L’indomani verso le due dopo mezzogiorno, un elegante calesse tirato da due magnifici cavalli inglesi, si fermò davanti alla porta di Montecristo. Un uomo vestito con un abito turchino, con bottoni di seta dello stesso colore, un corpetto bianco sormontato da una enorme catena d’oro, pantaloni neri, capelli neri che scendevano sulle sopracciglia e non parevano naturali, tanto erano poco in armonia colle rughe sparse; un uomo infine di cinquanta-cinquantacinque anni, e che cercava di dimostrarne quaranta dal volto, sporse la testa dal finestrino della carrozza, che aveva dipinta sullo sportello una corona di barone, e mandò il groom a domandare al portinaio se il conte di Montecristo era in casa.
Mentre aspettava, quest’uomo osservava con una attenzione minuta, quasi impertinente, l’esterno della casa, quanto poteva distinguersi dal giardino, e la livrea di quei domestici che si potevano vedere andare e venire. L’occhio di quest’uomo era vivace, ma piuttosto furbo che spiritoso. Le labbra erano così sottili che, invece di sporgere in fuori, si ripiegavano in dentro.
La larghezza e la protuberanza degli zigomi, segno infallibile d’astuzia, la depressione della fronte, il rigonfiamento dell’occipite che sorpassava un paio d’orecchie non certo aristocratiche, contribuivano a dare un aspetto spiacevole alla fisionomia di questo personaggio, che molto si raccomandava agli occhi del volgo per i suoi magnifici cavalli, per l’enorme diamante che portava alla camicia, e per il nastro rosso da un capo all’altro della bottoniera dell’abito.
Il groom bussò all’invetriata del portinaio, domandando:
“Non è qui che abita il conte di Montecristo?”
“È qui che abita Sua Eccellenza” rispose il portinaio “ma…”
E consultò con uno sguardo Alì, che fece un segno negativo.
“Ma?” domandò il groom.
“Sua Eccellenza non può ricevere” rispose il portinaio.
“In questo caso, ecco il biglietto da visita del mio padrone, il barone Danglars… Lo consegnerete al conte di Montecristo e gli direte che andando alla Camera, il mio padrone è passato di qui per aver l’onore di vederlo.”
“Io non parlo a Sua Eccellenza” rispose il portinaio, “però il cameriere farà l’ambasciata.”
Il groom ritornò alla carrozza.
“Ebbene?” domandò Danglars.
Il ragazzo, abbastanza vergognoso della lezione ricevuta, ripeté al padrone la risposta del portinaio.
“Oh” fece questi, “è dunque un principe questo signore che viene detto Eccellenza, e a cui solo il cameriere ha il diritto di parlare? Non importa, poiché ha un credito su me, bisogna bene che lo veda, quando avrà bisogno di denaro.”
E Danglars si ritrasse nel fondo della carrozza, gridando al cocchiere, in modo che si sarebbe sentito dall’altra parte della strada:
“Alla Camera dei deputati!”
Da una persiana del padiglione, Montecristo avvisato in tempo, aveva visto il barone, e lo aveva osservato, coll’aiuto di un eccellente occhialino, con non minore attenzione di quella che Danglars aveva messa ad analizzare la casa, il giardino, e le livree.
“Davvero” disse con un gesto di disgusto e facendo rientrare le lenti dell’occhialino nel loro manico d’avorio, “davvero quest’uomo è una laida creatura. Come mai, dalla prima volta che lo vedono, non riconoscono il serpente dalla fronte schiacciata, l’avvoltoio dal cranio rotondeggiante, lo sparviero dal becco acuto?”
“Alì” gridò, poi batté un colpo sul campanello di rame.
Alì comparve.
“Chiamate Bertuccio” disse il conte.
Nello stesso momento entrò Bertuccio.
“Forse Vostra Eccellenza mi faceva chiamare?” disse l’intendente.
“Sì, signore” disse il conte. “Avete veduti i cavalli che si sono fermati davanti alla mia porta?”
“Certamente, Eccellenza, sono molto belli.”
“E com’è dunque” disse Montecristo aggrottando il sopracciglio, “che mentre ho ordinato i due più bei cavalli che fossero a Parigi, vi siano ancora nelle scuderie dei cavalli più belli dei miei?”
All’aggrottarsi delle sopracciglia, ed al tono severo di quella voce, Alì abbassò la testa ed impallidì.
“Non è colpa tua, buon Alì” disse in arabo il conte con una dolcezza che non si sarebbe sospettata né nella sua voce, né sul suo viso. “Tu non t’intendi di cavalli inglesi.”
La serenità ricomparve sui lineamenti d’Alì.
“Signor conte” disse Bertuccio, “i cavalli di cui mi parlate non erano in vendita.”
Montecristo si strinse nelle spalle.
“Sappiate, signor intendente” disse, “che tutto è in vendita per chi sa fissare il prezzo.”
“Il signor Danglars li ha pagati sedicimila franchi, signor conte.”
“Ebbene, bisognava offrirgliene trentaduemila… Egli è un banchiere, e un banchiere non si lascia mai sfuggire l’occasione di raddoppiare il suo capitale.”
“Il signor conte parla sul serio?” domandò Bertuccio.
Montecristo guardò l’intendente stupito che avesse ardito fargli una simile domanda.
“Questa sera” disse, “ho una visita da restituire. Voglio che quei cavalli siano attaccati alla mia carrozza con finimenti nuovi.”
Bertuccio si ritirò salutando, vicino alla porta si fermò:
“A che ora” chiese, “Vostra Eccellenza conta di fare la visita?”
“Alle cinque” disse Montecristo.
Poi volgendosi ad Alì:
“Fate passare tutti i cavalli davanti alla signora” disse, “e lei scelga la pariglia che più le piace; e mi faccia dire se vuole pranzare con me; in questo caso sia apparecchiato nell’appartamento di lei. Andate, e scendendo mandatemi il cameriere.”
Non appena uscito Alì, entrò il cameriere.
“Battistino” disse il conte, “è ormai un anno che voi siete al mio servizio; questo è l’apprendistato che di solito fisso alla mia servitù: sono contento di voi.”
Battistino s’inchinò.
“Resta ora da sapere se voi siete contento di me.”
“Oh, signor conte!” si affrettò a dire Battistino.
“Ascoltatemi sino alla fine” riprese il conte. “Voi avete millecinquecento franchi l’anno di salario, vale a dire il soldo di un bravo ufficiale che arrischia la sua vita tutti i giorni; avete una tavola che molti capiufficio, servitori disgraziati, infinitamente più occupati di voi, non potrebbero desiderare di meglio. Domestico, voi stesso avete dei domestici che hanno cura della vostra biancheria e dei vostri effetti. Oltre a millecinquecento franchi di paga, voi mi rubate negli acquisti del mio vestiario, circa altri millecinquecento franchi ogni anno.”
“Oh, Eccellenza!”
“Io non me ne lamento, Battistino, è cosa naturale; però desidererei che la cosa si limitasse qui. Voi dunque non ritrovereste un posto simile a quel che vi ha dato la buona fortuna. Io non percuoto mai la mia servitù, non bestemmio mai, non mento mai, non vado mai in collera, perdono sempre uno sbaglio, non mai però una negligenza, od una dimenticanza. I miei ordini sono ordinariamente brevi, ma chiari e precisi; preferisco ripeterli due e anche tre volte, che vederli male interpretati. Sono abbastanza ricco di esperienze, e sono curiosissimo, ve ne prevengo. Se io sapessi dunque che voi aveste parlato di me in bene o in male, che aveste fatto dei commenti sulle mie azioni, sorvegliata la mia condotta, uscireste sul momento da casa mia: io non avverto un servitore che una sola volta. Ora siete avvertito. Andate!”
Battistino s’inchinò e fece tre o quattro passi per ritirarsi.
“A proposito” riprese il conte, “dimenticavo di dirvi che ogni anno metto a frutto un certo capitale sulla vita dei miei domestici. Quelli che licenzio dal mio servizio perdono necessariamente questa somma, che va in profitto di quelli che rimangono, e della quale godranno il possesso dopo la mia morte. È passato l’anno che siete al mio servizio, ed il vostro capitale è già incominciato; sappiatelo accumulare.”
Questo discorso, fatto davanti ad Alì che rimaneva impassibile, poiché non capiva una parola di francese, produsse su Battistino un effetto intuibile da tutti coloro che conoscono l’indole del domestico francese.
“Cercherò di conformarmi su tutti i punti alla volontà di Vostra Eccellenza” diss’egli, “e per far meglio, seguirò l’esempio di Alì.”
“Oh, niente affatto” disse il conte con una freddezza di marmo. “Alì ha molti difetti mescolati alle sue qualità; non vi modellate dunque su di lui. Poi egli è un’eccezione: non ha stipendio, non è un domestico, è uno schiavo, è il mio cane; se non facesse il suo dovere, non lo caccerei, ma lo ammazzerei!”
Battistino aprì due grandi occhi.
“Voi ne dubitate?” disse Montecristo.
E ripeté in arabo ad Alì le stesse parole che aveva dette in francese a Battistino.
Alì ascoltò, sorrise, si avvicinò al padrone, mise un ginocchio a terra e gli baciò rispettosamente la mano.
Questo piccolo corollario alla lezione mise al colmo lo stupore di Battistino, cui il conte fece segno di ritirarsi, mentre ordinava ad Alì di seguirlo. Entrambi passarono nel suo studio, e là si trattennero lungamente.
Alle cinque il conte batté tre colpi sul campanello. Un colpo chiamava Alì, due colpi Battistino, tre colpi Bertuccio.
L’intendente entrò.
“I miei cavalli!” disse Montecristo.
“Sono attaccati alla carrozza, Eccellenza” rispose Bertuccio. “Devo accompagnare Vostra Eccellenza?”
“No, soltanto il cocchiere, Battistino, ed Alì.”
Il conte discese e vide attaccati alla carrozza i cavalli che nella mattina aveva ammirati alla carrozza di Danglars. Passando vicino ad essi vi gettò un occhiata:
“Di fatto sono belli!” diss’egli. “E voi avete fatto bene a comprarli, solo lo avete fatto un poco tardi.”
“Ho durato molta fatica ad averli, e sono costati un po’ cari.”
“Non per questo i cavalli sono meno belli” disse il conte, stringendosi nelle spalle.
“Se Vostra Eccellenza è soddisfatta” disse Bertuccio, “tutto va bene… Dove va Vostra Eccellenza?”
“Rue Chaussée d’Antin, dal barone Danglars.”
Questa conversazione si faceva dall’alto della scalinata.
Bertuccio fece un passo per scendere il primo scalino.
“Aspettate, signore” disse Montecristo, “ho bisogno di una terra in Normandia sulla riva del mare, per esempio fra Le Havre e Boulogne. Vi do uno spazio vasto, come vedete. Bisognerebbe che in questo luogo vi fosse un piccolo porto, un piccolo seno, una piccola baia, dove potesse entrare ed uscire la mia corvetta; essa non pesca che quindici piedi d’acqua. Il bastimento sarà sempre in ordine per mettere alla vela, a qualunque ora del giorno e della notte mi piaccia dargli il segnale. Voi v’informerete da tutti i notai di una proprietà che abbia i pregi che vi ho detto. Quando l’avrete trovata, andrete a visitarla, e se rimarrete contento la comprerete a vostro nome. La corvetta deve essere in viaggio per Fécamp, non è vero?”
“La stessa sera che noi abbiamo lasciato Marsiglia, io la vidi mettere alla vela.”
“E lo yacht?”
“Lo yacht ha ordine di star fermo alla Martigues.”
“Va bene. Vi metterete in contatto di tanto in tanto coi due padroni che comandano, affinché non si addormentino.”
“E per il battello a vapore?”
“Non è a Châlons?”
“Sì.”
“Gli stessi ordini che per i due bastimenti a vela.”
“Bene!”
“Appena comprata questa proprietà, mi fisserete dei cambi di cavalli di dieci leghe tanto sulla strada del nord, che su quella del mezzogiorno.”
“Vostra Eccellenza può fidarsi di me.”
Il conte fece un segno di soddisfazione, discese i gradini, e saltò nella carrozza, che trascinata al trotto dalla magnifica pariglia non si fermò che alla porta del banchiere.
Danglars presiedeva una commissione nominata per una ferrovia allorché vennero ad annunziargli la visita del conte di Montecristo. La seduta del resto era quasi finita.
Al nome del conte egli si alzò:
“Signori” disse ai colleghi, fra i quali molti onorevoli membri dell’una e dell’altra Camera, “perdonatemi se vi lascio così… Ma la casa Thomson e French di Roma m’invia un certo conte di Montecristo aprendogli a mio mezzo un credito illimitato. Questo è lo scherzo più insolito che i miei corrispondenti all’estero si siano permessi con me. Lo capirete bene, sono preso e trattenuto dalla più grande curiosità. Questa mattina sono passato da questo preteso conte. Se fosse un vero conte, capirete bene che non sarebbe così ricco. Ebbene il signore non riceveva. Che ve ne pare? Queste maniere che si permette il nostro Montecristo, non sono più adatte a qualche principe o a qualche bella donna? D’altra parte la casa agli Champs-Elysées che è sua, me ne sono informato, dev’essere costata un patrimonio… Ma un credito illimitato” riprese Danglars, ridendo col suo villano sorriso, “rende molto esigente il banchiere sul quale viene aperto. Ho dunque fretta di vedere il nostro uomo. Mi credo raggirato. Ma quelli laggiù non sanno con chi hanno a che fare: riderà bene chi riderà ultimo…”
Terminando queste parole, e dandogli un’enfasi che gli gonfiò le narici, lasciò i suoi ospiti, e passò in un salone bianco e oro che godeva gran fama nella Chaussée d’Antin. Là aveva ordinato che fosse introdotto il visitatore onde abbagliarlo al primo colpo.
Il conte era in piedi, e stava considerando alcune copie dell’Albano e del Fattore vendute per originali al banchiere, e che, per quanto fossero copie, spiccavano molto sugli arabeschi d’oro e di tutti i colori che adornavano il soffitto.
Al rumore che Danglars fece entrando il conte si volse. Danglars fece un leggero cenno di testa, indicando colla mano al conte di sedersi in una seggiola di legno dorata, con cuscini di seta bianca broccata in oro.
Il conte si sedette.
“Ho l’onore di parlare al signor di Montecristo?”
“Ed io” rispose il conte, “al barone Danglars, cavaliere della Legion d’Onore, membro della Camera dei deputati?”
Montecristo ridiceva tutti i titoli che aveva ritrovati sul biglietto da visita del barone.
Danglars sentì la botta e si morse le labbra:
“Scusatemi, signore” disse, “di non avervi dato subito il titolo sotto il quale mi siete stato annunziato, ma voi lo sapete, noi viviamo sotto un governo democratico…”
“Di modo che” rispose Montecristo, “conservando l’abitudine di farvi chiamare barone, avete perduta quella di chiamare gli altri conte.”
“Ah, non ci faccio caso neppure per me” disse negligentemente Danglars. “Mi hanno fatto barone e cavaliere della Legione d’Onore per servigi resi, ma…”
“Ma voi avete abdicato ai titoli, come in altro tempo hanno fatto Montmorency e La Fayette? Questo è un bell’esempio da seguire, signore.”
“Però non del tutto” riprese Danglars impacciato, “per i domestici, capirete…”
“Sì, voi siete barone per la servitù, e cittadino per i giornalisti, e per i vostri committenti.”
Danglars si morse le labbra. Vide che su quel terreno non era della forza di Montecristo, cercò dunque un terreno più familiare.
“Signor conte” disse inchinandosi, “ho ricevuto una lettera d’avviso della casa Thomson e French.”
“Ne sono contento, signor barone. Permettetemi di trattarvi come la vostra servitù; è una cattiva abitudine presa nei paesi ove vi sono ancora dei baroni, proprio perché non se ne fanno di nuovi. Ne sono contento, dicevo, non avrò bisogno di presentarmi io stesso, la quale cosa è sempre imbarazzante. Voi dunque avete ricevuto una lettera di credito?”
“Sì” rispose Danglars, “ma vi confesso che non ne ho bene capito il senso.”
“Bah!”
“Ed anzi avevo avuto l’onore di passare da voi per domandarvene la spiegazione.”
“Fatelo, signore, eccomi, io ascolto, e sono pronto a rispondervi.”
“Questa lettera” rispose Danglars, “credo d’averla con me.”
Si frugò nelle tasche.
“Eccola, sì. Questa lettera apre al signor conte di Montecristo un credito illimitato sulla mia casa.”
“Ebbene, signor barone, che vi trovate d’oscuro?”
“Niente, signore, fuorché la parola illimitato…”
“Ebbene, questa parola non è forse francese? Capirete che sono anglosassoni che scrivono.”
“Oh via, signore per la sintassi non c’è niente da ridire, ma non è così per la contabilità.”
“Perché, la casa Thomson e French” chiese Montecristo coll’aria più ingenua che avesse potuto assumere, “non è a vostro avviso abbastanza sicura, signor barone? Diavolo, mi spiacerebbe, perché ho depositati su di essa alcuni capitali.”
“Ah, perfettamente sicura” rispose Danglars con un sorriso quasi beffardo, “ma la parola illimitato, in materia di finanza, è tanto vaga che…”
“Che è illimitata, non è vero” disse Montecristo.
“Precisamente questo volevo dire. Ciò che è vago è dubbio, ed il saggio dice: astieniti dal dubbio.”
“Che è quanto dire” replicò Montecristo, “che se la casa Thomson e French è disposta a fare delle pazzie, la casa Danglars non è disposta a seguirne l’esempio.”
“Che significa, signor conte?”
“Sì, senza dubbio, Thomson e French fanno gli affari senza cifre, ma il Signor Danglars dà un limite alle sue; è un uomo saggio, come si vantava poco fa.”
“Signore” disse orgogliosamente il banchiere, “nessuno ha ancora fatti conti nella mia cassa.”
“Allora” disse freddamente Montecristo, “sembra che sarò io a cominciare.”
“E chi vi ha detto questo?”
“Le spiegazioni che voi mi chiedete, e che somigliano molto all’esitazione.”
Danglars si morse le labbra; era la seconda volta che veniva battuto da quest’uomo, e questa volta sopra un terreno che era il suo. La sua compitezza mordace non era che apparente e sfiorava l’impertinenza. Montecristo al contrario sorrideva colla maggior grazia del mondo, e quando voleva, possedeva una cert’aria di leggerezza che gli dava molti vantaggi.
“Finalmente, signore” disse Danglars dopo un momento di silenzio, “cercherò di farmi intendere, pregandovi di fissare voi stesso la somma che contate riscuotere da me.”
“Ma, signore” rispose Montecristo, risoluto a non perdere un pollice di terreno nella discussione, “se ho chiesto un credito illimitato su voi, fu precisamente perché non sapevo di quale somma potevo aver bisogno.”
Il banchiere credette finalmente giunto il momento di prendere il sopravvento; si rovesciò sul suo seggio, e con un grossolano ed orgoglioso sorriso:
“Oh, signore, non abbiate alcun timore nel chiedere… Potrete convincervi che le cifre della casa Danglars, per quanto limitate, possono soddisfare le più grandi esigenze, e potreste anche chiedere un milione…”
“Sarebbe a dire?” disse Montecristo.
“Dico un milione” disse Danglars colla sostenutezza dello stolido.
“E a che mi servirebbe un milione?” disse il conte. “Buon Dio, signore, se non mi fosse abbisognato che un milione, non mi sarei fatto aprire un credito su voi per una simile miseria. Un milione! Ma ho sempre un milione nel mio portafogli, nel mio scrigno da viaggio.”
E Montecristo cavò dal piccolo taccuino, entro cui teneva i biglietti da visita, due assegni di cinquecentomila franchi l’uno, pagabili dal tesoro al portatore. Bisognava accoppare, e non pungere un uomo come Danglars. Il colpo di mazza fece il suo effetto: il banchiere vacillò, ed ebbe la vertigine, spalancò su Montecristo due occhi ebeti, la cui pupilla si dilatò a dismisura.
“Vediamo, confessatemi” disse Montecristo, “che diffidate della casa Thomson e French. Mio Dio, la cosa è semplicissima. Io però ho previsto il caso, e sebbene estraneo agli affari ho preso le mie cautele. Ecco dunque due altre lettere simili a quella che vi fu scritta: una è della casa Arstein e Eskeles di Vienna sopra il signor barone Rothschild, l’altra è della casa Baring di Londra sul signor Laffitte. Dite una parola, signore, ed io vi toglierò qualunque preoccupazione, presentandomi all’una o all’altra di queste due case.”
Era finita: Danglars fu vinto. Egli aprì con un visibile tremore la lettera di Vienna e quella di Londra che gli venivano presentate sulla punta delle dita dal conte, verificò l’autenticità delle firme, tanto minuziosamente, che sarebbe stato un insulto per Montecristo, senza la confusione del banchiere.
“Oh, signore, ecco tre firme che valgono bene dei milioni” disse Danglars alzandosi, come per salutare la potenza dell’oro personificata nell’uomo che aveva davanti. “Tre crediti illimitati sulle nostre tre prime case! Perdonatemi, signor conte, ma mentre cesso di essere diffidente, mi sarà permesso d’essere meravigliato.”
“Oh, non sarà già una casa come la vostra quella che si meraviglia di ciò!” disse Montecristo con tutta cortesia. “Dunque mi manderete un po’ di denaro, non è vero?”
“Parlate, signor conte, sono ai vostri ordini.”
“Ebbene, ora che c’intendiamo… Perché già c’intendiamo, non vero?”
Danglars fece un segno affermativo colla testa.
“E non avrete più diffidenza?” continuò Montecristo.
“Oh, non ne ho mai avuta” disse il banchiere.
“No, desideravate una prova, ecco tutto. Ebbene” ripeté il conte, “ora che c’intendiamo, ora che non avete più alcuna diffidenza, fissiamo, se volete, una somma per il primo anno… sei milioni, per esempio.”
“Sei milioni, sia!” disse Danglars soffocato.
“Se mi occorrerà di più” disse Montecristo con trascuratezza, “metteremo di più; ma non conto di restare che un anno in Francia, e non credo d’oltrepassare questa somma… però vedremo… Per cominciare, fatemi portare domani trecentomila franchi. Sarò in casa fino a mezzogiorno, se non vi sarò lascerò la ricevuta al mio intendente.”
“Il denaro sarà in casa vostra domattina alle dieci, signor conte” rispose Danglars. “Volete oro, argento, o biglietti di banca?”
“Metà oro, e metà biglietti, per favore” ed il conte si alzò.
“Debbo confessarvi una cosa” disse Danglars a sua volta, “io credevo di avere delle cognizioni esatte su tutte le belle fortune d’Europa, e tuttavia la vostra, che mi sembra considerevole, mi era, ve lo confesso, del tutto sconosciuta. È recente?”
“No, signore” rispose Montecristo, “al contrario è di vecchia data. Era una specie di tesoro di famiglia che era proibito toccare, e i cui interessi accumulandosi hanno triplicato il capitale: l’epoca fissata dal testatore è scaduta da pochi anni soltanto, e non è che da pochi anni che io ne uso. La vostra ignoranza su questo argomento è naturale; del resto la conoscerete meglio fra qualche tempo.”
Ed il conte accompagnò queste parole con uno di quei languidi sorrisi che facevano tanta paura a Franz d’Epinay.
“Coi vostri gusti e colle vostre intenzioni, signore, spiegherete nella nostra capitale un lusso che ci schiaccerà tutti, noi altri poveri piccoli milionari. Ed ora, giacché mi sembrate un amatore, e quando sono entrato guardavate i miei quadri, vi domando il permesso di farvi vedere la mia galleria: tutti quadri antichi, tutti quadri di maestri, garantiti come tali. Io non amo i moderni.”
“Avete ragione, perché hanno in generale un gran difetto, quello cioè di non aver ancora avuto il tempo di diventare antichi.”
“Poi potrò mostrarvi qualche statua di Thorvaldsen, di Bartolini, di Canova, tutti artisti stranieri, come ben sapete: io non stimo gli artisti francesi.”
“Voi avete diritto d’essere ingiusto con loro, signore, sono vostri compatrioti.”
“Ma tutto questo sarà per un altro giorno quando avremo fatta miglior conoscenza; oggi mi contenterò, se lo permettete, di presentarvi alla signora Danglars. Scusate la mia premura, ma un cliente come voi fa quasi parte della famiglia.”
Montecristo s’inchinò come per fargli comprendere che accettava l’onore che voleva fargli.
Danglars suonò, un lacchè, vestito con una livrea sontuosa, comparve.
“La signora baronessa è in casa?” domandò Danglars.
“Sì, signor barone” rispose il lacchè.
“Sola?”
“No, la signora è in compagnia.”
“Non sarà indiscrezione presentarvi davanti a estranei, è vero, signor conte? Non siete in incognito?”
“No” rispose sorridendo Montecristo, “non mi riconosco questo diritto.”
“E chi è dalla signora? Il signor Debray?” domandò Danglars con una bonarietà che fece sorridere Montecristo, già informato dei trasparenti segreti della casa del banchiere.
“Il signor Debray, sì, signor barone” rispose il lacchè.
Danglars fece un segno colla testa, poi si volse verso Montecristo.
“Il signor Luciano Debray è un nostro vecchio amico, segretario del Ministro dell’interno; in quanto a mia moglie, appartiene ad un’antica famiglia: era la signorina Servières, vedova in prime nozze del Colonnello marchese de Nargonne.”
“Non ho ancora l’onore di conoscere la signora baronessa Danglars, ma ho già incontrato il signor Debray.”
“Beh” disse Danglars, “e dove?”
“In casa del signor Morcerf.”
“Ah, voi conoscete il piccolo visconte?” disse Danglars.
“Ci siamo trovati insieme a Roma al tempo del carnevale.”
“Ah sì” disse Danglars, “ho sentito dire qualche cosa di un’avventura singolare con banditi o ladri fra certe rovine: egli fu salvato miracolosamente. Credo abbia raccontato qualche cosa di simile a mia moglie ed a mia figlia al suo ritorno dall’Italia.”
“La signora baronessa aspetta questi signori” ritornò a dire il lacchè.
“Vado avanti per indicarvi la strada” disse Danglars salutando.
“Ed io vi seguo” soggiunse Montecristo.