fortuna di essere il cavaliere della bella contessa in una simile passeggiata, non le parlerò che dei vivi.”

“E forse farete male.”

“Frattanto, presentatemi alla contessa, come mi avete promesso.”

“Subito, non appena sarà calato il sipario.”

“Quanto è lungo questo diavolo di primo atto!”

“Ascoltate il finale, è bellissimo, e Cosselli lo canta mirabilmente.”

“Sì, ma che portamento!”

“Non si può essere però più drammatici della Spech.”

“Quando si è intesa la Sontang e la Malibran…”

“Non trovate eccellente il metodo di Moriani?”

“A me non piacciono i bruni che cantano biondo.”

“Ah, mio caro” disse Franz volgendosi, mentre Alberto continuava a puntare il suo cannocchiale, “in verità siete molto difficile a contentare.”

Finalmente calò il sipario con grande soddisfazione del visconte di Morcerf, che prese il cappello, dette colla mano un’assestata ai capelli, alla cravatta, ai polsini, e fece osservare a Franz ch’egli aspettava.

Siccome la contessa, che Franz interrogava con lo sguardo, gli aveva fatto un segno impercettibile cogli occhi, per fargli capire che sarebbe stato il benvenuto, così non tardò a soddisfare la premura di Alberto, e mentre faceva il giro del corridoio, il compagno ne approfittava per accomodare le false pieghe sul colletto della camicia, e sui rovesci dell’abito. Batterono alla porta del numero 4, che era il palco occupato dalla contessa. Subito il giovane, che sedeva a lato della contessa sul davanti del palco, si alzò cedendo il posto, secondo il costume italiano, al nuovo arrivato, che deve cederlo a sua volta quando entra un’altra visita.

Franz presentò Alberto alla contessa come uno dei giovani parigini più distinti per la sua posizione sociale, per il suo spirito, cosa d’altra parte vera, perché a Parigi e nel circolo in cui viveva Alberto era ritenuto un cavaliere irreprensibile. Aggiunse che afflitto di non aver potuto approfittare del soggiorno della contessa a Parigi per farsi presentare a lei, lo aveva incaricato di riparare a questo errore, missione della quale si disimpegnava, pregando la contessa, presso la quale aveva bisogno egli stesso di un introduttore, di perdonare la sua indiscrezione.

La contessa rispose facendo un grazioso saluto ad Alberto e stendendo la mano a Franz. Invitato da lei, Alberto prese il posto rimasto vuoto sul davanti, e Franz si sedette nella seconda fila presso la contessa.

Alberto aveva ritrovato un eccellente argomento di conversazione: Parigi; parlava alla contessa delle loro comuni conoscenze.

Franz capì che era sul terreno che gli conveniva, lo lasciò parlare, e chiestogli il gigantesco cannocchiale, si mise anch’egli ad esplorare il teatro.

Sola, sul davanti di un palco al terz’ordine di faccia, c’era una donna molto bella, con un costume alla greca, portato con tanta disinvoltura, che si capiva essere quello il suo vestito abituale. Dietro ad essa, nell’ombra, si delineava la forma di un uomo di cui era impossibile distinguere il viso.

Franz interruppe la conversazione di Alberto con la contessa per chiedere a quest’ultima se conosceva la bella albanese tanto degna di attirare l’attenzione non solo degli uomini, ma anche delle donne.

“No” disse lei, “tutto ciò che so, è che si trova a Roma dal principio della stagione; perché all’apertura del teatro l’ho vista dove è ora, e da un mese non è mancata ad una rappresentazione, ora accompagnata dall’uomo con lei in questo momento, ora semplicemente seguita da un domestico moro.”

“Come la trovate, contessa?”

“Estremamente bella. Medora doveva rassomigliare a questa donna.”

Franz e la contessa si scambiarono un sorriso, poi questa riprese il dialogo con Alberto, e Franz seguitò a fissare la bella albanese.

Il sipario si alzò per la rappresentazione del ballo. Era uno dei buoni balli italiani, messo in scena dal famoso Henry, che come coreografo, si era fatta in Italia una reputazione colossale, che poi il disgraziato perse al Teatro Nautico, per uno di quei balli ove dal primo personaggio all’ultima comparsa tutti prendono una parte attiva all’azione, e centocinquanta persone fanno nello stesso tempo lo stesso gesto, ed alzano o il medesimo braccio, o la medesima gamba.

Questo ballo era intitolato Dorliska.

Franz era troppo preoccupato della sua bella greca per potersi occupare del ballo.

Quanto a lei, prendeva un manifesto piacere a questo spettacolo, piacere che formava una singolare opposizione con la noncuranza di colui che l’accompagnava, e che durante tutta la rappresentazione coreografica non fece un movimento, sembrando che in mezzo al rumore infernale che facevano le trombe, i cembali e i piatti cinesi in orchestra, egli godesse le celestiali dolcezze di un sonno pacifico.

Finalmente il ballo terminò, ed il sipario calò in mezzo agli applausi frenetici di una platea entusiasta.

Per quest’abitudine di separare col ballo i due atti dell’opera, gl’intermezzi fra un atto e l’altro sono cortissimi in Italia: i cantanti hanno tutto il tempo di riposarsi e di fare i loro travestimenti mentre i ballerini eseguono le loro danze.

L’introduzione del secondo atto cominciò.

Franz vide che, ai primi colpi d’archetto, il dormiente andava alzandosi lentamente, e si avvicinava alla greca, che si volse per dirgli qualche parola, quindi tornò ad appoggiarsi al davanti del palco. La figura dell’interlocutore si teneva sempre fra l’ombra, e Franz non poteva distinguere i tratti del volto.

Rialzato il sipario, gli attori attirarono necessariamente l’attenzione di Franz; gli occhi lasciarono per un momento il palco della bella greca per andare verso la scena.

Il secondo atto, come ognuno sa, comincia col duetto del sogno: Parisina, dormendo, lascia sfuggire, davanti ad Azzo, il segreto del suo amore per Ugo. Lo sposo tradito passa per tutti i furori della gelosia, fino a che, convinto dell’infedeltà della sposa, la sveglia per annunziarle la vicina vendetta.

Questo duetto è uno dei più belli, dei più espressivi, dei più terribili usciti dalla penna di Donizetti.

Franz lo sentiva per la terza volta, e quantunque non passasse per un melomaniaco arrabbiato, produsse su di lui un effetto profondo. Stava per congiungere i suoi applausi a quelli del pubblico, allorché le sue mani rimasero sospese in aria, ed i bravi che stavano per uscirgli di bocca, si estinsero sulle labbra.

L’uomo del palco si era alzato in piedi e la sua testa veniva rischiarata dalla luce: Franz riconobbe in lui il misterioso abitante di Montecristo, quello che la sera innanzi gli era sembrato di aver individuato fra le rovine del Colosseo.

Non c’era più dubbio, lo strano viaggiatore era a Roma.

Senza fallo, la fisionomia di Franz era in armonia col turbamento che gettava nel suo spirito quest’apparizione, poiché la contessa lo guardò, scoppiò in una risata, e gli chiese ciò che avesse.

“Signora contessa” rispose Franz, “poco fa vi ho domandato se conoscevate quella donna albanese: ora vi domando se conoscete suo marito.”

“Niente più di lei!” rispose la contessa.

“L’avete mai osservato?”

“Ecco una domanda alla francese! Sapete bene che per noi italiane non c’è altro uomo al mondo se non quello che amiamo!”

“È giusto!” rispose Franz.

“In ogni modo” disse lei applicando ai suoi occhi il cannocchiale di Alberto, e dirigendolo verso il palco, “lui dev’essere un qualche dissotterrato, qualche morto uscito dalla tomba col permesso dei becchini, poiché mi sembra spaventosamente pallido.”

“È sempre così…” rispose Franz.

“Voi dunque lo conoscete?” domandò la contessa. “Allora sono io che vi domando chi è?”

“Credo di averlo veduto altre volte, e mi sembra di riconoscerlo.”

“Infatti” disse lei, facendo un movimento colle sue belle spalle come se un brivido le percorresse le vene, “capisco che quando un tal uomo si è visto una volta, non si dimentica più.”

L’effetto che Franz aveva provato non era dunque un’impressione particolare, perché un altro l’aveva risentita al pari di lui.

“Ebbene!” domandò allora alla contessa, dopo che l’ebbe guardato una seconda volta, “che pensate di quell’uomo?”

“A me sembra che sia lord Ruthwen in carne ed ossa.”

Infatti questo nuovo ricordo di Byron colpì Franz; se qualcuno poteva fargli credere l’esistenza dei vampiri, era quest’uomo.

“Bisogna ch’io sappia chi è…” disse Franz alzandosi.

“Oh, no” gridò la contessa, “no, non mi lasciate! Ho contato su voi per accompagnarmi a casa, ed ora vi trattengo.”

“Come, veramente” le disse Franz, accostandosele all’orecchio, “avete paura?”

“Ascoltate” disse lei, “Byron mi ha giurato che credeva ai vampiri, mi ha assicurato di averne veduti, e me ne ha descritti i loro visi; ebbene, assomigliano perfettamente a quell’uomo là, con i capelli neri, grandi occhi brillanti di una strana fiamma, quel pallore mortale; poi aggiungete che non è con una donna come tutte le altre, è con una straniera… una greca… una scismatica… senza dubbio con una maga al par di lui… Ve ne prego, non partite. Domani vi metterete sulle sue tracce, se così vi aggrada, ma questa sera vi ritengo impegnato.”

Franz insistette.

“Ascoltate” disse lei alzandosi, “io me ne vado, non posso fermarmi sino alla fine dello spettacolo, perché ho gente in casa che mi aspetta… Sarete così poco galante da negarmi la vostra compagnia?”

Franz non aveva altra risposta a dare che prendere il cappello, aprire la porta, e presentare il braccio alla contessa.

E questo fece. La contessa era veramente molto commossa: lo stesso Franz non poteva sfuggire ad un certo terrore superstizioso, tanto più naturale in quanto nella contessa era il prodotto di una sensazione distinta, ed in lui il risultato di strani ricordi.

Nel salire in carrozza sentì che la contessa tremava.

La ricondusse fino a casa: non era vero che era attesa, gliene fece perciò dei rimproveri.

“In verità” disse lei, “non mi sento bene, ed ho bisogno di esser sola, la vista di quell’uomo mi ha sconvolta.”

Franz fece atto di ridere.

“Non ridete” gli disse lei, “d’altra parte, non ne avete la volontà. Promettetemi una cosa…”

“E quale?”

“Promettetela.”

“Tutto quel che vorrete, eccetto di rinunziare a scoprire chi è quell’uomo. Ho dei motivi che non posso dirvi per desiderare di sapere chi sia, donde venga e dove vada.”

“Donde venga non lo so, ma dove vada, ve lo posso dire a colpo sicuro: va all’inferno.”

“Ritorniamo alla promessa che volevate da me.”

“Ah, si tratta di tornare direttamente all’albergo e cercare di non veder questa sera quell’uomo. Vi è una certa affinità fra le persone che si lasciano e quelle che si raggiungono; non vogliate servire di tramite fra quell’uomo e me. Domani corretegli dietro come più vi aggrada, ma non me lo presentate mai, se non volete vedermi morire di paura. Dopo ciò, buona sera; cercate di dormir bene, quanto a me, sento che non dormirò!”

A queste parole la contessa si allontanò da Franz, lasciandolo irresoluto, nel dubbio se si era divertita alle sue spalle, o se aveva veramente sentita la paura espressa.

Ritornando all’albergo, Franz ritrovò Alberto in veste da camera, con larghi calzoni e voluttuosamente disteso sopra una poltrona, fumando un sigaro.

“Ah, siete voi” disse, “non vi aspettavo che domattina.”

“Mio caro Alberto” rispose Franz, “colgo l’occasione di dirvi, una volta per sempre, che avete la più falsa idea delle donne italiane; mi sembra pertanto che le vostre sconfitte amorose avrebbero dovuto farvela perdere.”

“Che volete, non c’è niente da capire con questi diavoli di donne: vi danno la mano, ve la stringono, vi parlano a bassa voce all’orecchio, si fanno accompagnare a casa; con la quarta parte di tal congegno una parigina perderebbe la sua reputazione.”

“Eh, questo accade precisamente, perché non hanno nulla da nascondere, perché vivono in pieno giorno, ecco, perché le donne usano tanti pochi riguardi nel bel paese là dove il sì suona, come dice Dante. D’altra parte, vedeste bene, la contessa ha avuto veramente paura.”

“Paura di che? Di quell’onest’uomo di faccia a noi con quella bella greca? Ho voluto vederci chiaro quando sono usciti, e sono andato loro incontro nel corridoio. Non so dove diavolo avete prese tutte le vostre idee dell’altro mondo! È un bellissimo giovane molto elegante, e gli abiti hanno l’aspetto d’esser fatti in Francia da Blin o da Humann. È un po’ pallido, è vero, ma voi sapete che il pallore è un marchio di distinzione.”

Franz sorrise, perché Alberto aveva la pretesa d’esser pallido.

“Io pure” disse Franz, “sono convinto che le idee della contessa su quest’uomo siano prive di buon senso. Ha parlato vicino a voi ed avete udita qualcuna delle sue parole?”

“Ha parlato, ma in dialetto; ho riconosciuto l’idioma e qualche parola greca sfigurata. Bisogna che sappiate, mio caro, che in collegio ero molto valente in greco.”

“Parlava dunque un dialetto greco.”

“È probabile.”

“Non vi è dubbio” mormorò Franz, “è lui.”

“Che dite?…”

“Niente… Ma che facevate voi là?”

“Vi preparavo una sorpresa.”

“Quale?”

“Sapete che è impossibile ritrovare una carrozza?”

“Per Bacco! dopo che abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente possibile fare…”

“Ebbene, ho un’idea meravigliosa.”

Franz guardò Alberto, come non avesse gran fiducia nella sua immaginazione.

“Mio caro” disse Alberto, “mi onorate di uno sguardo tale, che meriterebbe vi domandassi soddisfazione.”

“Sono disposto a darvela, amico mio, se la vostra idea è ingegnosa quanto dite.”

“Ascoltate.”

“Ascolto.”

“Non c’è mezzo di procurarsi una carrozza?”

“No.”

“Neanche cavalli?”

“No, ugualmente.”

“Ma sarà facile procurarsi un carretto?”

“Forse.”

“E un paio di buoi?”

“È probabile.”

“Ebbene, mio caro, ecco ciò che ci serve. Faccio ornare il carretto, ci mascheriamo da mietitori napoletani, e rappresentiamo al vero il magnifico quadro di Leopoldo Robert. Se per una maggior somiglianza la contessa volesse vestirsi alla foggia delle donne di Pozzuoli o di Sorrento, compirebbe la mascherata, ed è tanto bella che verrebbe presa per l’originale del quadro.”

“Per Bacco” gridò Franz, “questa volta avete ragione, ecco un’idea veramente felice.”

“E tutta nazionale, rinnovata dai re dei poltroni, mio caro. Ah, signori romani, voi credete che si voglia andare a piedi come lazzaroni, e ciò perché avete penuria di carrozze e di cavalli? Ebbene, ne inventeremo.”

“E avete già fatto partecipe qualcuno di questa trionfante invenzione?”

“Al nostro albergatore. Quando sono ritornato, l’ho fatto salire e gli ho esposti i miei desideri. Mi ha assicurato che non vi è nulla di più facile. Volevo far dorare le corna dei buoi, ma mi ha detto che richiederebbe almeno tre giorni: bisognerà dunque che tralasciamo questa superfluità.”

“E dov’è lui?”

“Chi?”

“Il nostro albergatore…”

“In cerca del necessario; domani forse sarebbe tardi.”

“Di modo che si darà la risposta questa sera stessa?”

“Io l’aspetto.”

A queste parole la porta si aprì, e Pastrini sporse la testa: “È permesso?” disse.

“Certamente” gridò Franz.

“Ebbene” disse Alberto, “avete trovati il carretto ed i buoi?”

“Ho trovato di meglio” rispose, con un’aria molto soddisfatta.

“Ah, mio caro Pastrini, guardatevi” disse Alberto: “il meglio è nemico del bene.”

“Le Eccellenze Vostre si fidino di me” disse Pastrini col tono di persona sicura.

“Ma infine che c’è?” domandò Franz a sua volta.

“Sapete” disse l’albergatore, “che il conte di Montecristo abita su questo medesimo piano?”

“Credo bene che lo sappiamo” disse Alberto, “poiché è per lui che siamo alloggiati come due studenti della rue Saint-Nicolas du Chardonnet.”

“Ebbene, egli sa del vostro imbarazzo, e vi offre due posti nella sua carrozza, e due posti alle sue finestre del palazzo Ruspoli.”

Alberto e Franz si guardarono.

“Ma” domandò Alberto, “dobbiamo accettare l’offerta di questo straniero? Di un uomo che non conosciamo?”

“Che uomo è questo conte di Montecristo?” domandò Franz all’albergatore.

“Un ricchissimo signore siciliano o maltese, non lo so precisamente, ma nobile come un Borghese, e ricco come una miniera d’oro.”

“Mi sembra” disse Franz, “che se questo signore avesse avuto le maniere che decanta il nostro albergatore, avrebbe dovuto farci giungere il suo invito in altro modo, o con un biglietto, o…”

In quel momento fu battuto alla porta.

“Entrate” disse Franz.
Un domestico in elegante livrea comparve sulla soglia della camera.

“Vengo da parte del conte di Montecristo a recare questo biglietto per il signor Franz di Epinay e per il signor visconte Alberto di Morcerf” disse.

E consegnò all’albergatore il biglietto che questi passò ai giovani.

“Il signor conte di Montecristo” continuò il domestico, “domanda a questi signori il permesso di potersi presentare a loro, come vicino, domattina; avrà l’onore d’informarsi in che ora saranno visibili.”

“In fede mia” disse Alberto a Franz, “non c’è niente da ridire; c’è tutto.”

“Dite al conte” rispose Franz, “che sarà nostro l’onore di fargli visita.”

Il domestico si ritirò.

“Ecco ciò che si chiama fare sfoggio di eleganza” disse Alberto. “Davvero avete ragione, Pastrini, il vostro conte di Montecristo è un uomo che conosce perfettamente le buone maniere.”

“Allora accettate la sua offerta?” disse Pastrini.

“In fede mia sì” rispose Alberto. “Anche se, ve lo confesso, mi dispiace per il nostro carretto da mietitori, e se non vi fosse stata la finestra del palazzo Ruspoli per compensare ciò che perdiamo, credo che ritornerei al mio primo disegno: che ne dite Franz?”

“Dico che sono precisamente le finestre del palazzo Ruspoli che mi hanno fatto risolvere ed accettare” rispose Franz.

Infatti quest’offerta dei due posti ad una finestra del palazzo Ruspoli aveva ricordato a Franz la conversazione intesa alle rovine del Colosseo, fra lo sconosciuto ed il trasteverino, conversazione nella quale l’uomo del mantello scuro si era impegnato ad ottenere la grazia del condannato.

Se questi era, come tutto faceva credere a Franz, lo stesso che gli era apparso al teatro Argentina, lo avrebbe riconosciuto senza dubbio, ed allora non avrebbe avuto più alcun ostacolo a soddisfare la curiosità.

Franz passò buona parte della notte a pensare alle due apparizioni, e nel desiderare l’indomani.

Infatti, l’indomani tutto doveva chiarirsi, e, a meno che il suo ospite di Montecristo non possedesse l’anello di Gips e la facoltà di rendersi invisibile, era evidente che questa volta non gli sarebbe sfuggito.

Si svegliò prima delle otto.

Quanto ad Alberto, siccome non aveva gli stessi motivi di Franz per essere mattiniero, dormiva ancora tranquillamente.

Franz fece chiamare l’albergatore, che si presentò coi soliti ossequi.

“Pastrini” gli disse, “non ci deve essere oggi un’esecuzione?”

“Si, Eccellenza; ma se lo domandate per avere una finestra è troppo tardi.”

“No” rispose Franz, “d’altra parte se volessi assolutamente vedere questo spettacolo, credo troverei posto sul Pincio.”

“Oh, presumevo che Vostra Eccellenza non volesse mettersi con tutta quella canaglia di cui il Pincio è in qualche modo l’anfiteatro naturale.”

“È probabile che non vi andrò” disse Franz, “ma desidererei qualche particolare.”

“Quale?”

“Vorrei sapere il numero dei condannati, i loro nomi, e il genere del loro supplizio.”

“Non poteva capitare più a proposito, Eccellenza, proprio in questo momento mi hanno portato le tavolette.”

“Che cosa sono queste tavolette?”

“Le tavolette sono quadretti di legno che vengono attaccati agli angoli delle contrade il giorno prima dell’esecuzione e sulle quali sono scritti i nomi dei condannati, la causa della loro condanna e il genere di supplizio. Questo avviso ha lo scopo d’invitare i fedeli a pregar Dio di concedere ai colpevoli un sincero pentimento.”

“E ve le portano perché uniate le vostre preghiere a quelle dei fedeli?” domandò Franz.

“No, Eccellenza, io me la sono intesa con quello che le attacca, e me ne porta una copia, come un altro mi porterebbe un manifesto dello spettacolo, affinché se qualcuno dei miei forestieri desidera assistere all’esecuzione, sia avvertito.”

“Ma questa è proprio un’attenzione delicata!”

“Oh” disse Pastrini, “non faccio per vantarmi, ma cerco di fare tutto il possibile per soddisfare i nobili avventori che mi onorano della loro confidenza.”

“Me ne accorgo, e lo ripeterò a chi vorrà ascoltarmi, siatene pur sicuro. Frattanto desidererei una di queste tavolette.”

“È presto fatto” disse l’albergatore aprendo la porta, “ne ho fatta mettere una qui sul pianerottolo.”

Uscì, staccò la tavoletta e la presentò a Franz.

Ecco le parole dell’affisso patibolare.

“Si rende noto a tutti che martedì 22 febbraio, primo giorno di carnevale saranno per Decreto del Tribunale e della Sacra Rota, giustiziati sulla piazza del Popolo i nominati Andrea Rondolo, reo di assassinio sulla persona di un rispettabilissimo cittadino di Roma; ed il nominato Peppino detto Rocca Priori, convinto di complicità col detestabile bandito Luigi Vampa e gli uomini della sua banda. Il primo sarà impiccato, e il secondo decapitato. Le anime caritatevoli sono pregate di domandare a Dio un sincero pentimento per questi due infelici condannati.”

Questo era ciò che Franz aveva inteso fra le rovine del Colosseo, e non era stato cambiato nulla al programma: i nomi dei condannati, la causa del supplizio e il genere di esecuzione erano esattamente gli stessi.

Così, secondo ogni probabilità, il trasteverino non era altro che il bandito Luigi Vampa, e l’uomo dal mantello scuro Sindbad il marinaio che a Roma come a Porto Vecchio e a Tunisi proseguiva il corso delle sue filantropiche spedizioni.

Frattanto il tempo passava, erano le nove, e Franz si disponeva ad andare a svegliare Alberto, quando con sua grande sorpresa lo vide uscir di camera vestito di tutto punto.

“Ebbene” disse Franz all’albergatore, “ora che siamo pronti tutti e due, credete che potremmo presentarci al conte di Montecristo?”

“Certamente; ha l’abitudine di alzarsi di buon mattino, e sono sicuro che è alzato da più di due ore.”

“E credete che non sarà indiscreto fargli visita a quest’ora?”

“No, certamente.”

“In questo caso, Alberto, se siete pronto…”

“Perfettamente pronto.”

“Andiamo a ringraziare il nostro vicino della sua cortesia.”

“Andiamo.” Franz e Alberto non avevano che il pianerottolo da attraversare.

L’albergatore li precedeva, e suonò in loro vece; un domestico venne ad aprire.

“I signori francesi” disse l’albergatore.

Il domestico s’inchinò e fece loro segno di entrare.

Essi attraversarono due camere ammobiliate con un lusso che non credevano ritrovare nell’albergo di Pastrini, e furono introdotti in un salotto di una perfetta eleganza.

Un tappeto di Turchia era steso sul pavimento, e i mobili più comodi offrivano i loro cuscini imbottiti e presentavano gli schienali inclinati indietro. Magnifici quadri di pennello maestro frammezzati da trofei di splendidissime armi, erano appesi alle pareti, e ricche portiere di trapunto pendevano davanti a tutte le aperture.

“Se le Loro Eccellenze vogliono sedersi” disse il domestico, “vado ad avvisare il signor conte.”

E disparve da una porta.

Al momento in cui questa si aprì, il suono di una “guzla” giunse fino ai due amici ma si estinse subito, la porta, rinchiusa quasi nello stesso momento, non aveva lasciato passare nel salone che, per così dire, un soffio d’armonia.

Franz ed Alberto si scambiarono uno sguardo, e tornarono a volgere la loro attenzione sui mobili, sui quadri e sulle armi. A questa seconda ispezione tutto sembrò ancor più magnifico che alla prima.

“Ebbene” domandò Franz al suo amico, “che ne dite?”

“In fede mia, mio caro, dico che bisogna che il nostro vicino sia un qualche agente di cambio che ha giocato sui ribassi dei fondi spagnoli, o qualche principe che viaggia incognito.”

“Zitto” gli disse Franz, “questo è ciò che sapremo fra poco, eccolo…”

Infatti il rumore di una porta che girava sui cardini si fece sentire, e quasi subito fu alzata una portiera che lasciò passare il proprietario di tutte queste ricchezze.

Alberto gli andò incontro, ma Franz rimase al suo posto.

Quegli che entrava era infatti l’uomo dal mantello scuro del Colosseo, lo sconosciuto del palco, l’ospite misterioso di Montecristo.

alexandre dumas père, il conte di montecristo

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