L’indomani nel levarsi, la prima parola di Alberto fu di proporre a Franz di fare una visita al conte. Lo aveva già ringraziato la sera prima, ma capiva benissimo che un favore come quello resogli dal conte, meritava due ringraziamenti. Franz che provava un’attrattiva, mista a terrore, verso il conte di Montecristo, non volle lasciarlo andar solo da quest’uomo, e lo accompagnò. Entrambi furono introdotti: cinque minuti dopo comparve il conte.
“Signor conte” disse Alberto andandogli incontro, “permettetemi di ripetervi questa mattina ciò che malamente vi ho detto la scorsa notte; che non dimenticherò mai in qual frangente mi siate venuto in aiuto; e mi ricorderò sempre che vi devo la vita, o poco meno.”
“Mio caro vicino” rispose il conte ridendo, “voi esagerate i vostri obblighi verso di me; non mi dovete che una ventina di migliaia di franchi sul vostro preventivo di viaggio, ed ecco tutto… Vedete bene che non bisogna parlarne. Per vostra parte” aggiunse, “ricevete le mie congratulazioni; avete dimostrato un’ammirabile prontezza d’animo, e gran disinvoltura.”
“Che serve, conte” disse Alberto, “mi sono immaginato di avere avuto una sfavorevole contesa, ed esser corsa una sfida. Volli far comprendere una cosa a questi banditi, che in tutti i paesi del mondo gli uomini si battono, ma che non vi sono che i francesi che si battono ridendo. Ma non essendo meno grande l’obbligo, vengo a chiedervi se per mezzo delle mie conoscenze potessi esservi utile in qualche cosa. Mio padre, il conte de Morcerf d’origine spagnola, gode di un’alta posizione in Francia ed in Spagna, vengo a mettere me e tutte le persone che mi amano a vostra disposizione.”
“Ebbene” disse il conte, “vi confesso, signor de Morcerf, che mi aspettavo da voi una simile offerta, e che l’accetto con tutto il cuore. Avevo già fissati i miei pensieri su di voi per chiedervi un gran favore.”
“Quale?”
“Non sono mai stato a Parigi, e non conosco Parigi.”
“Davvero” gridò Alberto, “avete potuto vivere fino ad ora senza vedere Parigi? Pare incredibile…”
“Eppure è così. Ma sento che una più lunga ignoranza della capitale del mondo intellettuale è impossibile. Vi è di più; forse avrei fatto da lungo tempo questo viaggio indispensabile, se avessi conosciuto qualcuno che mi avesse potuto introdurre in quel mondo dove non ho alcuna relazione.”
“Oh, un uomo come voi!” gridò Alberto.
“Siete molto buono. Ma siccome non riconosco in me stesso altro merito che quello di poter fare concorso, come milionario, ai vostri più ricchi banchieri, e non vado a Parigi per speculare in borsa, questa modestia mi ha trattenuto. Ora la vostra offerta mi risolve. Vediamo v’impegnate, mio caro de Morcerf” il conte strisciò questa parola con un singolare sorriso, “quando sarò in Francia, ad aprirmi le porte di quel mondo, dove sarò uno straniero al pari di un Huron, o di un cinese?”
“Quanto a ciò, mio caro conte, a meraviglia e con tutto il cuore” rispose Alberto, “e tanto più volentieri (mio caro Franz, non vi burlate tanto di me), che sono richiamato a Parigi da una lettera che ricevo questa mattina stessa, ed in cui si parla di una trattativa con una casa molto rispettabile e che ha le migliori relazioni col bel mondo parigino.”
“Trattativa di matrimonio?” disse ridendo Franz.
“Qual meraviglia? Sì: perciò quando ritornerete a Parigi mi troverete uomo sposato, e forse padre di famiglia. Ciò starà bene colla mia serietà naturale, non è vero? In ogni modo, conte, ve lo ripeto, io ed i miei, siamo tutti, corpo ed anima, a vostra disposizione.”
“Ed io accetto” disse il conte, “perché vi assicuro che non mi mancava che questa occasione per effettuare un disegno che rumino da lungo tempo.”
Franz non dubitò un momento che non fosse quello di cui si era lasciato sfuggire qualche parola nella grotta di Montecristo, e guardò il conte mentre diceva queste parole, per tentare di sorprendere sulla sua fisionomia qualche rivelazione sui progetti che lo conducevano a Parigi, ma era molto difficile penetrare nell’animo di quest’uomo, particolarmente quando lo vedeva con un sorriso.
“Ma mi scusi, conte” soggiunse Alberto, contento di poter presentare a Parigi un uomo come il conte di Montecristo, “non sarà un qualche castello in aria, come se ne fanno mille in viaggio, e che, fabbricati sulla sabbia, vengono poi distrutti al primo soffio di vento?”
“No, sul mio onore” disse il conte, “voglio andare a Parigi, ho bisogno d’andarvi.”
“E quando sarà?”
“Quando vi sarete voi stesso?”
“Io?” disse Alberto. “Oh, mio Dio, fra quindici giorni, o al più fra tre settimane; il tempo necessario per il ritorno, e null’altro.”
“Ebbene, vi accordo tre mesi… Vedete che vi do una larga misura.”
“E fra tre mesi” gridò Alberto con gioia, “verrete a battere alla mia porta?”
“Volete un appuntamento anche per il giorno e per l’ora?” disse il conte. “Vi prevengo però che sono di una esattezza da far disperare.”
“Il giorno e l’ora precisa!” disse Alberto. “Ciò andrà a meraviglia.”
“Ebbene, sia così.”
Egli stese la mano verso un calendario attaccato presso lo specchio.
“Oggi siamo al 21 febbraio” cavò l’orologio, “e sono le dieci e mezzo del mattino: volete aspettarmi il 21 maggio prossimo alle dieci e mezzo del mattino?”
“A meraviglia!” disse Alberto. “La colazione sarà preparata.”
“Dove abitate?”
“Rue Helder numero 27.”
“Siete nella vostra casa di scapolo, ed io non vi sarò d’incomodo?”
“Abito in casa di mio padre, ma in un padiglione in fondo al cortile, interamente separato.”
“Va bene” il conte aprì il taccuino e scrisse: “Rue Helder, numero 27, 21 maggio, alle dieci e mezzo del mattino”
“Ed ora” disse il conte, rimettendosi il taccuino in tasca, “state tranquillo, la sfera del vostro pendolo non sarà più esatta di me. Vi rivedrò prima della vostra partenza?” domandò ad Alberto.
“Dipende…”
“Quando partirete?”
“Parto domani sera alle cinque.”
“In questo caso vi do il mio addio. Ho alcuni affari a Napoli, e non sarò di ritorno qui che sabato sera o domenica mattina. E voi” soggiunse volgendosi a Franz, “partite voi pure, signor barone?”
“Sì.”
“Per la Francia?”
“No, per Venezia. Resto ancora un anno o due in Italia.”
“Noi dunque non ci rivedremo a Parigi?”
“Temo di non avere quest’onore.”
“Animo dunque, signori, buon viaggio” disse il conte ai due amici, stendendo ad essi la mano.
Era la prima volta che Franz toccava la mano di quest’uomo, e rabbrividì, perché era di ghiaccio come quella di un morto.
“Per l’ultima volta” disse Alberto, “resta stabilito sulla parola d’onore, è vero? Rue Helder numero 27, il 21 maggio alle dieci e mezzo del mattino?”
“Il 21 maggio, alle dieci e mezzo del mattino, Rue Helder numero 27” ripeté il conte.
Dopo di che i due giovani amici lo salutarono.
“Che avete?” disse Alberto a Franz nel rientrare nelle loro stanze. “Mi sembrate molto afflitto.”
“Sì” disse Franz, “ve lo confesso, il conte è un uomo singolare, e vedo con inquietudine questo appuntamento a Parigi.”
“Questo appuntamento… con inquietudine? E perché? Ma siete pazzo, mio caro Franz!” gridò Alberto.
“Che volete? Pazzo o no, la cosa va così.”
“Ascoltate” ripeté Alberto, “sono ben contento che mi si presenti l’occasione di dirvi che vi ho sempre trovato di una gran freddezza col conte mentr’egli per sua parte è sempre stato ben diverso con noi. Avete qualche prevenzione in particolare contro di lui?”
“Può darsi.”
“Ma l’avevate veduto in qualche altro luogo prima d’incontrarlo qui?”
“Precisamente.”
“E dove?”
“Mi promettete di non dir mai una parola di quanto sto per raccontarvi?”
“Ve lo prometto.”
“Sta bene: ascoltatemi dunque.”
Allora Franz raccontò ad Alberto la sua escursione all’isola di Montecristo, in qual modo vi aveva ritrovato un equipaggio di contrabbandieri e fra questi due banditi corsi. Egli calcò su tutti i particolari della ospitalità stregonesca che il conte gli aveva data nella sua grotta delle Mille e una notte, gli descrisse la cena, l’hashish, le statue, la realtà, il sogno e come al suo svegliarsi altro non restava più, come prova e ricordo di tanti avvenimenti, che il piccolo yacht che faceva vela all’orizzonte per Porto Vecchio. Quindi passò a Roma, alla notte del Colosseo, al dialogo che aveva udito fra lui e Vampa, conversazione relativa a Peppino, e nella quale il conte aveva promesso di ottenere la grazia del bandito, promessa che aveva mantenuta, come ne avranno potuto giudicare i nostri lettori.
Finalmente giunse all’avventura della notte precedente, all’impaccio in cui si era ritrovato, vedendosi mancare sette o ottocento scudi per completare la somma; infine all’idea che gli era venuta di ricorrere al conte, idea che ebbe un risultato tanto soddisfacente e pittoresco. Alberto ascoltava Franz con tutta l’attenzione.
“Ebbene” disse, quando l’amico ebbe finito, “e che c’è di riprovevole in tutto questo? Il conte è viaggiatore; ha un bastimento proprio perché è uomo ricco. Andate a Portsmouht o a Southampton e ritroverete questi porti ingombri di yacht appartenenti a ricchi inglesi che hanno la stessa fantasia. Per sapere dove fermarsi nelle escursioni, per non cibarsi di quella terribile cucina, che avvelena me da quattro mesi, e voi da quattro anni, per non giacere su quei letti abominevoli nei quali non si può dormire, si è fatto ammobiliare un piccolo pian terreno a Montecristo; e temendo che il governo toscano non gli desse il permesso, e tutti i suoi mobili andassero perduti, ha comprato l’isola, e ne ha assunto il nome. Mio caro, frugate nella vostra memoria, e ditemi quante persone di nostra conoscenza prendono il nome di proprietà che non hanno mai avute?”
“Ma” disse Franz, “e quei banditi corsi che erano fra il suo equipaggio?…”
“Che c’è di strano? Capite meglio di qualunque altro che i banditi corsi non sono ladri, ma fuggitivi, perché una qualche vendetta li ha esiliati dalle loro città o dai villaggi; si possono dunque vedere senza compromettersi. In quanto a me dichiaro che se un giorno dovessi andare in Corsica, prima di farmi presentare al Governatore o al Prefetto, mi farei presentare ai banditi di Colomba, sempre che vi si possa mettere la mano sopra, e che io considero gentiluomini.”
“Ma Vampa e la sua banda” soggiunse Franz, “sono banditi che rapiscono per rubare, non lo negherete, spero! Che dite dunque dell’influenza che il conte ha su tal razza di gente?”
“Dirò che dovendo la vita, secondo tutte le apparenze, a questa influenza, non spetta a me il criticarla troppo da vicino. Così, invece di fargliene, come voi, una colpa capitale, troverete giusto che lo scusi, se non di avermi salvata la vita, il che sarebbe esagerato, almeno di avermi fatto risparmiare quattro mila scudi, che fanno ventiquattro mila lire nella nostra moneta, somma per la quale non mi avrebbero tanto stimato in Francia.”
“Ma di che paese è il conte? Che lingua parla? Quali sono i suoi mezzi di sussistenza? Da dove gli viene la sua immensa fortuna? Quale è stata questa prima parte della sua vita misteriosa ed incognita, che ha sparso sulla seconda una tinta oscura e misantropica? Ecco ciò che al vostro posto vorrei sapere.”
“Mio caro Franz, quando leggendo la mia lettera vi siete accorto che avevamo bisogno dell’influenza del conte, siete andato a dirgli: “Alberto conte di Morcerf corre un pericolo; aiutatemi a toglierlo d’impiccio!”. Non è vero?”
“Sì.”
“Allora vi ha egli domandato: “E chi è questo signor Alberto de Morcerf? Donde gli viene il suo nome? Donde gli viene la sua fortuna? Quali sono i suoi mezzi di sussistenza? Qual è il suo paese? Dove è nato?”. Vi ha forse fatte queste domande? dite?”
“No, lo confesso.”
“Egli è venuto, ecco tutto, mi ha tolto dalle mani del signor Vampa, dove ad onta di tutte le mie arie, come voi mi diceste, vi facevo barbina figura, lo confesso: ebbene, mio caro, quando in cambio di simile favore mi domanda di far per lui ciò che si fa tutti i giorni per il primo principe russo o italiano che passa per Parigi, vale a dire presentarlo in società, volete che gli neghi questo? Via dunque, Franz, siete pazzo?”
Bisogna convenire che, contro il solito, questa volta tutte le buone ragioni erano dalla parte di Alberto.
“E va bene” rispose Franz con un sospiro, “fate come volete, mio caro visconte, poiché tutto quello che mi dite è persuasivo, lo confesso, ma è altrettanto vero che il conte di Montecristo è un uomo strano.”
“Il conte di Montecristo è un uomo molto generoso… Non vi ha detto con quale scopo viene a Parigi? Ebbene, viene per concorrere al premio di Monthyon, e se ad ottenerlo non gli manca che il mio voto, glielo darò. Dopo di ciò, non parliamo più di questo: mettiamoci a tavola, e dopo andiamo a fare un’ultima visita a San Pietro.”
Fu fatto come aveva detto Alberto, e il giorno dopo alle cinque di sera i due giovani si lasciarono, Alberto de Morcerf per ritornare a Parigi, e Franz d’Epinay per passare una quindicina di giorni a Venezia.
Ma Alberto, prima di salire in carrozza, consegnò al cameriere dell’albergo, tanto aveva paura che il convitato mancasse al convegno, un biglietto da visita per il conte di Montecristo, sul quale al di sotto delle parole “Visconte Alberto de Morcerf”, aveva scritto colla matita:
“21 maggio, alle dieci e mezzo antimeridiane, rue Helder numero 27.”