“Signori” disse il conte di Montecristo, “abbiate le mie scuse per essermi lasciato prevenire; ma avrei avuto timore di essere indiscreto venendo più presto da voi. D’altra parte mi avevate fatto dire che sareste venuti, ed io mi sono trattenuto a vostra disposizione.”
“Franz ed io dobbiamo farvi mille ringraziamenti, signor conte” disse Alberto, “voi ci avete tolti da un grande impaccio, e stavamo per inventare un qualche veicolo fantastico al momento che ci mandaste il vostro grazioso invito.”
“Eh, mio Dio, signori” rispose il conte facendo segno cogli occhi ai due giovani di sedersi sopra un divano, “la colpa è di questo imbecille di Pastrini che non mi ha detto prima il vostro impaccio, e vi ha lasciati per così lungo tempo nell’incertezza; solo e isolato come sono non cercavo che un’occasione di far conoscenza coi miei vicini. Cosicché appena seppi poter esservi utile in qualche cosa, avete veduto con quale fretta ho afferrata l’occasione di prestarvi i miei servigi.”
I due giovani s’inchinarono.
Franz non aveva ancora trovata una sola parola da dire, non aveva ancora presa alcuna risoluzione, e poiché il conte sembrava non avesse volontà di riconoscerlo, o alcun desiderio di essere riconosciuto da lui non sapeva se doveva fare allusione al passato con qualche parola qualunque, o lasciare il tempo all’avvenire per portargli nuove prove.
Del resto, essendo sicuro che era quello stesso della sera innanzi nel palco, non poteva ugualmente assicurare che fosse quello al Colosseo due sere prima: risolse dunque di lasciar camminare le cose senza fare alcuna osservazione diretta al conte. D’altra parte, aveva una superiorità su lui era padrone del suo segreto, mentre al contrario il conte non poteva avere alcun potere su Franz, che non aveva nulla da nascondere.
Mentre aspettava gli avvenimenti decise di far cadere la conversazione su un punto che potesse sempre condurre a dei chiarimenti.
“Signor conte” disse, “ci avete offerto due posti nella vostra carrozza ed altri due alle finestre del palazzo Ruspoli; potreste ora indicarci come potremmo fare per procurarci un posto qualunque sulla piazza del Popolo?”
“Ah, sì, è vero” disse il conte in modo distratto, ma guardando Morcerf con attenzione, “ci dev’essere, se non sbaglio, in piazza del Popolo qualche cosa di simile ad una esecuzione.”
“Sì” rispose Franz, vedendo che veniva da sé dove voleva condurlo.
“Aspettate, aspettate, credo di aver detto ieri al mio intendente di occuparsi di questo, e forse potrò rendervi anche questo piccolo favore.”
Allungò una mano, e tirò il cordone del campanello. Subito entrò un individuo sui quarantacinque cinquant’anni che somigliava come due gocce d’acqua a quel contrabbandiere che aveva introdotto Franz nella grotta, ma che non fece minimamente segno di conoscerlo.
“Bertuccio” disse il conte, “vi siete incaricato, come ordinai ieri, di trovarmi una finestra sulla piazza del Popolo?”
“Sì, Eccellenza” rispose l’intendente, “ma era troppo tardi.”
“Come” disse il conte, increspando il sopracciglio, “vi avevo pure ordinato di ritrovarne una?”
“E Vostra Eccellenza l’avrà; è una finestra che era stata data in fitto al principe Lobagneff; ma sono stato costretto a pagarla cento…”
“Sta bene, sta bene, Bertuccio, risparmiate a questi signori dei particolari inutili; voi avete la finestra e questo è l’importante. Date l’indirizzo della casa al cocchiere, e trattenetevi sulla scala per accompagnarci. Basta così: andate.”
L’intendente salutò, e fece un passo per ritirarsi.
“Aspettate!” riprese il conte. “Fatemi il piacere di domandare a Pastrini se ha ricevuta la tavoletta, e se vuole inviarmi il programma dell’esecuzione.”
“E inutile” rispose Franz cavando il portafogli di tasca, “ho avuto questa tavoletta sotto gli occhi, e l’ho copiata, eccola.”
“Allora, Bertuccio, potete ritirarvi, non ho più bisogno di voi. Che ci avvisino soltanto quando sarà pronta la colazione. Questi signori” continuò volgendosi ai due amici, “mi faranno l’onore di far colazione con me?”
“Davvero, signor conte” disse Alberto, “sarebbe un abusare…”
“No, al contrario, mi fate un vero piacere… Mi renderete tutto ciò a Parigi, l’uno o l’altro, e forse anche tutti e due… Bertuccio, ordinate che preparino per tre.”
E prese il foglio dalle mani di Franz.
“Noi dicevamo dunque” continuò col tono con cui avrebbe letto tutt’altro avviso, “che saranno giustiziati oggi 22 febbraio i nominati Andrea Rondolo, reo d’assassinio sulla persona di un rispettabilissimo cittadino di Roma, e il nominato Peppino detto Rocca Priori convinto di complicità col detestabile bandito Luigi Vampa, e gli uomini della sua banda”. Hum! “Il primo sarà impiccato, e il secondo decapitato…” Sì, infatti precisamente così doveva andare la faccenda, ma credo che da ieri sia sopraggiunto qualche cambiamento nell’ordine della cerimonia.”
“Ah” disse Franz, “quale cambiamento?”
“Sì, ieri sera dal cardinale R* presso il quale ho passata la serata, si parlava di qualche cosa come una dilazione accordata ad uno dei due condannati.”
“Ad Andrea Rondolo?” domandò Franz.
“No…” rispose negligentemente il conte, “all’altro…” e guardando il foglio per ricordarsi il nome, “… a Peppino detto Rocca Priori… Questo vi priverà di vedere in azione la ghigliottina, ma vi resta l’altra esecuzione, che è un supplizio molto imponente, quando si vede per la prima volta, ed anche la seconda, mentre l’altro, che voi certo dovete conoscere, è troppo semplice, troppo rapido, e nulla c’è di inaspettato. La mannaia non sbaglia, non trema non colpisce in falso, non si ripete trenta volte come il soldato che tagliava la testa al conte di Chalais, ed al quale forse era stato raccomandato da Richelieu. Ah” aggiunse il conte con tono sprezzante, “non mi parlate degli europei per le esecuzioni capitali, essi non se ne intendono affatto, e sono nella vera infanzia, o piuttosto nella decrepitezza in rapporto al dare la morte.”
“In verità, signor conte” rispose Franz, “si direbbe che avete fatto uno studio comparato dei supplizi presso i diversi popoli del mondo.”
“Ve ne sono pochi che io non abbia veduti.”
“Ed avete trovato piacere ad assistere a questi spettacoli?”
“Il mio primo sentimento fu la ripugnanza, il secondo l’indifferenza, il terzo la curiosità.”
“La curiosità? La parola è veramente terribile, sapete?”
“Perché? Non c’è nella vita una preoccupazione più grave di quella della morte… Ebbene non è curioso studiare in quanti differenti modi l’anima può uscir dal corpo, e come, secondo i caratteri, i temperamenti, ed anche i costumi dei paesi, gl’individui sopportino questo supremo passaggio?”
“Non vi capisco bene” disse Franz, “spiegatevi, perché non potete credere quanto punga la mia curiosità ciò che mi dite.”
“Ascoltate dunque” disse il conte, ed il suo viso diventò di fiele nello stesso modo che il viso di un altro si colora col sangue. “Se un uomo avesse fatto morire fra torture inaudite, in mezzo a tormenti senza fine vostro padre, vostra madre, la vostra amica, uno di quegli esseri infine che quando vengono sradicati dal nostro cuore vi lasciano un vuoto eterno ed una piaga sempre sanguinosa, credete che fosse sufficiente la riparazione che vi accorda la società, perché il ferro della ghigliottina è passato fra la base dell’occipite e i muscoli delle spalle dell’uccisore, e perché colui che vi ha fatto soffrire lunghi anni di morali sofferenze, ha provato qualche secondo di dolore fisico?”
“Sì, lo so” rispose Franz, “la giustizia umana è insufficiente, come consolatrice delle angosce sofferte; può versar sangue per sangue, e niente più… Non bisogna però chiederle più di quello che può dare.”
“Adesso vi proporrò un altro caso materiale” riprese il conte, “quello in cui la società, attaccata dalla morte violenta di un individuo nei principi sui quali si fonda, punisce la morte colla morte. Ma non vi sono milioni di dolori dai quali possono essere straziati i visceri dell’uomo, senza che la società se ne occupi minimamente, senza ch’essa gli offra il mezzo insufficiente di castigo di cui parlavamo or ora? Non vi sono delitti per i quali il palo dei turchi, i trogoli dei persiani, i nervi attortigliati degl’indiani sarebbero supplizi troppo gentili, e che tuttavia la società indifferente lascia senza punizione?… Rispondetemi, non vi sono questi delitti?”
“Sì, e il duello è appena tollerato in alcuni paesi per punirli.”
“Ah, il duello!” gridò il conte. “Graziosa maniera di giungere alla meta, quando questa è la vendetta! Un uomo vi rapisce l’amica, seduce vostra moglie, disonora vostra figlia; di una vita intera, che aveva il diritto di aspettarsi da Dio, la parte di felicità che ha promesso ad ogni uomo nel crearlo, ha formato un’esistenza di dolore, di miseria, o di infamia, e voi vi credete vendicato perché a quest’uomo, che vi ha messo il delirio nell’anima e la disperazione nel cuore, avete passato il petto con la spada o traversata la testa con una pallottola? Senza calcolare che spesso è il reo che riporta il vantaggio nel duello, e viene così scolpato agli occhi del mondo. No, no” continuò il conte, “se avessi mai a vendicarmi, non mi vendicherei così.”
“Voi disapprovate dunque il duello? Dunque non vi battereste in duello?” domandò a sua volta Alberto, meravigliato nel sentire una tale teoria.
“No certamente, non mi batterei” disse il conte.
“Ma” disse Franz al conte, “con questa teoria che vi costituisce giudice ed esecutore nella vostra propria causa, sarebbe difficile contenervi nei limiti per fuggire gli estremi, che sono sempre pericolosi, e converrete senza difficoltà, che l’odio è cieco, la collera sorda, e colui che vi mesce la vendetta, corre pericolo di bere una bevanda amara.”
“Anche questo può essere vero, e qualche volta abbiamo visto avverarsi ciò che ora affermate; ma, d’altra parte, il peggio che potrebbe accadere ad un tale che avesse violato la legge, sarebbe d’incorrere in quest’ultimo supplizio di cui parlavamo or ora, quello cioè che la filantropica rivoluzione francese ha sostituito allo squarto ed alla ruota. Ebbene, che cosa è questo supplizio, se si è vendicato? In verità, sono quasi spiaciuto che, secondo tutte le probabilità, questo miserabile Peppino non venga decapitato come si dice, vedreste il tempo che vi s’impiega, e se merita la pena di parlarne… Ma, sul mio onore, facciamo una conversazione singolare per essere il primo giorno di carnevale. Come diavolo è avvenuto? Ah, mi ricordo: voi avete domandato un posto alla mia finestra… Ebbene, l’avrete! Frattanto andiamo a tavola, poiché ecco che vengono ad annunciare che tutto è pronto.”
Infatti un domestico aprì una delle quattro porte del salotto e disse la consueta frase:
“È servito in tavola!”
I due giovani si alzarono e passarono nella sala da pranzo.
Durante la colazione, che riuscì eccellente, e fu servita con estrema ricercatezza, Franz cercò cogli occhi lo sguardo d’Alberto, per leggervi l’impressione che dovevano necessariamente avergli fatto le parole del loro ospite ma sia che, nella sua abituale noncuranza, non vi avesse prestata grande attenzione, sia che la massima del conte di Montecristo esternata in rapporto al duello lo avesse con lui riconciliato, sia finalmente che gli antecedenti raccontati, conosciuti particolarmente da Franz, avessero raddoppiato solo l’effetto delle teorie del conte, non si accorse che il compagno fosse preoccupato; anzi Alberto faceva onore alla colazione come un uomo condannato da quattro o cinque mesi ad una cucina ben differente dalla sua. Quanto al conte era in preda ad una preoccupazione molto viva, che pareva ispirata dalla persona di Alberto, ed assaggiò appena ciascun piatto; si sarebbe detto, nel mettersi a tavola con i suoi convitati, che adempisse un semplice dovere di gentilezza, e che aspettasse la loro partenza per farsi portare qualche cibo strano e particolare.
Ciò ricordava suo malgrado a Franz, il terrore che il conte aveva ispirato alla contessa G* e la convinzione in cui l’aveva lasciata che il conte, l’uomo che le aveva mostrato nel palco in faccia a lei, era un vampiro.
Alla fine della colazione, Franz cavò l’orologio.
“Ebbene” disse il conte, “che fate dunque?”
“Ci scuserete signor conte” rispose Franz, “ma noi abbiamo ancora mille cose da fare.”
“E quali?”
“Non abbiamo abiti da maschera, ed oggi il mascherarsi è di rigore.”
“Non vi occupate di questo. A quanto sembra abbiamo sulla piazza del Popolo una stanza privata; vi farò portare gli abiti che m’indicherete e ci maschereremo là.”
“Dopo l’esecuzione?” gridò Franz.
“Dopo, nel tempo, o prima, come vorrete…”
“In faccia al patibolo?”
“Che discorso è questo? Noi saremo presenti alla festa, ma staremo nella nostra stanza privata.”
“Sentite, signor conte, vi ho riflettuto bene” disse Franz, “vi ringrazio della vostra gentilezza. Mi contenterò di accettare un posto nella vostra carrozza, ed uno alla finestra del palazzo Ruspoli; vi lascio in libertà di disporre del mio posto alla finestra di piazza del Popolo.”
“Ma voi perdete, ve ne prevengo, una cosa molto curiosa” disse il conte.
“Me la racconterete” replicò Franz, “e sono convinto che dalla vostra bocca il racconto mi farà quasi tanta impressione, quanta ne potrei ricevere nel vedere il fatto. D’altra parte più di una volta ho progettato di assistere ad una esecuzione, e non mi sono mai potuto risolvere. E voi Alberto?”
“Io” rispose il visconte, “ho veduto giustiziare Castaping…, ma credo fossi un po’ sbronzo quel giorno, perché era il primo che uscivo di collegio.”
“Ma” soggiunse il conte, “non è una ragione, che se non avete fatta una cosa a Parigi non la dobbiate neppure fare all’estero: quando si viaggia è per istruirsi: quando si cambia luogo, è per vedere. Pensate dunque quale meschina figura fareste, quando si facessero delle domande relativamente a queste esecuzioni in Roma, e voi non sapeste rispondere altro che “non le vidi”. E poi, si dice che il condannato sia un infame malandrino, un birbante che ha ucciso a colpi di alare un buon canonico che l’aveva allevato come un figlio. Se viaggiaste in Spagna, non andreste a vedere i combattimenti dei tori? Ebbene figuratevi sia un combattimento quello che andiamo a vedere; ricordatevi degli antichi romani al Circo, dove venivano uccisi trecento leoni e un centinaio di uomini; rammentate quegli ottantamila spettatori che battevano le mani, o quelle sagge matrone che vi conducevano le loro figlie per maritarle, e quelle graziose vestali dalle mani bianche che col pollice facevano un graziosissimo e piccolo segno che voleva dire: “Via, non siate pigri, finite di ammazzarmi quell’uomo, che è mezzo morto.”
“Vi andrete dunque, Alberto?”
“In fede mia, sì; esitavo come voi, ma l’eloquenza del conte mi ha determinato.”
“Andiamoci dunque, poiché lo volete” disse Franz, “ma nel recarmi alla piazza del Popolo desidererei passare per il Corso. È possibile, signor conte?”
“A piedi sì, in carrozza non è permesso.”
“Ebbene, vi andrò a piedi.”
“Ma avete tanta necessità di passare per il Corso?”
“Sì, ho qualche cosa da sbrigare.”
“Ebbene, passiamo tutti per il Corso. Manderemo la carrozza per la strada del Babbuino ad aspettarci sulla piazza del Popolo. Del resto anch’io ho piacere di passare per il Corso, onde vedere se sono stati eseguiti alcuni ordini che ho dati.”
“Eccellenza” disse un domestico aprendo la porta, “un uomo vestito da confratello della buona morte chiede di parlarvi.”
“Ah, sì” disse il conte, “so che cos’è. Signori, volete avere la compiacenza di entrare nel salotto? Troverete sulla tavola di mezzo degli eccellenti sigari Avana… Vi raggiungerò fra poco.”
I due giovani si alzarono e uscirono da una porta, mentre il conte, dopo aver rinnovato loro le scuse, uscì dall’altra.
Alberto, che era un gran dilettante di sigari, e che non riteneva piccolo sacrificio l’esser privo dei sigari del Caffè di Parigi da che era in Italia, si avvicinò alla tavola, e mandò un grido di gioia nel riconoscere del veri “puros”.
“Ebbene” gli domandò Franz, “che pensate del conte di Montecristo?”
“Che ne penso?” disse Alberto, grandemente meravigliato che il compagno gli facesse una simile domanda. “Penso che è un uomo carissimo, che fa a meraviglia gli onori di casa sua, che ha molto studiato, che ha riflettuto assai, che è come il Bruto della scuola stoica, e” aggiunse, mandando una voluttuosa fumata che salì a spirale verso il soffitto, “e che, oltre tutto ciò, possiede degli eccellenti sigari.”
Questa era l’opinione di Alberto sul conte. Siccome era noto a Franz che Alberto aveva la pretesa di non farsi mai un’opinione degli uomini e delle cose che dopo mature riflessioni, Franz non tentò di cambiar niente alla sua.
“Ma” disse, “avete notato una cosa singolare?”
“E quale?”
“L’attenzione con cui vi guardava.”
Alberto rifletté un poco.
“Ah” disse con un sospiro, “nulla di strano in questo: sono assente da Parigi da quasi un anno, e debbo avere degli abiti di un taglio dell’altro mondo. Il conte mi avrà preso per un provinciale. Disingannatelo, caro amico, e ditegli, ve ne prego, alla prima occasione, che non è vero.”
Franz sorrise; un momento dopo rientrò il conte.
“Eccomi, signori” disse, “e tutto per voi! Ho già dato gli ordini. La carrozza andrà a piazza del Popolo per la sua strada, e noi andremo per la nostra, se lo desiderate ancora, cioè per la strada del Corso. Su via, prendete dunque qualcuno di questi sigari, signor Morcerf…” aggiunse, strisciando in modo singolare le sillabe di questo nome che pronunziava per la prima volta.
“In fede mia, con gran piacere” disse Alberto, “perché i vostri sigari italiani sono ancora peggiori di quelli della privativa regia; quando verrete a Parigi vi renderò tutto questo.”
“Ed io non rifiuto; conto di andarvi per qualche giorno, e poiché me lo permettete, verrò a battere alla vostra porta. Andiamo, signori, andiamo, non abbiamo tempo da perdere; è mezzogiorno e mezzo, partiamo…”
Tutti e tre discesero.
Allora il cocchiere prese gli ordini del padrone, seguì la via del Babbuino, mentre i pedoni risalivano per piazza di Spagna, e per via Frattina che conduce direttamente fra il palazzo Fiano e il palazzo Ruspoli.
Gli sguardi di Franz furono diretti alle finestre di quest’ultimo palazzo; non aveva dimenticato il segnale convenuto al Colosseo, fra l’uomo del mantello scuro e il trasteverino.
“Quali sono le vostre finestre?” domandò al conte col tono più naturale che potesse.
“Le tre ultime” rispose il conte con una negligenza non affettata, perché non poteva indovinare a quale scopo gli veniva fatta questa domanda.
Gli sguardi di Franz si portarono rapidamente alle tre finestre.
Quelle laterali erano parate con un tappeto di damasco giallo, e quella di mezzo con un tappeto di damasco bianco che portava una croce rossa.
L’uomo dal mantello scuro aveva dunque mantenuta la parola al trasteverino, e non c’era più dubbio, era precisamente il conte.
Le tre finestre erano vuote.
Da tutte le parti si facevano preparativi: si mettevano a posto le sedie, si ergevano palchi, si paravano le finestre.
Le maschere non potevano comparire, le carrozze non potevano entrare che dopo il suono della campana del Campidoglio; ma si fiutavano le maschere dietro a tutte le finestre, e le carrozze dietro a tutte le porte.
Franz, Alberto ed il conte continuarono a discendere lungo il Corso: a seconda che si avvicinavano alla piazza del Popolo, la folla diveniva più fitta, e, al di sopra delle teste di questa folla, si vedevano due cose l’obelisco sormontato da una croce, che indica il centro della piazza, e davanti all’obelisco, precisamente nel punto di corrispondenza visuale delle tre strade del Babbuino, del Corso e di Ripetta, i due travi supremi del patibolo, fra i quali brillava l’acciaio forbito della falce.
All’angolo della strada, c’era l’intendente del conte che aspettava il padrone.
La finestra presa in fitto, ad un prezzo senza dubbio esorbitante che il conte non aveva voluto far conoscere ai convitati, era al secondo piano del gran palazzo situato fra la strada del Babbuino e il Pincio, una specie di soggiorno che comunicava con una camera da letto; ma chiudendo la porta di questa, quelli che avevano preso in fitto il soggiorno stavano come in casa loro. Sulle sedie erano disposti dei vestiti da pagliaccio, di seta bianca e celeste della più grande eleganza.
“Avendomi lasciata la scelta dei costumi” disse il conte ai due amici, “ho fatto preparare questi. Saranno ciò che di meglio verrà indossato in questo anno, poi sono ciò che vi è di più comodo giacché la farina che getteranno si adatterà al costume.”
Franz non intese che imperfettamente le parole del conte, e forse non apprezzò al giusto valore questa nuova gentilezza, poiché tutta la sua attenzione era rivolta allo spettacolo che rappresentava la piazza del Popolo ed allo strumento terribile che ne formava in quell’ora il principale ornamento.
Era la prima volta che Franz vedeva una ghigliottina. Noi diciamo ghigliottina, ma la falce romana è presso a poco della stessa forma del nostro strumento di morte.
La falce ha la forma di una mezza luna, taglia dalla parte convessa cade da minore altezza: ecco tutta la diversità!
Due uomini, seduti sulla tavola ad altalena, dove viene steso il condannato, aspettavano, e mangiavano, a quanto sembrò a Franz, del pane e della salsiccia. Uno di essi sollevò l’asse, e ne estrasse un fiasco di vino, ne bevve e passo il fiasco al suo compagno: erano gli aiutanti del carnefice!
A questa sola vista, Franz aveva sentito venirgli il sudore fino alla radice dei capelli.
I condannati erano stati trasportati, dalla sera innanzi, dalle carceri nuove alla chiesa di Santa Maria del Popolo, ed avevano passata tutta la notte assistiti ciascuno da due preti in una cappella chiusa da un cancello, davanti al quale passeggiavano le sentinelle cambiate d’ora in ora.
Una doppia fila di gendarmi posti da ciascun lato della chiesa si estendeva fino al patibolo, intorno al quale formava un circolo di dieci piedi di spazio fra la ghigliottina ed il popolo.
Tutto il resto della piazza sembrava un selciato di teste d’uomini e di donne delle quali molte avevano i loro bambini sulle spalle, e questi vedevano meglio di tutti, perché venivano ad aver la testa al di sopra delle altre.
Il Pincio sembrava un vasto anfiteatro con i gradini carichi di spettatori, le finestre delle due chiese che formavano l’angolo delle strade del Babbuino e di Ripetta col Corso, rigurgitavano di curiosi privilegiati; gli scalini dei peristili sembravano un’onda moventesi e variopinta che una marea incessante spingesse verso il portico, ciascuna sporgenza o rilievo di muro che potesse dare appoggio ad un uomo aveva la sua statua vivente.
Ciò che diceva il conte era dunque vero: ciò che vi è di più curioso nella vita è lo spettacolo della morte.
E invece del silenzio, come dovrebbe essere nella solennità di un tale spettacolo, un gran rumore usciva da quella folla, rumore composto di risa, di urli, di grida giocose. Era evidente, come aveva detto il conte, che a questa esecuzione era intervenuta una gran moltitudine di popolo, non per la cosa in sé ma per la coincidenza col principio del carnevale.
D’improvviso tutto questo rumore cessò come per incanto; la porta della chiesa era stata aperta.
La confraternita detta di San Giovanni Decollato comparve. Ciascun membro era vestito di un sacco grigio aperto soltanto agli occhi, e teneva in mano una torcia accesa; il capo di questa confraternita apriva la strada.
Dietro ai confratelli veniva un uomo di alta persona, nudo, ad eccezione dei calzoni di tela, alla cui cintola penzolava un gran coltello nel fodero, e che portava sulla spalla destra un quantità di corda nuova: era il carnefice. Aveva i sandali allacciati alla gamba con funicelle.
Dietro al carnefice camminavano, nell’ordine in cui dovevano esser giustiziati, prima Peppino, e poi Andrea; ciascuno accompagnato da due preti. Né l’uno né l’altro avevano gli occhi bendati.
Peppino camminava con passo molto sicuro; senza dubbio avvisato di ciò che gli si preparava.
Andrea era sostenuto sotto le braccia da un prete.
Entrambi baciavano, ogni decina di passi, il simbolo della Redenzione presentato dal confessore.
Franz sentì che solo questa vista gli faceva venir meno le gambe; guardò Alberto.
Era pallido come la camicia e per un movimento meccanico gettò il sigaro, quantunque non lo avesse fumato che a metà.
Il conte solo pareva impassibile. Anzi di più: una leggera tinta rosea adombrava il pallore livido delle sue guance, il naso si dilatava come un animale che annusa il sangue, e le labbra lasciavano vedere i denti piccoli, bianchi ed acuti, come quelli di un lupo d’Africa. Tuttavia il suo viso aveva un’espressione di dolcezza sorridente, che Franz non gli aveva mai veduta; gli occhi soprattutto erano d’una ammirabile mansuetudine.
Frattanto i due condannati continuavano a camminare verso il patibolo, ed a seconda che avanzavano si potevano distinguere i tratti del loro viso.
Peppino era un bel giovane dai ventiquattro ai ventisei anni, di colorito scuro per il sole, con lo sguardo libero e selvaggio; portava la testa alta, e sembrava odorare il vento per conoscere da che parte sarebbe arrivato il liberatore.
Andrea era grosso e corto; il viso, trivialmente crudele, non rivelava la sua età, ciò nonostante poteva avere circa trent’anni. Nella prigione si era lasciata crescere la barba. La testa penzolava sopra una delle spalle, le gambe gli si piegavano sotto; tutto il suo essere sembrava obbedire ad un movimento corporeo, al quale la sua volontà non prendeva parte.
“Mi sembra” disse Franz al conte, “abbiate detto che vi sarà una sola esecuzione.”
“Ho detto la verità” rispose egli freddamente.
“Però là ci sono due condannati.”
“Sì, ma di quei due, uno è sul punto di morire, l’altro vivrà ancora molti anni.”
“Ma se deve venire la grazia, non c’è tempo da perdere.”
“Ed appunto eccola che viene, guardate…” disse il conte.
Difatti nel momento in cui Peppino giungeva ai piedi del patibolo, un penitente che sembrava giunto in ritardo, passò la fila senza che i soldati facessero ostacolo al suo passaggio, e venendo avanti presentò al capo della confraternita un foglio piegato in quattro parti.
Lo sguardo ardente di Peppino non aveva perduto alcuno di questi particolari; il capo della confraternita spiegò la carta, la lesse ed alzò la mano.
“Il Signore sia benedetto e Sua Santità sia lodata!” disse ad alta ed intelligibile voce. “C’è la grazia della vita per uno dei condannati.”
“Grazia!” gridò il popolo con un sol grido. “C’è la grazia!”
A questa parola grazia, Andrea si scosse e alzò la testa.
“Grazia, per chi?” gridò.
Peppino restò immobile, muto ed anelante.
“È la grazia della pena di morte per Peppino detto Rocca Priori” disse il capo della confraternita.
E passò il foglio nelle mani del comandante dei gendarmi, che dopo averlo letto tornò a renderlo.
“Grazia per Peppino!” gridò Andrea, tolto dallo stato di torpore in cui sembrava immerso. “Perché grazia per lui e non per me? Noi dovevamo morire insieme, mi era stato promesso che sarebbe morto prima di me non ha diritto di farmi morir solo, non voglio morire solo, non lo voglio!…”
E si attaccò alle braccia dei due preti, torcendosi, urlando, ruggendo e facendo sforzi insensati per resistere al carnefice che voleva, a quell’impeto imprevisto, legargli nuovamente le mani.
Il carnefice fece un segno ai suoi aiutanti i quali saltarono dal patibolo, e vennero ad impadronirsi del condannato.
“Che accade dunque?” domandò Franz al conte, giacché la distanza non gli permetteva di intendere le parole.
“Che accade?” disse il conte. “Non lo indovinate? Accade che quella creatura umana che va alla morte, è divenuta furiosa perché il suo simile non muore con lei, e se si lasciasse fare lo sbranerebbe con le unghie e con i denti piuttosto di lasciarlo godere della vita di cui sarà in breve privata. Oh, uomini, uomini! razza di coccodrilli, come disse Karl Moor” gridò il conte stendendo i due pugni verso tutta quella folla, “come vi riconosco, in ogni tempo siete sempre degni di voi stessi.”
Andrea e i due aiutanti del carnefice si rotolavano nella polvere, ed il condannato gridava sempre:
“Deve morire, voglio che muoia! Non hanno il diritto di farmi morir solo!”
“Guardate, guardate…” disse il conte afferrando ciascuno dei due giovani per la mano, “guardate, perché, sull’anima mia, è una cosa curiosa: ecco un uomo che era rassegnato alla sua sorte, che camminava al patibolo, che andava a morire come un vile, è vero, ma pure andava a morire senza resistenza e senza recriminazione. Sapete ciò che gli dava qualche forza? Sapete ciò che lo consolava? Sapete ciò che gli faceva prendere il supplizio con pazienza? Era un altro che divideva le angosce, un altro che moriva come lui, un altro che moriva prima di lui. Conducete due montoni alla beccheria o due buoi al macello e fate intendere, se vi riesce, ad uno di questi che il suo compagno non morrà: il montone cred’io, belerà di gioia, il bue muggirà di piacere; ma l’uomo, a cui Iddio ha imposto per prima, per unica, per suprema legge l’amore del prossimo, l’uomo a cui Iddio ha dato la parola per esprimere il pensiero, ora vedetelo qui con i vostri propri occhi, che va sulle furie perché va a morir solo, perché sa che il compagno è salvo. In verità, non me lo sarei mai aspettato! Ecco là, non più terrore, non più rassegnazione; oh, disgraziata creatura, quanto lacrimevole è la tua sorte!”
E il conte rise, ma di un riso terribile che faceva comprendere ch’egli aveva orribilmente sofferto per poter giungere a ridere in tal modo.
Frattanto la lotta continuava, ed era spettacolo orribile a vedersi.
I due aiutanti portavano Andrea sul patibolo; tutto il popolo aveva preso partito contro di lui, e ventimila voci mandavano un sol grido:
“A morte! a morte!”
Franz si ritraeva: ma il conte riprese il suo braccio e lo trattenne davanti alla finestra.
“Che fate!” disse. “Avete pietà? In fede mia è ben riposta! Se sentiste gridare il cane arrabbiato, prendereste il vostro fucile, vi appostereste sulla strada, e tirereste senza misericordia, da breve distanza, sulla povera bestia, che in fin dei conti non sarebbe rea che di essere stata morsa da un altro cane, e di rendere ciò che gli fu fatto; ed ecco qua che avete pietà di un uomo che non fu morso da alcun altro, e che ciò nonostante ha ucciso il suo benefattore e che ora non potendo più uccidere, perché ha le mani legate, vuole a tutta forza veder morire il compagno d’infortunio! No, no, guardate, guardate…”
Ogni raccomandazione sarebbe stata inutile, Franz era come affascinato dall’orribile spettacolo.
I due aiutanti avevano portato a grande stento il paziente ai piedi della scala fatale. Il misero si dibatteva, si contorceva, e puntava i piedi, gettandosi con tutta la persona all’indietro.
Uno di quei due tentò d’acquistare qualche vantaggio col salire alcuni scalini dalla sua parte, e tirarlo a sé mentre l’altro lo avrebbe sospinto all’insù.
In quell’attimo il carnefice lo afferrò per la vita e lo sollevò da terra.
Il misero, senza punto d’appoggio e tirato e sospinto, in un attimo fu sotto al laccio.
A tal vista, Franz non poté trattenersi, si ritirò, e andò a cadere su una sedia, mezzo svenuto. Alberto, cogli occhi chiusi, restava in piedi, ma aggrappato al telaio della finestra.
Il conte solo era in piedi e trionfante come l’angelo del male.