Tutti gli uditori fecero loro malgrado un movimento di sorpresa. Alberto stesso non poté evitare una commozione momentanea.
Non era stata udita né carrozza sulla strada, né passi nell’anticamera; la porta stessa si era aperta senza rumore. Il conte comparve sulla soglia, vestito colla più grande semplicità, ed il lyon più esigente non avrebbe saputo trovarvi la più piccola mancanza.
Tutto era di un gusto squisito, tutto usciva dalle mani dei più eleganti fornitori: abiti, cappello, biancheria.
Sembrava avere appena trentacinque anni, ma ciò che sorprese tutti fu l’estrema rassomiglianza col ritratto che ne aveva fatto Debray. Il conte avanzò sorridendo in mezzo al salotto, e andò direttamente da Alberto, che venendogli incontro gli offerse con trasporto la mano.
“L’esattezza” disse Montecristo, “è la gentilezza dei re, per quanto ha preteso, io credo, uno dei vostri sovrani. Ma qualunque sia la loro buona volontà, non è però sempre quella dei viaggiatori. Però io spero, mio caro visconte, che mi scuserete, in grazia della mia buona volontà, i due o tre secondi di ritardo al nostro appuntamento; cinquecento leghe non si fanno senza qualche contrattempo, particolarmente in Francia ove è proibito, a quanto sembra, frustare i postiglioni.”
“Signor conte” rispose Alberto, “stavo proprio preannunciando la vostra visita agli amici, da me riuniti per la promessa che mi faceste e che ho l’onore di presentarvi. Questi signori sono, il conte di Chateau-Renaud, la cui nobiltà risale ai dodici Pari, i cui antenati hanno avuto posto alla Tavola rotonda; Luciano Debray, segretario particolare del ministro dell’interno; Beauchamp, terribile giornalista, il terrore del governo francese, e di cui forse, ad onta della sua celebrità, non avrete inteso parlare in Italia, visto che il suo giornale non vi può entrare; finalmente Massimiliano Morrel, capitano degli Spahis.”
A questo nome, il conte, che fino allora aveva salutato cortesemente, ma con una freddezza ed una impassibilità tutta inglese, fece suo malgrado un passo in avanti, ed una leggera tinta vermiglia passò come un lampo sulle sue pallide guance.
“Il signore porta l’uniforme dei nuovi vincitori francesi” disse; “è una bella uniforme!”
Non sarebbe stato possibile poter dire quale fosse il sentimento che dava alla voce del conte una così profonda vibrazione, e faceva brillare suo malgrado l’occhio tanto bello, tanto sereno e limpido, quando non aveva alcun motivo per velarlo.
“Voi non avevate mai visto i nostri africani, signor conte?” disse Alberto.
“Giammai!” replicò il conte, ritornato perfettamente padrone di se stesso.
“Ebbene, signor conte, sotto quest’uniforme batte uno dei cuori più coraggiosi e più nobili dell’esercito…”
“Oh, signor conte…” interruppe Morrel.
“Lasciatemi dire, capitano… Non ha pari” continuò Alberto. “Abbiamo appreso un tratto così eroico del signore, che quantunque io lo veda oggi per la prima volta, pretendo il favore di potervelo presentare come mio amico.”
E si sarebbe potuto, anche a queste parole, scorgere nel conte quello strano sguardo indagatore, quel rossore fuggitivo, e quel leggero tremore della palpebra, che in lui tradiva l’emozione.
“Ah, il signore ha un cuore nobile?” disse il conte. “Tanto meglio!”
Questa specie di esclamazione che corrispondeva piuttosto al pensiero del conte, che al discorso di Alberto, sorprese tutti, ma particolarmente Morrel, che guardò il conte di Montecristo con stupore.
Ma il tono della voce era stato così dolce e per così dire soave, che, per quanto strana fosse apparsa questa esclamazione, non c’era ragione in alcun modo di offendersene.
“Perché dunque ne dubiterebbe?” disse Beauchamp a Chateau-Renaud.
“In verità” rispose questi, che, coll’abitudine al gran mondo e la chiarezza del colpo d’occhio aristocratico, aveva riconosciuto in Montecristo molte qualità, “in verità Alberto non ci ha ingannati, è un personaggio singolare questo conte… Che ne dite, Morrel?”
“In fede mia” rispose questi, “ha l’occhio franco e la voce simpatica, di modo che mi piace malgrado la bizzarra riflessione fatta sul mio conto.”
“Signori” disse Alberto, “Germano mi avverte che la colazione è pronta. Mio caro conte, permettete che vi mostri la strada.”
Passarono silenziosamente nella sala da pranzo, e ciascuno si mise al suo posto.
“Signori” disse il conte sedendosi, “permettete una confessione che sarà la mia scusa per tutte le sconvenienze che potrò commettere: sono forestiero, ma forestiero a tal punto che questa è la prima volta che vengo a Parigi. La vita francese mi è dunque perfettamente sconosciuta, non avendo fino ad ora seguita che l’orientale, la più antitetica alle buone tradizioni parigine. Vi prego dunque di scusarmi se troverete in me qualche cosa di troppo turco, o di troppo arabo. Detto ciò, signori, facciamo colazione.”
“Dal modo che ha detto tutto ciò” mormorò Beauchamp, “si capisce che è un gran signore!”
“Un gran signore straniero” soggiunse Debray.
“Un signore cosmopolita” disse Chateau-Renaud.
Ognuno ricorderà che il conte era un convitato sobrio.
Alberto osservò la cosa, e manifestò il timore che non avesse a dispiacergli la vita parigina fin dal principio, nella parte più materiale, è vero, ma nello stesso tempo più necessaria.
“Mio caro conte” disse, “voi mi vedete colpito da un timore: che la cucina della rue Helder non abbia a piacervi quanto quella della piazza di Spagna. Avrei dovuto chiedervi ciò che più vi gusta, e farvi preparare qualche piatto di vostra fantasia.”
“Se mi conosceste di più” rispose sorridendo il conte, “non vi preoccupereste di una cosa quasi umiliante per un viaggiatore come me, che ha successivamente vissuto con maccheroni a Napoli, con polenta a Milano, con olla podrida a Valenza, con riso asciutto a Costantinopoli, con karrick nelle Indie, e con nidi di rondini nella Cina. Non c’è una cucina particolare per un cosmopolita come me: mangio di tutto ed in ogni luogo; solo mangio poco, ed oggi che mi rimproverate la mia sobrietà, sono in una delle giornate del mio massimo appetito, perché da ieri mattina non ho più mangiato.”
“Come da ieri mattina?” esclamarono i convitati. “Non avete mangiato da ventisei ore?”
“No” rispose il conte. “Fui obbligato a deviare dalla mia strada per portarmi a Nimes a prendere alcune informazioni, di modo che ero un poco in ritardo, e non ho voluto fermarmi.”
“Ma avrete mangiato in carrozza?!” disse Morcerf.
“No, ho dormito, come mi succede quando mi annoio senza avere il coraggio di distrarmi, o quando ho fame senza avere voglia di mangiare.”
“Ma dunque comandate al sonno?” domandò Morrel.
“Press’a poco.”
“Avete una ricetta per questo?”
“Infallibile.”
“Sarebbe eccellente per noi africani, che non sempre abbiamo da mangiare, e sempre difficilmente da bere…” disse Morrel.
“Sì” disse il conte, “disgraziatamente la mia ricetta, buona per un uomo come me, che conduce una vita eccezionale, sarebbe molto pericolosa applicata ad un esercito, che non si sveglierebbe più, quando se ne avesse bisogno.”
“Si può sapere che è questa ricetta?” chiese Debray.
“Oh, mio Dio, sì” disse il conte, “non ne faccio alcun segreto; è una mistura di eccellente oppio; io stesso sono stato a cercare a Canton, per esser certo di averlo puro, e del migliore hashish che si raccolga in Oriente, cioè fra il Tigri e l’Eufrate. Si riuniscono questi due ingredienti in porzioni uguali, e se ne formano delle specie di pillole che s’inghiottono quando uno ne ha bisogno. L’effetto si produce dieci minuti dopo. Domandatene al barone Franz d’Epinay, che credo un giorno ne abbia gustato.”
“Sì” rispose Morcerf, “me ne ha accennato, anzi ne ha conservata grata memoria.”
“Ma” disse Beauchamp, che nella sua qualità di giornalista era molto incredulo, “portate sempre questa droga con voi?”
“Sempre!” rispose il conte di Montecristo.
“Sarei indiscreto se vi domandassi di vedere queste pillole?” continuò Beauchamp, nella speranza di cogliere lo straniero in fallo.
“No, signore…” rispose il conte.
E cavò di tasca una meravigliosa bomboniera scavata in un solo smeraldo, e chiusa con un fermaglio d’oro, che, aprendosi, lasciava uscire una pillola di color verdastro, della grossezza di un pisello.
Questa pillola aveva un odore acre e penetrante, e ve ne erano quattro o cinque nella cavità dello smeraldo che ne poteva contenere circa una dozzina. La bomboniera fece il giro della tavola, ed i convitati se la facevano passare più per esaminare la magnificenza dell’ammirabile smeraldo, che per guardare e fiutare le pillole che conteneva.
“È forse il vostro cuoco che vi prepara questo miscuglio?” domandò Beauchamp.
“No, signore” disse il conte di Montecristo, “non abbandono i miei piaceri all’arbitrio di mani inesperte; sono abbastanza buon chimico per prepararmi da solo queste pillole.”
“Questo è uno smeraldo ammirabile, ed è il più grosso che abbia mai visto, quantunque mia madre abbia qualche gioia di famiglia molto notevole…” disse Chateau-Renaud.
“Di questi ne avevo tre” soggiunse il conte di Montecristo: “uno lo regalai al Gran Visir, che ne ha adornata la sua sciabola; l’altro a persona che non posso nominare; il terzo l’ho serbato per me, e l’ho fatto scavare gli ho tolto metà del suo valore, ma l’ho reso più adatto all’uso al quale l’ho destinato.”
Ciascuno guardò il conte di Montecristo con meraviglia; parlava con tanta semplicità, che faceva ritenere vero ciò che diceva, o pazzo: lo smeraldo nelle sue mani provava però la prima supposizione.
“Che vi hanno dato in cambio le persone cui avete fatto simili doni?” chiese Debray.
“Il Gran Visir mi concesse la libertà di una donna” rispose il conte, “l’altra persona la vita di un uomo. Di modo che per due volte sono stato possente, come fossi nato sui gradini di un trono.”
“Forse fu Peppino che liberaste, non è vero?” gridò Morcerf, “a lui applicaste il vostro diritto di grazia?”
“Può darsi” disse Montecristo, sorridendo.
“Signor conte” disse Morcerf, “non potete farvi un’idea del piacere che provo nel sentirvi parlare in tal modo. Vi avevo già dipinto ai miei amici come un uomo favoloso, come un mago delle Mille e una notte, come uno stregone del medio evo, ma i parigini sono persone talmente sottili nei paradossi, che prendono per capricci dell’immaginazione le verità più incontrastabili, quando non sono abituali. Per esempio, ecco Debray che legge, e Beauchamp che stampa tutti i giorni: è stato fermato e spogliato sui bastioni qualche membro del Jockey Club in ritardo, sono state assassinate quattro persone sulla rue Saint-Denis o nel Faubourg Saint-Germain, sono stati arrestati quattro, dieci, venti ladri, sia in un caffè sul Bastione del Tempio, sia alle Terme di Giulio. E negano l’esistenza dei banditi nelle Maremme, nella Campagna romana, e nelle paludi pontine. Dite dunque voi stesso, ve ne prego, signor conte, che sono stato preso da questi banditi, e che, senza la vostra generosa intercessione, io oggi aspetterei, secondo tutte le probabilità, la resurrezione finale nelle catacombe di San Sebastiano, invece di offrire loro colazione nella mia piccola ed indegna casa in rue Helder.”
“Mi avete promesso di non parlarmi più di questa miseria.”
“Non sono io che vi ho fatto questa promessa, signor conte” gridò Morcerf, “sarà stato qualche altro cui avete reso un simile favore, e che ora confondete con me. Parliamone anzi, ve ne prego; perché se vi risolvete a parlare di questo episodio, non solo ridirete alcune cose che so, ma molte altre che non so.”
“Mi sembra che in tutto questo affare” soggiunse il conte ridendo, “abbiate sostenuta una parte di troppa importanza, per sapere al par mio tutto ciò che è accaduto.”
“Volete promettermi che, se dico tutto quel che so, mi direte tutto quel che non so?”
“È troppo giusto” rispose Montecristo.
“Ebbene” soggiunse Morcerf, “dovesse il mio amor proprio di nuovo soffrirne, mi sono creduto per tre giorni oggetto delle civetterie di una maschera che ritenevo discendente delle Tullie, o delle Poppee, mentre ero semplicemente oggetto delle frascherie di una contadina; e notate bene che dico contadina per non dir villana. Poi come un gonzo ho scambiato un giovane bandito sui quindici sedici anni per quella contadina, fino a deporre un bacio sulla sua casta spalla. Lui, in quel momento, mi ha messo le pistole alla gola e coll’aiuto di altri sette o otto banditi, mi ha condotto o piuttosto trascinato nel fondo delle catacombe di San Sebastiano. Qui trovai un capo di banditi molto letterato, in fede mia, che leggeva i Commentari di Giulio Cesare, e che si è degnato d’interrompere la lettura per dirmi che se l’indomani alle sei del mattino non avessi versati quattromila scudi nella sua cassa, alle sei e un quarto avrei cessato di vivere. La lettera esiste, essa è nelle mani di Franz, firmata da me, con poscritto di mastro Luigi Vampa. Se ne dubitate, scriverò a Franz che potrà mostrarvi le firme. Ecco ciò che so. Quello che mi resta a sapere è come mai, voi signor conte, siate giunto ad incutere ai banditi di Roma un così gran rispetto, essi che nulla rispettano. Vi confesso che Franz e io ne fummo pieni d’ammirazione.”
“Niente di più semplice, signore” rispose il conte. “Conoscevo il famoso Vampa da più di dieci anni. Quand’era ancor giovane e pastore, un giorno gli regalai non mi sovviene qual moneta d’oro, perché mi indicò la strada ed egli, per non aver niente del mio, mi dette in cambio un pugnale intagliato colle sue mani, e che voi forse avrete notato nella mia collezione d’armi. Col tempo, sia che egli dimenticasse questo scambio di piccoli regali, che doveva mantenere l’amicizia fra noi, sia che non mi avesse riconosciuto, tentò di rapirmi; ma io invece catturai lui con una dozzina dei suoi compagni. Allora potevo abbandonarlo alla giustizia romana che è spiccia, e si sarebbe ancora affrettata di più a suo riguardo ma non lo feci: lo rimandai con tutti i suoi.”
“A condizione che non peccassero più” disse il giornalista ridendo. “Vedo con piacere ch’essi hanno mantenuta. scrupolosamente la parola.”
“No, signore” rispose Montecristo, “a condizione che rispettassero sempre me ed i miei amici.”
“Alla buon’ora!” gridò Chateau-Renaud, “ecco il primo uomo coraggioso da cui sento predicare lealmente e brutalmente l’egoismo, ciò è bellissimo, bravo!, signor conte.”
“Almeno ciò è molto franco” disse Morrel, “ma sono sicuro che il signor conte non si è pentito di avere una volta mancato a questi principi, esposti in modo così assoluto.”
“Ed in qual modo ho mancato ai miei principi, signore?” domandò Montecristo, che ogni tanto non poteva esimersi dal guardare Massimiliano con tanta attenzione, che già due o tre volte l’ardito giovane era stato costretto ad abbassare gli occhi, allo sguardo limpido e chiaro del conte.
“Mi sembra” rispose Morrel, “che liberando il signor de Morcerf che non conoscevate voi servivate al prossimo, ed alla società…”
“Di cui egli fa il più bell’ornamento” disse con gravità Beauchamp vuotando in un sol fiato un bicchiere di champagne.
“Signor conte” gridò Morcerf, “eccovi preso dal ragionamento, voi uno dei più aspri logici che io conosca. E quanto prima vi sarà dimostrato che invece d’essere un egoista, siete un altruista. Ah, voi vi spacciate per orientale, levantino, maltese, indiano, cinese, selvaggio, vi chiamate Montecristo per nome di famiglia, Sindbad il marinaio per nome di battesimo ed ecco che il primo giorno che mettete piede a Parigi, già possedete il più gran difetto della nostra eccentricità parigina, vale a dire usurpate i vizi che non avete!”
“Mio caro visconte” disse Montecristo, “non vedo in tutto ciò che ho detto o fatto, una sola parola che possa meritarmi per parte vostra e di questi signori, l’elogio che ricevo. Voi non mi eravate estraneo, poiché vi avevo offerta una colazione, vi avevo prestata per otto giorni la mia carrozza, avevamo veduto assieme passare le maschere per il Corso, e perché avevamo guardato dalla stessa finestra della piazza del Popolo quella esecuzione che vi fece tanta impressione che quasi sveniste. Ora, io domando a questi signori, potevo lasciare il mio ospite nelle mani di quegli spaventosi banditi, come voi li chiamate? D’altra parte, lo sapete, avevo nel salvarvi un secondo fine, quello di servirmi di voi per introdurmi nella società di Parigi quando fossi venuto in Francia. Per qualche tempo avete potuto considerare questa risoluzione come un disegno vago ed incerto; ma oggi, lo vedete, è una bella e buona realtà, alla quale bisogna che vi sottomettiate, sotto pena di mancare alla vostra parola.”
“Ed io la manterrò” disse Morcerf, “ma temo che presto vi cadrà ogni illusione, mio caro conte, voi, avvezzo ai luoghi d’avventure, agli avvenimenti pittoreschi ai fantastici orizzonti. Presso noi non vi accadrà il più piccolo episodio di quelli cui la vita fantastica vi ha abituato. Il nostro Chimboraco è Montmartre, il nostro Himalaya è il monte Valérien, il nostro Gran Deserto è la pianura di Grenelle. Noi abbiamo dei ladri ed anche molti, quantunque non ve ne siano tanti quanti si dice; ma essi temono ugualmente la più piccola spia come il più gran signore. Infine la Francia è un paese così prosaico, e Parigi una città tanto incivilita, che non troverete cercando per tutti gli ottantacinque nostri dipartimenti (dico ottantacinque dipartimenti, perché, ben inteso, separo la Corsica dalla Francia) che non troverete una sola montagna in cui non vi sia un telegrafo, la più piccola grotta un poco oscura, nella quale un commissario di polizia non abbia fatto porre un becco a gas. Non vi è dunque che un solo favore che posso rendervi, mio caro conte, e per questo mi metto interamente a vostra disposizione, ed è di presentarvi ovunque, e farvi presentare dai miei amici, benché voi per questo non abbiate bisogno d’alcuno: col vostro nome, la vostra fortuna, ed il vostro spirito” (Montecristo s’inchinò con un sorriso leggermente ironico), “ognuno si presenta ovunque da se stesso, ed ovunque è ben ricevuto. In realtà dunque non posso essere utile per voi che ad una cosa sola: se l’abitudine della vita parigina, se la esperienza dei nostri usi, se la conoscenza dei nostri bazar possono raccomandarmi a voi, mi metto a vostra disposizione per trovarvi una conveniente abitazione. Non oso proporvi di farvi parte del mio alloggio, come ho partecipato del vostro a Roma… Non professo l’egoismo, ma sono egoista per eccellenza… perché il mio alloggio non potrebbe contenere, oltre me, neppure un’ombra… a meno che non fosse quella di una donna.”
“Ah” fece il conte, “ecco una riserva del tutto matrimoniale: voi infatti a Roma mi avete detto qualche parola di un matrimonio in trattativa; debbo congratularmi per la vostra prossima felicità?”
“La cosa è sempre allo stato di progetto, signor conte.”
“E chi dice progetto” soggiunse Debray, “vuol dire eventualità.”
“No, no, mio padre si è impegnato, e spero fra poco di presentarvi se non mia moglie, almeno la mia fidanzata, la signorina Eugenia Danglars.”
“Eugenia Danglars” riprese Montecristo, “aspettate dunque… Suo padre non è il barone Danglars?”
“Sì” rispose Morcerf, “ma barone di nuova formazione.”
“Oh, che importa!” rispose Montecristo, “se ha reso allo Stato dei servigi che gli abbiano meritata questa distinzione.”
“Servigi enormi!” disse Beauchamp. “Quantunque liberale nell’anima nel 1829 completò un prestito di sei milioni a Carlo Decimo che lo ha, penso io, fatto barone e cavaliere della Legione d’Onore, di modo che egli porta la decorazione non al taschino del giubbetto, come si potrebbe credere, ma all’occhiello dell’abito!”
“Ah” disse Morcerf ridendo, “Beauchamp, riserbate questi frizzi per inserirli sul “Corsaire” e sul “Charivari”, ma in mia presenza risparmiate il mio futuro suocero.”
Quindi volgendosi a Montecristo:
“Ma voi poco fa ne pronunciaste il nome come se conosceste il barone?”
“Non lo conosco” disse negligentemente Montecristo, “ma probabilmente non tarderò molto a fare la sua conoscenza, visto che ho dei crediti aperti su lui dalla casa Richard e Blount di Londra, Arstein e Escheles di Vienna, Thomson e French di Roma.”
Pronunciando questi due ultimi nomi, Montecristo guardò colla coda dell’occhio Massimiliano Morrel.
Se lo straniero aveva calcolato di produrre un effetto sopra Massimiliano, non si era ingannato.
Massimiliano trasalì come se avesse ricevuta una scossa elettrica.
“Thomson e French!” disse. “Conoscete questa casa, signore?”
“Sono i miei banchieri nella capitale del mondo cristiano” rispose tranquillamente il conte. “Posso esservi utile con loro?”
“Ah, signore, voi potreste aiutarmi, forse, in certe ricerche, che fino ad oggi sono state infruttuose. In altro tempo questa casa ha reso un grandissimo favore alla nostra, e non so perché, ma ha sempre negato di avercelo reso.”
“Sono ai vostri ordini…” rispose Montecristo, inchinandosi.
“Ma noi” disse Morcerf, “ci siamo allontanati per Danglars dall’argomento della conversazione. Si trattava di trovare una casa conveniente al conte di Montecristo. Andiamo signori orizzontiamoci per averne un’idea: dove alloggeremo questo nuovo ospite della grande Parigi?”
“Nel Faubourg Saint-Germain” disse Chateau-Renaud, “il signore troverà una graziosa abitazione posta fra il cortile e il giardino.”
“Bah, Chateau-Renaud” disse Debray, “voi non conoscete che il vostro triste ed ammuffito Faubourg Saint-Germain… Non lo ascoltate signor conte, alloggiate nella Chaussée d’Antin, è il vero centro di Parigi.”
“Boulevard dell’Opera” disse Beauchamp, “al primo piano, una casa con ringhiera… Il signor conte vi farà portare dei cuscini di broccato d’argento, e vedrà, fumando la sua pipa turca, o inghiottendo le sue pillole, tutta la capitale sfilare sotto i suoi occhi.”
“E voi” disse Chateau-Renaud, “voi, signor Morrel, non avete alcuna idea? Nulla proponete?”
“Anzi” disse il giovane militare, “al contrario, ne ho una, ma aspettavo che il signore si fosse lasciato tentare da qualcuna delle brillanti proposte che gli sono state fatte. Ora, credo potergli offrire un appartamento in una casa piccola, ma graziosa, tutta alla Pompadour, che mia sorella ha presa in affitto da circa un anno in rue Meslay.”
“Voi avete una sorella?” domandò Montecristo.
“Sì, signore, ed una eccellente sorella.”
“Maritata?”
“Ben presto saranno nove anni.”
“È felice?” domandò di nuovo il conte.
“Tanto felice, quanto è permesso a creatura umana” rispose Massimiliano. “Sposò l’uomo che amava, quello che ci rimase fedele nell’avversa fortuna: Emanuele Herbaut.”
Montecristo sorrise impercettibilmente.
“Io abito là durante il mio congedo” continuò Massimiliano, “ed insieme a mio cognato Emanuele, saremo a disposizione del signor conte per tutte le informazioni che potesse desiderare.”
“Un momento” gridò Alberto, prima che Montecristo avesse avuto il tempo di rispondere, “riflettete su ciò che fate: volete rinchiudere un viaggiatore come Sindbad il marinaio nella vita di famiglia? Un uomo che è venuto a vedere Parigi, volete farlo diventare un patriarca?”
“Oh, no” rispose Morrel sorridendo, “mia sorella ha venticinque anni, mio cognato trenta; sono giovani, allegri e felici; d’altra parte il signor conte avrà il proprio appartamento, e non incontrerà gli ospiti che quando gli piacerà di scendere da loro”.
“Grazie, signore, grazie” disse Montecristo, “mi contenterò di essere da voi presentato a vostra sorella ed a vostro cognato, se volete farmi questo onore; ma non posso accettare le offerte di nessuno di questi signori, poiché ho già pronta la mia abitazione.”
“Come!” gridò Morcerf, “voi andate ad alloggiare in una locanda? Sarebbe troppo disdicevole per voi.”
“Ma stavo forse tanto male a Roma?” domandò Montecristo.
“Per Bacco, a Roma” disse Morcerf, “avevate speso cinquanta mila scudi per farvi ammobiliare un appartamento, e presumo non sarete tutti i giorni disposto ad una simile spesa.”
“Ciò non mi ha trattenuto” rispose Montecristo. “Avevo stabilito di avere una casa a Parigi, intendo una casa mia. Ho mandato avanti il mio cameriere: a quest’ora l’avrà già comprata, e fatta ammobiliare.”
“Ma diteci dunque, avete un cameriere che conosce Parigi!” gridò Beauchamp.
“È la prima volta, signore, ch’egli come me viene in Francia, è moro, e non parla…” disse Montecristo.
“Allora è Alì?” domandò Alberto in mezzo alla sorpresa generale.
“Sì, è Alì il mio nubiese, il mio moro, che credo abbiate visto a Roma.”
“Sì, certamente” rispose Morcerf, “me lo ricordo benissimo.”
“Ma come mai avete incaricato uno della Nubia di comprarvi una casa a Parigi, un muto per farvelo ammobiliare? Il povero disgraziato avrà fatte tutte le cose con grande difficoltà…”
“Disingannatevi, signore, sono certo che avrà scelto ogni cosa secondo il mio gusto; e voi sapete che il mio gusto non è quello di tutti… Avrà percorsa tutta la città con quell’istinto naturale che userebbe un bravo cane da caccia che andasse cacciando da solo. Conosce i miei capricci, le mie fantasie, i miei bisogni; avrà ordinato tutto a modo mio. Sapeva che sarei arrivato qui alle dieci; fin dalle nove mi aspettava alla barriera di Fontainebleau. Mi ha consegnato questo biglietto, col mio nuovo indirizzo: prendete e leggete…”
“Champs-Elysées, numero 30” lesse Morcerf.
“Ah! è veramente originale!” non poté fare a meno di dire Beauchamp.
“È grandemente principesca!…” aggiunse Chateau-Renaud.
“Come, voi non conoscete la vostra casa?” domandò Debray.
“No” disse Montecristo, “vi dissi già che non volevo tardare all’appuntamento. Feci la mia toilette in carrozza, e sono venuto alla porta del visconte.”
I giovani si guardarono l’un l’altro; non sapevano se Montecristo avesse voluto rappresentare una commedia; ma tutto ciò che usciva dalla bocca di quest’uomo aveva, nonostante l’originalità, una tale impronta di semplicità, che non si poteva supporre che mentisse. D’altra parte, perché avrebbe mentito?
“Bisognerà contentarsi di rendere al signor conte” disse Beauchamp, “tutti quei piccoli favori che saranno in nostro potere. Io, nella mia qualità di giornalista, gli apro tutti i teatri di Parigi.”
“Grazie, signore” rispose sorridendo Montecristo, “il mio intendente ha già l’ordine di prendere in fitto un palco in ciascuno di essi.”
“E il vostro intendente è pure uno della Nubia, un muto?” domandò Debray.
“No, signore, è semplicemente un vostro compatriota, se un corso è compatriota di qualcuno; ma voi lo conoscete, signor di Morcerf.”
“Sarebbe per caso quel bravo Bertuccio, che è così esperto a prendere in affitto le finestre?”
“Precisamente, e lo avete visto da me quel giorno ch’ebbi l’onore di avervi a colazione. È un bravissimo uomo, un po’ soldato, un po’ contrabbandiere, un po’ infine di tutto ciò che si può essere. Non giurerei che non abbia avuto qualche intrigo colla polizia, per una miseria, qualche cosa di simile ad un colpo di coltello.”
“Ed avete scelto quest’onesto cittadino del mondo, per vostro intendente, signor conte?” disse Debray. “E quanto vi ruba ogni anno?”
“Ebbene, parola d’onore” disse il conte, “niente più di un altro, ne sono sicuro; ma mi conviene, per lui nulla è impossibile, ed io lo tengo.”
“Allora” disse Chateau-Renaud, “eccovi con una casa montata; avete un’abitazione agli Champs-Elisées, domestico, intendente: non vi manca più che una moglie.”
Alberto sorrise; pensava alla bella greca veduta nel palco del conte al teatro Valle, e al teatro Argentina. Da lungo tempo erano passati alla frutta e ai sigari.
“Mio caro” disse Debray alzandosi, “sono le due e mezzo, il vostro convito è delizioso, ma non vi è buona compagnia che non si sia obbligati a lasciare, e qualche volta anche per una cattiva: bisogna che torni al Ministero. Parlerò del conte al ministro, e bisognerà bene che scopriamo chi sia.”
“Astenetevene” disse Morcerf, “i più maligni vi hanno rinunciato.”
“Bah, noi abbiamo tre milioni per la nostra polizia; è vero che sono quasi sempre spesi in anticipo; ma non importa: resteranno sempre un cinquantamila franchi da impiegarsi in questo”
“E quando saprete chi è, me lo direte?”
“Ve lo prometto. Arrivederci, Alberto. Signori, servo umilissimo.”
Ed uscendo, Debray gridò ad alta voce: “Fate venire la carrozza!”
“Beh” disse Beauchamp ad Alberto, “io non andrò alla Camera, ma avrò da offrire ai miei lettori molto di meglio che un discorso del signor Danglars.”
“Di grazia, Beauchamp” disse Morcerf, “neppure una parola, ve ne supplico; non mi togliete il merito di presentarlo, e di renderlo noto. Non è vero ch’egli è interessante?”
“Anche molto di più” rispose Chateau-Renaud: “è veramente uno degli uomini più straordinari che abbia mai veduto in vita mia. Venite, Morrel.”
“Solo il tempo di dare il mio biglietto al signor conte, che vorrà promettermi di venire a farci una visita, rue Meslay, numero 14.”
“State sicuro che non mancherò, signore…” disse inchinandosi il conte.
E Massimiliano Morrel uscì col barone di Chateau-Renaud, lasciando Montecristo solo con Morcerf.