Capitolo 39. La colazione - parte prima

Dec 04, 2007 12:49

Nella casa di rue Helder, in cui Alberto de Morcerf aveva dato in Roma convegno al conte di Montecristo, tutto veniva preparato il mattino del 21 maggio, per fare onore alla parola data dal giovane.

Alberto abitava un padiglione posto all’angolo di un gran cortile rimpetto ad un altro stabile.

Due sole finestre di questo padiglione guardavano sulla strada, delle altre, tre davano sul cortile, e due sul giardino. Fra questo cortile ed il giardino s’ergeva, sebbene fabbricata con cattivo gusto di architettura imperiale, l’abitazione elegante e vasta del conte e della contessa de Morcerf.

Su tutta la larghezza del fabbricato girava un muro, che dava sulla strada, ornato ad intervalli da sovrapposti vasi di fiori, e diviso nel mezzo da un cancello, a lance dorate, che serviva per le entrate di parata; una piccola porta, addossata all’abitazione del portinaio dava passaggio a padroni e servitori quando entravano o uscivano a piedi.

Nella scelta del padiglione destinato ad abitazione d’Alberto, si scorgeva la delicata previdenza di una madre che non volendo dividersi dal figlio, aveva però capito che un giovane dell’età di Alberto aveva bisogno di libertà d’azione.

Però dobbiamo convenirne, si scorgeva pure l’intelligente narcisismo del giovane, perduto in quella vita libera ed oziosa propria dei figli di famiglia, al quale veniva, come all’uccello, dorata la gabbia.

Da queste due finestre che guardavano sulla strada, Alberto poteva dare qualche occhiata all’esterno, cosa tanto necessaria ai giovani che vogliono vedere passare innanzi agli occhi il proprio orizzonte, fosse pur quello della strada. Alberto poteva, per le sue scappatelle, uscire da una piccola porta che era dirimpetto all’altra di cui abbiamo parlato, presso l’abitazione del portinaio, e merita una particolare menzione.

Era una piccola porta, che si sarebbe detta dimenticata da tutti dal momento che fu fabbricata la casa, e si sarebbe creduta condannata a rimanere sempre chiusa, tanto sembrava meschina e polverosa. Ma i catenacci e i gangheri erano talmente ben unti, che ne tradivano l’uso continuo e misterioso.

Questa piccola porta segreta faceva concorrenza alle altre due, aprendosi come la famosa porta della caverna delle Mille e una notte, Sesamo incantato di Alì Babà, per mezzo di qualche parola cabalistica, o di qualche segno convenuto, pronunciato dalla più dolce voce, ed eseguito dalla più bella mano del mondo.

Alla fine di un corridoio vasto e silenzioso, col quale comunicava questa piccola porta e che formava anticamera, s’apriva a destra la sala da pranzo d’Alberto che guardava il cortile, ed a sinistra la sua piccola sala da ricevimento che guardava il giardino.

Cespugli e piante parassite si aprivano a ventaglio davanti alle finestre e nascondevano al cortile ed al giardino l’interno di queste stanze, le sole al piano terreno, che potevano essere esposte agli sguardi degli importuni.

Al primo piano queste due camere si ripetevano, più una terza che corrispondeva alla sottoposta anticamera: erano la camera da letto, quella da ricevimento, ed un salottino.

La sala del piano terreno era una specie di boudoir algerino destinato ai fumatori.

Il salotto del primo piano metteva nella camera da letto e per una porta invisibile aveva comunicazione colle scale.

Si ponga mente alle cautele.

Al di sopra di questo primo piano spaziava un vasto studio, ingrandito abbattendo i muri di divisione, in un disordine da artista o da damerino.

Là erano rifugiati ed affastellati tutti i successivi capricci di Alberto: i corni da caccia, i bassi, i flauti, un’orchestra completa, poiché per un momento ebbe non il gusto, ma la fantasia della musica; i cavalletti, tavolozze, i pastelli, poiché alla fantasia della musica era succeduta la fatuità della pittura; finalmente i fioretti, i guanti da pugilatore, gli squadroni e i bastoni d’ogni genere, poiché, seguendo il costume dei giovani alla moda, Alberto coltivava, con maggior perseveranza di quel che non aveva fatto con la musica e la pittura, le tre arti che formano il compimento dell’educazione da lyons, vale a dire la scherma, i pugni ed il bastone, ed in questa camera destinata agli esercizi corporali, vi riceveva successivamente Grisier, Cooks e Carlo Lacour.

Il resto della mobilia di questa sala privilegiata si componeva di vecchi forzieri dei tempi di Francesco Primo, ripieni di porcellane della Cina, di vasi del Giappone, di terraglie di Luca della Robbia e di piatti di Bernardo di Palissy; di antichi seggioloni, in cui forse si era assiso Enrico Quarto o Sully, Luigi Tredicesimo o Richelieu, poiché due di essi, ornati di uno scudo intagliato, ove su campo azzurro brillavano i tre gigli di Francia sormontati dalla corona reale, provenivano visibilmente dal guardaroba del Louvre, o per lo meno da qualche castello reale. Su essi erano gettate alla rinfusa ricche stoffe a vivi colori, tinte al sole della Persia o ricamate dalle dita delle donne di Calcutta o di Chandernagor.

Che stessero a far là quelle stoffe non si sarebbe potuto dire; aspettavano, ricreando gli occhi, un destino sconosciuto anche al loro stesso proprietario, e mentre aspettavano, rischiaravano l’appartamento coi loro riflessi dorati.

Nel posto più appariscente c’era un pianoforte fabbricato da Roller e Blanchet di legno di rosa, della forma dei nostri organetti di Barberia, racchiudente un’orchestra nella sua stretta e sonora capacità, e caricato coi capolavori di Weber, di Mozart, d’Haydn, di Grétry e di Porpora.

Quindi, lungo tutti i muri, sopra le porte, nel soffitto, erano disposti spade, pugnali, stocchi, mazze dorate, e complete armature damascate, incrostate; arborari, massi di minerali, uccelli imbottiti di crini, che tenevano le ali aperte in un volo immobile, colle penne color di fuoco, col becco che non chiudono mai.

Non occorre dire che questa era la stanza prediletta di Alberto.

Però, il giorno dell’appuntamento, il giovane in abito di mezza gala aveva fissato il suo quartier generale nel salotto del piano terreno. Ivi, su una tavola, circondata da un divano largo e morbido, stavano tutti i tabacchi conosciuti, dal giallo di Pietroburgo fino al nero del Sinai passando per il portorico e il latakiè, erano racchiusi in vasi di terraglia smaltata che sono il vanto degli olandesi.

Accanto ad essi, in cassette di legni odorosi, erano schierati per ordine di grandezza e di qualità, i sigari puros, regalia, avana, ecc.

Finalmente in un armadio aperto una collezione di pipe di Germania, di Turchia, coi bocchini d’ambra, ornate di corallo e di fregi incrostati d’oro, con lunghe canne di marocchino ripiegate a guisa di serpenti, aspettavano il capriccio o la simpatia dei fumatori.

Alberto aveva controllato di persona tutti quei preparativi per il dopo caffé quando i convitati amano osservare il fumo che sfugge loro di bocca, dirigendosi al soffitto in lunghe e capricciose spirali.

Alle dieci meno un quarto entrò un cameriere, che, unitamente ad un groom di quindici anni, che parlava soltanto l’inglese, e rispondeva al nome di John, erano i soli domestici di Alberto. Anche se poteva disporre del cuoco di casa nei giorni ordinari e negli straordinari, e il cacciatore del conte era a sua disposizione.

Questo cameriere, che si chiamava Germano e che godeva tutta la confidenza del giovane padrone, teneva in mano un pacco di giornali che depose sul tavolo, ed alcune lettere che consegnò ad Alberto, il quale vi gettò sopra uno sguardo indifferente, ne scelse due con minuti caratteri e con sopraccarta profumata, le dissigillò, e le lesse con qualche attenzione.

“Come sono arrivate queste lettere?” domandò.

“Una è venuta per posta, l’altra l’ha portata il cameriere della signora Danglars.”

“Fate dire alla signora Danglars, che accetto il posto che mi offre nel suo palco… Aspettate, in giornata passerete da Rosa le direte che andrò, come m’invita, a cenare da lei uscendo dall’Opera, e le porterete sei bottiglie di vino assortito di Cipro, Xeres, di Malaga, ed un barile di ostriche d’Ostenda… Prendete le ostriche da Borel, e raccomandategli che sono per me.”

“A che ora comanda in ordine la tavola?”

“Che ore sono?”
“Manca un quarto alle dieci.”

“Ebbene, ordinate per le dieci e mezzo precise… Debray sarà forse obbligato ad andare al suo ministero… e d ‘altra parte…” Alberto consultò il suo taccuino, “questa è l’ora che ho indicata al conte: il “21 maggio alle dieci e mezzo antimeridiane”. Quantunque non faccia gran fondamento sulla promessa, desidero essere esatto. A proposito, sapete se la signora contessa sia alzata?”

“Se il signor visconte lo desidera, andrò ad informarmene.”

“Sì… le chiederete una delle sue cassettine da liquori, poiché la mia è incompleta: le direte che avrò l’onore d’andar da lei verso le tre, e che le domando permesso di presentarle un signore.”

Uscito il cameriere, Alberto si gettò sul divano, stracciò la fascetta a due o tre giornali, guardò gli annunzi degli spettacoli, fece una smorfia vedendo che si rappresentava un’opera e non un ballo; cercò invano fra gli annunzi di profumeria un oppiaceo per dolore dei denti, e gettò l’uno dopo l’altro i tre giornali più in voga a Parigi, mormorando in mezzo ad uno sbadiglio prolungato: “In verità questi giornali diventano di giorno in giorno sempre più noiosi!”

In quel momento una carrozza si fermò davanti la porta, ed un momento dopo il cameriere rientrò annunziando il signor Luciano Debray.

Un giovane biondo, alto, pallido, coll’occhio grigio e fermo, le labbra sottili e fredde, l’abito blu a bottoni cesellati, la cravatta bianca, una lente di cristallo sospesa ad un filo di seta, fissata all’occhio destro, entrò senza sorridere, senza parlare, con un portamento semiufficiale.

“Buon giorno, Luciano, buon giorno!” disse Alberto. “Ah! voi mi spaventate, mio caro, colla vostra esattezza! Ma che dico, esattezza! Voi che non aspettavo che per ultimo, giungete alle dieci meno cinque minuti, mentre l’appuntamento non è che alle dieci e mezzo. Questo è un miracolo! Il ministero sarebbe forse caduto?”

“No, carissimo” disse il giovane, gettandosi sul divano, “tranquillizzatevi, trattiamo sempre, ma non cediamo mai, e comincio a credere che passeremo bonariamente all’immobilità, senza contare che gli affari della penisola vanno in modo da consolidarsi pienamente.”

“Ah, è vero, scacciate Don Carlos dalla Spagna.”

“No, carissimo non confondete le cose, lo riconduciamo all’altra frontiera della Francia, e gli offriamo una ospitalità da re a Bourges.”

“A Bourges?”

“Sì, egli non avrà a lagnarsi; Bourges è la capitale del re Carlo Settimo. Come! voi non sapete nulla di tutto ciò? Tutta Parigi lo sa da ieri, e avanti ieri la cosa era già trapelata alla borsa, perché Danglars (non so con qual mezzo quest’uomo ha le notizie nello stesso tempo che noi), perché Danglars ha rischiato sul rialzo dei fondi, e vi ha guadagnato un milione.”

“E voi una nuova decorazione, a quanto pare: poiché vedo una striscia blu in più alla vostra spranghetta!”

“Bah, mi hanno inviato la decorazione di Carlo Terzo” rispose negligentemente Debray.

“Andiamo, non fate tanto l’indifferente, e confessate che avete avuto piacere a riceverla.”

“In fede mia, sì, come compimento di toilette una placca sta bene sopra un abito nero abbottonato, è cosa elegante.”

“E” disse ridendo Morcerf, “si ha l’aspetto del principe di Galles, o simili…”

“Ecco adunque, carissimo, il perché mi vedete così di buon’ora.”

“Per la placca di Carlo Terzo, e volevate darmi questa notizia?”

“No, ma perché ho passato tutta la notte a spedir lettere: venticinque dispacci diplomatici. Ritornato in casa questa mattina a giorno, volevo dormire, ma mi ha assalito il dolor di testa, e mi sono rialzato per montare un’ora a cavallo. A Boulogne sono stato preso dalla noia e dalla fame, due nemici che raramente vanno insieme, e che tuttavia si sono collegati contro di me: una specie di alleanza Carlo-repubblicana. Allora mi sono ricordato che questa mattina c’era festa in casa vostra, ed eccomi qua: ho fame, nutritemi; sono annoiato, svagatemi.”

“Questo è il mio dovere d’anfitrione, amico caro” disse Alberto suonando per il cameriere, mentre Luciano colla sua bacchettina, dal pomo cesellato ed incrostato di turchinette, faceva saltare i giornali spiegati. “Germano, una bicchiere di Xeres ed un biscotto. Frattanto, mio caro Luciano, ecco dei sigari, di contrabbando bene inteso: v’invito a fumarli e a persuadere il vostro ministro a vendercene degli uguali, invece delle foglie di noce che condanna i buoni cittadini a fumare.”

“Peste, me ne guarderò bene. Quando questi vi venissero dal Governo non li vorreste più, e li ritrovereste esecrabili. D’altra parte ciò non ha rapporto coll’interno, spetta alle finanze, indirizzatevi al signor Humann, sezione delle contribuzioni indirette, corridoio A, numero 26.”

“In verità” disse Alberto, “mi sorprendete per le vostre estese cognizioni. Ma prendete un sigaro!”

“Ah, caro conte” disse Luciano accendendo un sigaro ad una candela color rosa in una bugia d’argento dorato, e rovesciandosi sul divano, “quanto siete felice per non avere nulla da fare! In verità, non conoscete la vostra felicità!”

“E che fareste dunque, mio caro rappacificatore di regni” rispose Morcerf con una leggera ironia, “se non aveste nulla da fare? Come! Segretario particolare di persone influenti, lanciato ad un tempo nella gran cabala europea e nei piccoli intrighi di Parigi; dovendo dirigere le elezioni; facendo più nel vostro gabinetto e col vostro telegrafo di quel che non ha fatto Napoleone sui campi di battaglia colla spada e colle vittorie; possedendo venticinque mila lire di rendita, oltre il vostro impiego, un cavallo di cui Chateau-Renaud vi ha offerto quattrocento luigi e non glielo avete voluto dare, un sarto che non vi sbaglia mai un paio di calzoni; avendo l’Opera, il Jockey Club, e il teatro del Varietà a disposizione, non trovate dunque che tutto ciò sia buono per distrarvi? Ebbene sia, vi distrarrò io.”

“Ed in qual modo?”

“Col farvi fare una nuova conoscenza.”

“Un uomo o una donna?”

“Un uomo.”

“Oh, ne conosco già troppi!”

“Ma è uno come non ne conoscete, quello di cui vi parlo.”

“E di dove viene dunque? di capo al mondo?”

“Fors’anche di più lontano.”

“Oh, diavolo! Spero bene che non sia quello che deve portare la nostra colazione?”

“No, state tranquillo, la nostra colazione è nelle cucine materne. Ma dunque avete fame?”

“Sì, lo confesso, per quanto sia umiliante il dirlo. Ieri ho pranzato dal signor Villefort, e non so se abbiate mai notato come si pranza male tra i membri del tribunale: si direbbe che hanno sempre dei rimorsi.”

“Ah, per Bacco, voi disprezzate i pranzi degli altri! Come se si pranzasse bene dai vostri ministri…”

“Sì, ma non invitiamo la gente di bonton almeno; e se non fossimo obbligati ad invitare quei miserabili che pensano, e quel che più importa, che danno buoni voti, ci guarderemmo come dalla peste, di pranzare in casa nostra; questo vi prego di volerlo credere sul serio.”

“Allora, mio caro, prendete un altro bicchiere di Xeres e un altro biscotto.”

“Il vostro vino di Spagna è eccellente; vedete bene, che abbiamo avuto gran ragione a rappacificare quel paese.”

“E ciò vi procurerà il Toson d’Oro.”

“Credo che questa mattina abbiate adottato il sistema di nutrirmi di fumo.”

“Eh, questo è quanto diverte più lo stomaco, convenitene… Ma ascoltate: sento appunto la voce di Beauchamp nell’anticamera, discuterete insieme, e ciò vi farà attendere con maggiore pazienza.”

“A proposito di che?”

“A proposito di giornali.”

“Ah, caro amico” disse Luciano, con un sovrano disprezzo, “io leggo forse giornali?”

“Ragione di più, allora discuterete maggiormente…”

“Il signor Beauchamp!” annunciò il cameriere.

“Entrate, entrate, penna terribile!” disse Alberto alzandosi e andando incontro al giovane. “Ecco qui Debray che vi detesta senza leggervi, almeno a quanto ha detto.”

“Ne ha ben ragione” disse Beauchamp. “Si comporta come me, io lo critico senza sapere quel che fa… Buon giorno, commendatore!”

“Ah, lo sapete già?” rispose il segretario particolare, scambiando col giornalista una stretta di mano ed un sorriso.

“Per Bacco!” rispose Beauchamp.

“E che se ne dice nel mondo?”

“In qual mondo? Abbiamo molti mondi nell’anno di grazia 1838.”

“Eh, nel mondo critico-politico di cui siete uno dei lyons.”

“Ma, si dice che la cosa è giustissima.”

“Andiamo, andiamo, non c’è male” disse Luciano. “Perché mai non siete uno dei nostri, mio caro Beauchamp? Con tanto spirito, fareste fortuna in tre o quattro anni.”

“Non aspetto che una cosa per seguire il vostro consiglio. Ora, una sola parola a voi, caro Alberto, poiché bisogna bene che lasci respirare Luciano: facciamo colazione, o pranziamo? Perché io ho la Camera che mi aspetta. Non sono tutte rose, come vedete, nel nostro mestiere.”

“Faremo soltanto colazione; non aspettiamo più che due persone, e ci metteremo a tavola appena saranno giunte.”

“E chi aspettate?” disse Beauchamp.

“Un gentiluomo e un diplomatico” rispose Alberto.

“Allora è affare di due piccole ore per il gentiluomo, e di due grandi per il diplomatico; ritornerò alle frutta. Serbatemi delle fragole, del caffè, e dei sigari; mangerò una costoletta alla Camera.”

“Non ne fate niente, Beauchamp. Quando anche il gentiluomo fosse un Montmorency, e l’altro uno dei primi diplomatici, faremo colazione alle undici precise; frattanto fate come Debray: assaggiate il mio Xeres, ed i miei biscotti.”

“Andiamo dunque, sia così, resto. Bisogna assolutamente che questa mattina mi distragga.”

“Bene, eccovi come Debray: mi sembra però che quando il Ministero è triste l’opposizione debba essere allegra!”

“Ah, vedete, amico caro, non sapete da che cosa sono minacciato… Questa mattina sentirò un discorso di Danglars, e questa sera in casa di sua moglie una tragedia di un pari di Francia.” “Capisco, avete bisogno di far provvigione d’ilarità.”

“Non dite dunque male dei discorsi di Danglars, egli vota per voi, è dell’opposizione.”

“Ecco, per Bacco, dove sta il male: io aspetto che lo mandiate a discorrere al Lussemburgo per riderne a mio bell’agio.”

“Caro mio” disse Alberto a Beauchamp, “si vede bene che gli affari di Spagna sono accomodati, questa mattina siete di un’asprezza stomachevole. Ricordatevi dunque che la cronaca parigina porta trattative di un matrimonio fra me ed Eugenia Danglars. Non posso dunque, in coscienza, lasciarvi parlar male dell’eloquenza di un uomo, che un giorno o l’altro può dirmi: “Signor visconte, sapete che assegno in dote due milioni a mia figlia”.”

“Suvvia” disse Beauchamp, “questo matrimonio non si farà mai. Il Re ha potuto farlo conte, ma non potrà mai farlo diventar gentiluomo, ed il conte de Morcerf è una spada troppo aristocratica per acconsentire, per due meschini milioni, ad una cattiva alleanza. Il visconte de Morcerf non deve sposare che una marchesa.”

“Due milioni” rispose Alberto, “sono una bella cosa.”

“Questo è il capitale sociale di un teatro dei boulevards, o di una ferrovia dal Giardino delle piante a Rapée.”

“Lasciatelo dire Morcerf” riprese con noncuranza Debray, “ed ammogliatevi. Voi sposate la cifra che sta scritta sopra un sacco, non è vero? Ebbene! Che v’importa? Meglio su questa cifra un blasone di meno ed uno zero di più: avete sette merli nelle vostre armi, ne darete tre a vostra moglie, e ve ne resteranno ancora quattro.”

“In fede mia, credo che abbiate ragione, Luciano” rispose con distrazione Alberto.

“Eh certamente! D’altra parte egli è milionario e nobile come un bastardo: cioè, potrebbe esserlo.”

“Zitto! Non dite questo, Debray” rispose ridendo Beauchamp. “Ecco qui Chateau-Renaud che per guarirvi dalla mania di ridurre, vi passerebbe traverso il corpo la spada di Rinaldo di Montalbano, suo avolo.”

“Allora uscirebbe dalle regole dei duelli” rispose Luciano, “perché io sono un villano, villanissimo.”

“Bene!” gridò Beauchamp. “Ecco il Ministero che canta da pastore. Eh! come finiremo?”

“Il signor Chateau-Renaud! Il signor Massimiliano Morrel!” disse il cameriere, annunziando i due nuovi convitati.

“Il numero e completo!” disse Beauchamp. “Noi andiamo a far colazione; perché se non erro aspettavate solo due persone, Alberto?”

“Morrel!” mormorò Alberto, “e chi è costui?”

Ma prima che avesse terminato, il signor de Chateau-Renaud bel giovane sui trent’anni, gentiluomo dalla testa ai piedi, vale a dire, coll’aspetto di un Guiche e lo spirito di un Montemart, aveva preso Alberto per la mano.

“Permettetemi mio caro” disse, “di presentarvi il signor Massimiliano Morrel capitano degli Spahis (specie di cavalieri africani), mio amico, e di più, mio salvatore. Del resto si presenta abbastanza bene da se stesso: salutate il mio eroe, visconte!”

E si scostò per presentare questo grande e nobile giovane, dalla fronte larga, dallo sguardo penetrante, dai baffi neri, che i nostri lettori ricorderanno di aver visto a Marsiglia in una occasione molto più drammatica, e che non avranno certo dimenticato.

Una ricca uniforme, metà francese, e metà orientale, mirabilmente portata, faceva risaltare il suo largo petto, la croce della Legion d’Onore, e la struttura agile delle sue forme.

Il giovane ufficiale s’inchinò con pulita eleganza; Morrel era raffinato in tutti i suoi movimenti perché era forte.

“Signore” disse Alberto con affettuosa cortesia, “il barone di Chateau-Renaud ben sapeva tutto il piacere che mi procurava nel farmi fare la vostra conoscenza. Voi siete uno dei suoi amici, signore; siate anche uno dei nostri.”

“Benissimo” disse Chateau-Renaud, “e desidero, mio caro visconte, che all’occasione faccia per voi quel che ha fatto per me.”

“E che ha dunque fatto?” domandò Alberto.

“Oh, non è il caso di parlarne, il signore esagera.”

“Come! non è il caso di parlarne? La vita non vale la pena che se ne parli?… Davvero c’è troppa filosofia nelle vostre parole, mio caro Morrel… Andrà bene per voi che esponete la vostra vita tutti i giorni, ma per me che l’ho esposta una volta per caso…”

“Ciò che scorgo di più chiaro in tutto ciò, barone, è che il capitano Morrel vi ha salvata la vita.”

“Oh, mio Dio, sì, semplicemente” replicò Chateau-Renaud.

“E in quale occasione?” domandò Beauchamp.

“Beauchamp amico mio, sapete ch’io muoio di fame!” disse Debray. “Non perdetevi dunque in storie.”

“Ebbene, ma io” disse Beauchamp, “non impedisco che ci mettiamo a tavola.., Chateau-Renaud ci racconterà tutto a tavola.”

“Signori” disse Morcerf, “non sono che le dieci e un quarto, e noi aspettiamo un altro convitato.”

“Ah, è vero, un diplomatico” riprese Debray. “Un diplomatico, o qualche altra cosa, non so niente: ciò che so, è che lo incaricai di un’ambasciata per conto mio, da lui disimpegnata con tanta soddisfazione che se fossi stato re, lo avrei fatto cavaliere di tutti i miei ordini ad un tempo, anche avessi avuto a mia disposizione il Toson d’Oro, e la Giarrettiera.”

“Allora, poiché non si va ancora a tavola” disse Debray, “versatevi un altro bicchiere di Xeres come abbiamo fatto noi, e raccontateci la vostra storia, barone.”

“Voi tutti sapete che mi venne il capriccio di andare in Africa?”

“Strada tracciatavi dai vostri antenati, mio caro Chateau-Renaud” disse con galanteria Morcerf.

“Sì, ma dubito che vi sarete andato, come loro, per liberare il Santo Sepolcro.”

“Avete ragione, Beauchamp” disse il giovane aristocratico, “fu solo per tirare un colpo di pistola come dilettante… Il duello mi ripugna, come voi sapete, da quando due testimoni, che io avevo scelti per accomodare una contesa, mi costrinsero a rompere un braccio ad uno dei miei migliori amici… eh, per Bacco, a quel povero Franz d’Epinay, che voi tutti conoscete.”

“Ah, è vero, vi batteste molto tempo fa… ed a proposito di che?”

“Il diavolo mi porti se me ne ricordo!” disse Chateau-Renaud. “Ma ciò che mi ricordo perfettamente è che, avendo vergogna di lasciar dormire un ingegno come il mio, ho voluto provare sugli arabi delle pistole nuove di cui avevo avuto dono. In conseguenza m’imbarcai per Orano; di là passai a Costantina, e giunsi giusto in tempo per veder levare l’assedio. Mi aggregai alla ritirata come gli altri. Per quarantotto ore sopportai abbastanza bene la pioggia di giorno, e la neve di notte; finalmente nella terza mattina il cavallo morì di freddo. Povera bestia! Abituato alle coperte ed al braciere della scuderia… un cavallo arabo che si è trovato spatriato per aver trovato appena dieci gradi di freddo in Arabia…”

“Perciò volevate comprare il mio cavallo inglese” disse Debray, “supponendo forse che avrebbe sopportato il freddo meglio del vostro arabo.”

“Siete in errore; poiché ho fatto voto di non ritornare più in Africa.”

“Voi dunque avete avuto paura?” domandò Beauchamp.

“In fede mia sì, lo confesso” disse Chateau-Renaud, “e ne ho avuto ben donde! Il mio cavallo dunque era morto, io facevo la mia strada a piedi, sei arabi vennero al galoppo per tagliarmi la testa, ne ammazzai due con due colpi del mio fucile, due colle mie pistole, ma ne restavano altri due, ed ero disarmato. Uno mi prese per i capelli, per questo ora li porto corti, non si sa mai ciò che può accadere, l’altro mi circondò il collo col suo yatagan, e già sentivo il freddo acuto del ferro, quando questo signore che vedete, caricò a sua volta contro, atterrò quello che mi teneva per i capelli con un colpo di pistola, e colla sciabola spaccò la testa a quello che stava a tagliarmi la gola. Questo signore si era imposto in quel giorno l’obbligo di salvare un uomo, la combinazione volle che fossi io: quando diventerò ricco, voglio far fare da Klugmann o da Marochetti una statua che rappresenti quell’episodio.”

“Sì” disse sorridendo Morrel, “era il 5 settembre, l’anniversario del giorno in cui mio padre fu miracolosamente salvato. Così, per quanto è in mio potere, celebro tutti gli anni questo giorno con qualche azione.”

“Eroica, non è vero?” interruppe Chateau-Renaud. “Insomma, fui l’eletto, ma qui non sta il tutto. Dopo avermi salvato dal ferro mi salvò dal freddo, dandomi, non già una metà del suo mantello come fece, non mi ricordo chi, ma tutto intero. Poi dalla fame, dividendo con me, indovinate un poco che cosa?…”

“Un pasticcio di Félix?” chiese Beauchamp.

“No, il suo cavallo, di cui mangiammo entrambi un pezzo con grandissimo appetito, sebbene fosse un poco duro…”

“Il cavallo?” domandò ridendo Morcerf.

“No, il sacrificio” rispose Chateau-Renaud. “Domandate a Debray se sacrificherebbe il suo cavallo inglese per un estraneo?”

“Per un estraneo, no; per un amico potrebbe darsi” rispose Debray.

“Ed io pronosticai che sareste divenuto mio amico, signor conte” disse Morrel. “D’altra parte ho già avuto l’onore di dirvelo: eroismo o no, sacrificio o no, avevo un debito colla sorte, in compenso del favore che altra volta ci aveva fatta.”

“Questa storia a cui Morrel fa allusione, è una bellissima storia e ve la racconterà un giorno, quando avrete fatto con lui più estesa conoscenza per oggi approvvigioniamo lo stomaco, e non la memoria. A che ora fate colazione?”

“Alle dieci e mezzo.”

“Precise?” domandò Debray cavando l’orologio.

“Oh, mi accorderete cinque minuti di dilazione” disse Morcerf, “poiché io pure aspetto un salvatore.”

“Di chi?”

“Di me, per Bacco!” rispose Morcerf. “Credete forse che non possa essere salvato come un altro, o che non vi siano che gli arabi che tagliano la testa? La nostra colazione è una colazione di riconoscenza ed avremo alla nostra tavola, spero almeno, due benefattori dell’umanità.”

“E come faremo?” disse Debray. “Non abbiamo che un sol premio Monthyon…”

“Ebbene, verrà dato a qualcuno che nulla abbia fatto per meritarlo” disse Beauchamp. “In questo modo di solito fa l’accademia per togliersi da qualunque impaccio.”

“E di dove viene?” domandò Debray. “Scusate l’insistenza; avete già, lo so bene, risposto a questa domanda, ma molto vagamente e perciò posso permettermi di farvela una seconda volta”

“In verità” disse Alberto, “non lo so. Quando l’ho invitato tre mesi fa era a Roma. Ma da quel tempo, chi può dire il viaggio che ha fatto?”

“E lo credete capace di essere puntuale?”

“Lo credo capace di tutto” rispose Morcerf.

“Fate attenzione che, compresi i minuti di dilazione, non ne mancano che dieci.”

“Ebbene, ne approfitterò per dirvi una parola sul mio convitato.”

“Scusate” disse Beauchamp, “vi sarà materia per un articolo in ciò che siete per narrare?”

“Sì, certamente” disse Morcerf, “ed anche dei più curiosi.”

“Allora raccontate, poiché vedo bene che non potrò andare alla Camera, e bisogna che ne abbia un vantaggio.”

“Ero a Roma nell’ultimo carnevale.”

“Questo lo sappiamo già” disse Beauchamp.

“Ma ciò che non sapete è che fui rapito dai briganti.”

“Non vi sono più briganti” disse Debray.

“Ve ne sono, e ve ne sono anche degli orridi cioè ammirabili, mentre ne ho trovati dei belli, ma da far paura.”

“Vediamo, mio caro Alberto” disse Debray, “confessate che il vostro cuoco è in ritardo, che le ostriche non sono ancora giunte da Marennes o da Ostenda, e che come la signora di Maintenon, volete sostituire un racconto ad un piatto. Ditelo, mio caro, siamo abbastanza di buona compagnia per perdonarvelo, e per ascoltare la vostra storia, purché sembri favolosa.”

“Ed io vi dico, per quanto possa comparir favolosa, che ve la garantisco per vera dal principio alla fine. I briganti dunque mi avevano condotto in un luogo molto triste, chiamato le catacombe di San Sebastiano.”

“Le conosco” disse Chateau-Renaud, “per poco non vi presi le febbri”

“Ed io ho fatto ancora di più: le ebbi realmente. Mi fu detto che ero prigioniero, salvo il riscatto, una bagattella, quattromila scudi romani, circa ventiseimila lire francesi. Disgraziatamente non ne avevo più che millecinquecento; ero alla fine del mio viaggio, e il mio credito era esaurito. Scrissi a Franz. Ah, per Bacco! Franz era là, e potete chiedergli se mento di una virgola… Scrissi dunque a Franz che se non giungeva alle sei del mattino coi quattro mila scudi, alle sei e dieci minuti sarei passato all’eterna gloria, e Luigi Vampa, questo è il nome del capo dei briganti, vi prego di crederlo, avrebbe mantenuta scrupolosamente la sua parola.”

“Ma Franz sarà giunto coi quattromila scudi…” disse Chateau- Renaud. “Che diavolo! non può trovarsi in impaccio per quattromila scudi chi porta il nome di Franz d’Epinay o di Alberto de Morcerf!”

“No, ma egli giunse solamente e semplicemente accompagnato dal convitato che vi ho annunziato, e che spero potervi presentare.”

“E che! è dunque Ercole che uccide Caco questo signore? un Perseo che libera Andromeda?”

“No, è un uomo circa della mia corporatura.”

“Armato fino ai denti?”

“Non aveva neppure un ferro di calzetta.”

“Dunque contrattò il vostro riscatto?”

“Disse due parole all’orecchio del capo ed io fui liberato.”

“Anzi gli fecero perfino le scuse d’avervi rapito” disse Beauchamp.

“Precisamente” rispose Morcerf.

“Ma che! era dunque l’Orlando d’Ariosto quest’uomo?”

“No, era semplicemente il conte di Montecristo.”

“Non c’è nessuno che si chiami così” disse Debray.

“Non credo” soggiunse Chateau-Renaud colla presenza d’animo dell’uomo che tiene sulla punta delle dita tutte le genealogie delle famiglie nobili dell’Europa, “ci sia chi conosca un conte di Montecristo…”

“È forse un qualche casato proveniente dalla Terra Santa” disse Beauchamp: “uno dei suoi avi avrà posseduto il Calvario, come Montemart, il Mar Morto.”

“Scusate” disse Massimiliano, “io credo di potervi togliere d’impaccio, signori: Montecristo è una piccola isola, di cui ho spesso sentito parlare dai marinai impiegati da mio padre, un grano di sabbia in mezzo al Mediterraneo, un atomo nell’infinito.”

“Ed è vero, signore” disse Alberto. “Ebbene, di questo grano di sabbia, di questo atomo è signore e re colui di cui vi parlo; egli avrà comprato il diploma di conte in qualche parte della Toscana.”

“È dunque ricco il vostro conte?”

“In fede mia lo credo!”

“Ma ciò deve vedersi mi sembra…”

“Avete letto le Mille e una notte?”

“Per Bacco! bella domanda!”

“Le persone che vi appaiono sono ricche o povere? i loro grani di frumento sono rubini o diamanti? Essi hanno l’aspetto di miserabili pescatori, non è vero? Voi li trattate come tali, e subito vi aprono qualche caverna misteriosa, e vi trovate un tesoro da comprare le Indie. Il mio conte di Montecristo è uno di quei pescatori; ha perfino un nome tolto da quella favola, si chiama Sindbad il marinaio, e possiede una caverna piena d’oro.”

“L’avete vista” domandò Beauchamp.

“Io no; Franz sì. Ma zitti! Non bisogna dire una parola di tutto ciò davanti a lui. Franz vi discese cogli occhi bendati, e fu servito da uomini muti, e da donne, in paragone delle quali Cleopatra non era, a quanto pare, che una donna volgare. Soltanto delle donne egli non è ben sicuro, giacché esse non apparvero che dopo aver masticato dell’hashish di modo che potrebbe darsi che quelle che ha prese per donne, non fossero state banalmente che statue.”

I giovani amici guardarono Morcerf con uno sguardo che voleva dire: “Mio caro, diventate insensato o vi burlate di noi?”

“Però” disse Morrel pensieroso, “ho inteso raccontare anch’io da un vecchio marinaio, chiamato Penelon, qualche cosa di simile a ciò che dice il signor di Morcerf.”

“Ah” fece Alberto, “sono ben fortunato che Morrel venga in mio aiuto. Vi dispiace, non è vero, ch’egli getti un gomitolo di filo nel mio labirinto?”

“Perdonate, mio caro, ma ci raccontate cose tanto inverosimili…”

“Ah, per Bacco! Perché i vostri ambasciatori, i vostri consoli non ve ne parlano? Essi non ne hanno il tempo; hanno troppo da fare nel molestare i loro compatrioti che viaggiano.”

“Ah, ecco che v’inquietate, e ve la prendete coi nostri poveri diplomatici. Eh, mio Dio, con che volete che vi proteggano? La Camera corrode ogni giorno i loro stipendi, ed ora è al punto di non trovarne più. Volete diventare ambasciatore? Vi farò nominare a Costantinopoli.”

“No, perché il Sultano alla prima nota in favore di Mehemet-Alì, mi manderebbe il cordone, e i miei segretari mi strangolerebbero.”

“Vedete bene!” disse Debray. “Sì, tutto ciò non toglie che esista il mio conte di Montecristo!”

“Per Bacco, tutti gli uomini esistono, bel miracolo!”

“Tutti gli uomini esistono, ma non in simili condizioni. Tutti gli uomini non hanno schiavi, gallerie principesche, armi alla Casauba, cavalli di seimila franchi l’uno, e concubine greche.”

“L’avete vista la concubina greca?”

“Sì, l’ho vista ed ascoltata; vista al teatro Valle, ascoltata un giorno che facevo colazione dal conte.”

“Il vostro uomo straordinario dunque mangia?”

“Certo che mangia! Ma tanto poco, che non merita parlarne.”

“Si scoprirà poi che è un vampiro…”

“Ridete, se volete, questa era l’opinione della contessa G. che come voi sapete, ha conosciuto lord Ruthwen.”

“Ah, bene!” disse Beauchamp. “Ecco per un giornalista lo scoop del famoso serpente di mare del “Constitutionnel”: un vampiro, niente meno!”

“Occhio rossiccio, la cui pupilla si dilata e restringe a volontà” disse Debray, “volto ossuto e scarno, fronte spaziosa, tinta livida, barba nera, denti bianchi ed acuti, compitezza tutta particolare.”

“Ebbene, è proprio così, Luciano” disse Morcerf, “i connotati sono riportati a puntino. Sì, compitezza acuta ed incisiva. Quest’uomo spesso mi ha fatto fremere, e particolarmente un giorno, fra gli altri, che guardavamo insieme una esecuzione, ho creduto di svenire, molto più nel vederlo e sentirlo ragionare freddamente su tutti i supplizi della terra, che guardare il carnefice eseguire il suo compito, e sentire le grida del condannato.”

“E non vi ha condotto fra le rovine del Colosseo per succhiarvi il sangue, Morcerf?” disse Beauchamp. “Ovvero, dopo avervi liberato, non vi ha fatto firmare qualche pergamena color di fuoco, in virtù della quale gli cediate la vostra anima?”

“Scherzate! scherzate quanto volete, signori!” disse Morcerf punto sul vivo. “Quando osservo voialtri bei parigini, abituati al Bastione di Gand, passeggiatori del Bois de Boulogne, e mi ricordo di quest’uomo, mi pare che non siamo della stessa specie.”

“Me ne vanto” disse Beauchamp.

“Il vostro conte di Montecristo” soggiunse Chateau-Renaud, “è però sempre un galantuomo nelle ore d’ozio, salvo le sue piccole intese coi banditi italiani…”

“Ma se non vi sono banditi italiani!” soggiunse Debray.

“Non vi sono vampiri!” disse Beauchamp.

“Non esiste il conte di Montecristo!” riprese Debray.

“Ascoltate, caro Alberto, suonano le dieci e mezzo.”

“Confessate che avete veduto un fantasma, e andiamo a far colazione” disse Beauchamp.

Ma la vibrazione dell’orologio a pendolo non era ancora estinta, quando la porta si aprì, e Germano annunziò:

“Sua Eccellenza il conte di Montecristo!”

alexandre dumas père, il conte di montecristo

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