In pochi minuti la carrozza giunse nella rue Meslay numero 7.
La casa era bianca, ridente, e preceduta da un cortile con due praticelli con dei bellissimi fiori.
Nel portinaio che gli aprì la porta il conte riconobbe il vecchio Coclite, ma come ognuno ricorderà, questi non aveva che un occhio, ed in nove anni quest’occhio s’era considerevolmente indebolito.
Coclite non riconobbe il conte.
La carrozza, per fermarsi davanti all’entrata, doveva voltare onde evitare un piccolo getto d’acqua che cadeva in una vasca di rocce: magnificenza che aveva eccitata la gelosia del quartiere, e per cui la casa veniva chiamata la Piccola Versailles.
È superfluo dire che nella vasca guizzavano una quantità di pesci gialli e rossi.
La casa, eretta sopra le cucine e le cantine, aveva, oltre il piano terreno, due piani e le soffitte. I giovani l’avevano acquistata con le dépendances, che consistevano in un laboratorio, in due padiglioni nel fondo del giardino, e nel giardino stesso.
Emanuele aveva veduto, a primo colpo d’occhio, che dietro questa disposizione dei locali si poteva fare una piccola speculazione: si era riservata la casa e metà del giardino, e aveva tirata una linea, cioè fabbricato un piccolo muro, fra la metà del giardino ed il laboratorio, che aveva dato in fitto coi padiglioni e la porzione di giardino. Di modo che si trovava alloggiato per una somma molto modica, e tanto ben appartato, quanto il più scrupoloso proprietario di una casa del Faubourg Saint-Germain.
La sala da pranzo era di quercia, il salotto di mogano e di velluto turchino, la camera da letto di cedro e di damasco verde: vi era inoltre un locale-studio per Emanuele che nulla studiava, ed un salotto da musica per Giulia che non era musicista. Il secondo piano per intero era riservato a Massimiliano; una ripetizione esatta dell’appartamento della sorella, meno che la sala da pranzo convertita in sala da bigliardo, ove conduceva i suoi amici.
Accudiva al suo cavallo, e fumava il sigaro all’ingresso del giardino, quando la carrozza del conte si fermò alla porta.
Coclite aprì la porta, come abbiamo detto, e Battistino smontò dal sedile, chiedendo se il signore e la signora Herbault ed il signor Massimiliano Morrel erano visibili per il conte di Montecristo.
“Per il conte di Montecristo!?” gridò Morrel gettando il sigaro, e slanciandosi verso il visitatore. “Lo credo bene che siamo visibili per lui. Ah, grazie, cento volte grazie, signor conte, di non aver dimenticato la vostra promessa.”
Il giovane ufficiale strinse così cordialmente la mano del conte, che questi non poté ingannarsi sulla franchezza del gesto, vide bene ch’era aspettato con impazienza e ricevuto con premura.
“Venite, venite” disse Massimiliano, “voglio presentarvi io stesso; un uomo come voi non deve essere annunciato da un servitore… Mia sorella è in giardino a strappar le rose appassite. Mio cognato legge i suoi giornali preferiti, la ‘Presse’ e il ‘Débats’, a sei passi da lei: ovunque si trattiene la signora Herbault, si ritrova Emanuele, e viceversa.”
Il rumore dei passi fece alzare la testa ad una giovane donna di venti, ventitré anni, abbigliata con una veste da camera di seta, che sfogliava con cura particolare un magnifico rosaio.
Questa donna era la nostra piccola Giulia, divenuta, come era stato predetto dal mandatario della casa Thomson e French, la moglie di Emanuele Herbault.
Vedendo uno straniero mandò un piccolo grido.
Massimiliano si mise a ridere.
“Non ti disturbare, sorella mia” disse. “Il signor conte è a Parigi da soli due o tre giorni, ma sa già che cosa è una borghese del Marais, e se non lo sa, tu glielo insegnerai.”
“Ah signore, condurvi così…” disse Giulia. “È un tradimento di mio fratello che non ha per sua sorella la più piccola attenzione… Penelon!… Penelon!…”
Un vecchio che zappava intorno ad un rosaio bianco del Bengala, piantò la zappa in terra e si avvicinò, col berretto in mano, dissimulando meglio che poteva l’avanzo di tabacco che stava masticando. Qualche capello bianco inargentava la sua fitta capigliatura color bronzeo e l’occhio ardito e vivo rivelava un vecchio marinaio, imbrunito sotto il sole dell’equatore e disseccato al soffio delle tempeste.
“Mi pare che mi abbiate chiamato, signorina Giulia” diss’egli, “eccomi.”
Penelon aveva conservato l’abitudine di chiamare la figlia del suo padrone signorina Giulia, e non aveva mai potuto chiamarla signora Herbault.
“Penelon” disse Giulia, “andate ad avvertire Emanuele della buona visita che riceviamo, mentre Massimiliano condurrà il signore nel salotto.”
Poi volgendosi a Montecristo:
“Il signore mi permetterà di allontanarmi per un minuto, non è vero? disse e, senza aspettare il consenso del conte, sparì dietro un gruppo d’alberi e rientrò in casa per un viale laterale.
“È che, mio caro Morrel” disse Montecristo, “m’accorgo con dispiacere che porto una completa rivoluzione nella vostra famiglia.”
“Guardate, guardate” disse Massimiliano ridendo, “vedete laggiù il marito, che da parte sua, va a cambiare la veste da camera in un abito… È perché ormai tutti vi ammirano nella rue Meslay, tanto si è parlato di voi, vi prego di crederlo…”
“Mi sembra che abbiate qui una famiglia felice” disse il conte rispondendo a un suo pensiero.
“Oh sì, ve lo garantisco, signor conte… Che volete?… Nulla manca loro per essere felici, sono giovani, sono allegri, si amano, e, con le venticinquemila lire di rendita, si figurano di possedere le ricchezze di Rothschild.”
“È poco però venticinquemila lire di rendita” disse Montecristo con una dolcezza così soave che penetrò il cuore di Massimiliano, come avrebbe potuto farlo la voce di un tenero padre. “Ma non si fermeranno lì, i nostri giovani, diverranno a loro volta milionari. Il vostro cognato è avvocato… medico?”
“Era negoziante, signor conte, ed aveva presa la ditta del mio povero padre. Il signor Morrel è morto lasciando cinquecentomila franchi di fondi: io ne avevo una metà, e mia sorella l’altra, perché non eravamo che due figli. Suo marito, che l’aveva sposata senza avere altra ricchezza che la sua nobile probità, la sua intelligenza di prim’ordine, e la sua reputazione senza macchia, ha voluto accumulare un patrimonio pari a quello della moglie. Egli lavorò finché ebbe risparmiati duecentocinquantamila franchi: sei anni bastarono. Era, ve lo giuro, signor conte, un commovente spettacolo vedere questi due giovani laboriosi, uniti, destinati per la loro capacità alla più gran fortuna che, non avendo voluto alcun cambiamento nelle abitudini della casa paterna, hanno messo sei anni per accumulare ciò che degli spregiudicati avrebbero potuto fare in due o tre… Marsiglia parla ancora dei sacrifici di questi due ragazzi. Infine un giorno Emanuele venne da sua moglie che finiva di pagare le scadenze.
‘Giulia’ le disse, ‘ecco l’ultimo buono di cento franchi riscosso da Coclite, e che compie i duecentocinquanta mila franchi che abbiamo fissato come limite del nostro guadagno. Sarai soddisfatta di quel poco di cui d’ora innanzi bisognerà che ci contentiamo? Ascolta, la casa ogni anno fa affari per un milione, e può produrre un utile di quarantamila franchi: venderemo, se vogliamo, la clientela per trecento mila franchi, perché ecco qui una lettera del signor Delaunay che ce li offre in cambio dei nostri fondi, ch’egli vuole riunire ai suoi. Pensa a ciò che credi si debba fare.’
‘Amico mio’ disse mia sorella, ‘la ditta Morrel non può essere portata che da un Morrel. Salvare per sempre il nome di nostro padre da qualunque evento della sorte non vale più di trecento mila franchi?’
‘Lo pensavo anch’io’ disse Emanuele, ‘però ho voluto sentire il tuo parere.’
‘Ebbene, amico mio, eccolo. Tutti i nostri incassi sono fatti, tutte le nostre obbligazioni pagate; possiamo tirare un rigo al disotto dei conti di questa quindicina, e chiudere il banco; facciamolo.’
Il che fu fatto nello stesso momento. Erano le tre; alle tre e un quarto un cliente si presentò per fare assicurare il tragitto di due bastimenti; era un guadagno di quindicimila franchi in contanti.
‘Signore’ gli disse Emanuele, ‘abbiate la bontà di rivolgervi per queste assicurazioni a qualcun altro dei nostri confratelli, per esempio al signor Delaunay; in quanto a noi abbiamo lasciato gli affari.’
‘E da quanto tempo?’ domandò il cliente meravigliato.
‘Da un quarto d’ora.’
Ecco, signore” continuò sorridendo Massimiliano, “in qual modo mia sorella e mio cognato non hanno che venticinquemila lire di rendita.”
Massimiliano terminava appena questo racconto durante il quale il cuore del conte si era sempre più commosso, allorché Emanuele ricomparve vestito d’un altro abito e di un cappello. Egli salutò in modo da far capire che aspettava la sua visita, e quindi, dopo aver fatto fare al conte il giro del piccolo recinto fiorito, lo condusse verso casa.
Il salotto era già profumato dai fiori contenuti in un immenso vaso del Giappone.
Giulia, convenientemente vestita ed elegantemente pettinata (aveva impiegata tutta la sua abilità in dieci minuti!), si presentò all’ingresso per ricevere il conte.
Si sentivano cinguettare gli uccelli di una uccelliera, i cui rami di falso ebano e i rami d’un’acacia rosea venivano coi loro grappoli di fiori ad ornare i panneggiamenti di velluto turchino.
Tutto respirava calma in questo grazioso piccolo ritiro, dal canto degli uccelli fino al sorriso dei padroni.
Il conte, fin dal suo entrare nella casa, si era già impregnato di questa felicità; perciò restava muto ed assorto, dimenticando di esser guardato ed atteso per riprendere la conversazione interrotta dopo i primi complimenti.
Egli s’accorse che il proprio silenzio diveniva quasi sconveniente, e strappandosi con sforzo dai suoi ricordi:
“Signora” disse finalmente, “perdonate una emozione che deve meravigliare voi, abituata a questa pace ed a questa felicità; ma per me è cosa tanto nuova la soddisfazione sul viso umano, che non mi stanco di contemplare voi e vostro marito.”
“Siamo infatti molto felici, signore” replicò Giulia, “ma abbiamo sofferto tanto lungamente, che ben poche persone hanno conquistato la loro felicità ad un così caro prezzo.”
La curiosità si dipinse sui lineamenti del conte.
“Oh, questa è un storia di famiglia, come vi diceva l’altro giorno Château-Renaud” riprese Massimiliano. “Per voi, signor conte, assuefatto a vedere illustri infortuni e splendide gioie, vi sarebbe poco d’interessante in questo quadro familiare. Tuttavia abbiamo, come diceva Giulia, sofferto vivi dolori, quantunque circoscritti in questo piccolo quadro.”
“E Dio versò su voi, come versa su tutti, la consolazione nelle disgrazie?” domandò Montecristo.
“Sì, conte, possiamo dirlo, perché ha fatto per noi ciò che potrebbe fare per i suoi eletti; ci ha inviato uno dei suoi angeli.”
Le guance del conte divennero rosse, ed egli tossì per avere un mezzo di dissimulare la sua emozione, portando alla bocca il fazzoletto.
“Coloro che nacquero in una culla di porpora e che non hanno mai desiderato cosa alcuna” disse Emanuele, “non sanno ciò che sia il bene della vita, come non conoscono il valore di un cielo puro e sereno coloro che non hanno mai messa la loro vita in balia di quattro assi gettate sopra un mare in tempesta.”
Montecristo si alzò, e senza dir nulla, perché al tremolio della sua voce avrebbero forse riconosciuta l’emozione da cui era scosso, si mise a percorrere il salotto passo passo.
“La nostra magnificenza vi farà sorridere…” disse Massimiliano, che seguiva con gli occhi Montecristo.
“No, no…” rispose Montecristo molto pallido, e comprimendosi con una mano i battiti del cuore, mentre con l’altra mostrava al giovane una campana di cristallo, sotto la quale una borsa di seta stava preziosamente stesa sopra un cuscino di velluto nero, “domando soltanto a che serve questa borsa che da una parte mi sembra che contenga una carta, e dall’altra un bel diamante?”
Massimiliano, assumendo un aria grave, rispose:
“Questo, signor conte, è il più prezioso dei nostri tesori di famiglia.”
“Infatti questo diamante è molto bello…” replicò il conte.
“Oh, mio fratello non parla del prezzo della pietra, quantunque sia stimata cento mila franchi, vuole solamente dirvi che gli oggetti racchiusi in questa borsa sono le testimonianze di quell’angelo di cui vi parlammo or ora.”
“Ecco ciò che non saprei capire, e ciò nonostante sento di non poter chiedervi, signora” replicò Montecristo inchinandosi. “Perdonatemi, non volevo essere indiscreto.”
“Indiscreto, dite? Al contrario ci rendete contenti, signor conte, offrendoci occasione di trattenerci su questo argomento! Se noi nascondessimo come un segreto la bella azione che ci ricorda questa borsa, non la terremmo così esposta alla vista di tutti. Vorremmo poterla divulgare in tutto l’universo, affinché un cenno del nostro sconosciuto benefattore ci svelasse la sua presenza.”
“Davvero?” esclamò Montecristo con voce soffocata.
“Signore” disse Massimiliano sollevando la campana di cristallo e baciando devotamente la borsa di seta, “questa ha toccato la mano di un uomo per il quale mio padre è stato salvato dalla morte, dalla rovina e dalla infamia; di un uomo, grazie al quale noi, poveri ragazzi destinati alla miseria ed alle lacrime possiamo sentire oggi le persone gioire per la nostra felicità. Questa lettera” e Massimiliano cavò il biglietto dalla borsa e lo presentò al conte, “questa lettera fu scritta da lui un giorno in cui mio padre aveva presa una risoluzione molto disperata, e questo diamante fu dato in dote a mia sorella da questo generoso sconosciuto.”
Montecristo aprì la lettera e la lesse con una indefinibile espressione di felicità; era il biglietto che i nostri lettori conoscono, diretto a Giulia, e firmato Sindbad il marinaio.
“Sconosciuto, diceste? L’uomo che vi ha reso questo favore vi è rimasto ignoto?”
“Sì, oh signore, non abbiamo mai avuta la fortuna di stringergli la mano! Non fu però per nostra mancanza, per non aver chiesto a Dio questa grazia” riprese Massimiliano, “ma in tutto questo affare furono così misteriose le circostanze che non le abbiamo ancora chiarite: il tutto fu guidato da una mano invisibile, potente come quella di un mago.”
“Oh” disse Giulia, “non ho ancora perduto del tutto la speranza di potere un giorno giungere a baciare quella mano, come bacio questa borsa che fu da essa toccata. Sono quattro anni, Penelon era a Trieste… Penelon, signor conte, è quel bravo marinaio che avete veduto con la zappa alla mano, e che da secondo mastro è diventato giardiniere. Penelon era dunque a Trieste, vide sullo scalo un inglese che stava per imbarcarsi su uno yacht, e riconobbe in lui quello che venne da mio padre il 5 giugno 1829, e che mi scrisse questo biglietto il 5 settembre. Era lo stesso, a quanto assicura, ma non osò parlargli.”
“Un inglese?” fece Montecristo distratto, impacciato ad ogni sguardo di Giulia.
“Sì” riprese Massimiliano, “un inglese che si presentò a noi come mandatario della casa Thomson e French di Roma. Ecco perché quando l’altro giorno diceste da Morcerf che Thomson e French erano i vostri banchieri, mi avete visto sussultare. In nome del cielo, signore, quanto vi abbiamo detto accadde nel 1829… Avete conosciuto questo inglese?”
“Ma non mi avete detto che la casa Thomson e French ha costantemente negato di avervi reso questo servigio?”
“Sì.”
“Allora quest’inglese non potrebbe essere un uomo che riconoscente verso vostro padre di qualche buona azione che forse aveva anch’egli dimenticata avesse preso questo pretesto per rendergli un servizio?”
“Tutto è possibile in simile congiuntura, anche un miracolo.”
“Come si chiamava?” domandò Montecristo.
“Non ha lasciato altro nome” rispose Giulia guardando il conte con una profonda attenzione, “che la firma in calce a questo biglietto, Sindbad il marinaio.”
“Evidentemente questo non è un nome, ma un soprannome.”
Quindi, poiché Giulia lo guardava più attentamente ancora, e sembrava cogliere qualche rassomiglianza alle note della sua voce:
“Vediamo” continuò egli, “non è un uomo con la mia corporatura, forse un poco più magro, imprigionato in un’alta cravatta, abbottonato in un abito stretto, e sempre con la matita alla mano?”
“Oh, ma dunque lo conoscete?” gridò Giulia con gli occhi scintillanti di gioia.
“No” disse Montecristo. “Ho conosciuto un lord Wilmore, che esercitava in tal modo atti di generosità.”
“Senza farsi conoscere?”
“Era un uomo bizzarro, che non credeva alla riconoscenza.”
“Oh, mio Dio!” gridò Giulia con un sublime accento, e giungendo le mani. “E a che cosa credeva dunque il disgraziato?”
“Egli non ci credeva, almeno al tempo in cui l’ho conosciuto…” disse Montecristo, al quale questa voce sortita dal fondo dell’anima aveva agitato fin l’ultima fibra. “Ma da quel tempo forse avrà avuto qualche prova che la riconoscenza esiste.”
“E voi conoscete quest’uomo?” disse Emanuele.
“Oh, se lo conoscete” gridò Giulia, “dite, potete guidarci a lui, mostrarcelo, dirci dov’è? Massimiliano, Emanuele, se lo ritrovassimo lo faremmo ricredere sulla memoria del cuore… Non è vero?”
Montecristo sentì due lacrime cadergli dagli occhi; fece ancora qualche passo nel salotto.
“In nome del cielo, signore” disse Massimiliano, “se sapete qualche cosa di quest’uomo, diteci ciò che sapete.”
“Ahimè” disse Montecristo, comprimendo l’emozione della sua voce, “se il vostro benefattore è lord Wilmore, temo che non lo ritroverete mai. Io l’ho lasciato due o tre anni fa a Palermo; ed egli partiva per paesi tanto favolosi, che dubito non ritorni più.”
“Ah, signore, siete crudele…” gridò Giulia con spavento.
E le lacrime discesero dagli occhi della giovane sposa.
“Signora” disse con gravità Montecristo divorando con lo sguardo le lacrime sulle guance di Giulia, “se lord Wilmore avesse visto ciò che io vedo, egli amerebbe ancora la vita, perché le lacrime che voi versate lo rappacificherebbero col genere umano.”
E stese la mano a Giulia che gli presentò la sua, trascinata com’era dallo sguardo del conte.
“Ma questo lord Wilmore” disse lei, riattaccandosi ad un’ultima speranza, “aveva un paese, una famiglia, dei parenti, infine era conosciuto? e non potremmo?…”
“Oh, non cercate niente, signora” disse il conte, “non fabbricate dolci chimere sopra parole che mi sono lasciato sfuggire. No, lord Wilmore probabilmente non è l’uomo che cercate; egli era mio amico, conoscevo tutti i suoi segreti e non mi ha raccontato mai niente di tutto ciò.”
“Non vi ha mai detto niente di tutto ciò!” gridò Giulia.
“Niente.”
“Mai una parola che avesse potuto farvi supporre?”
“Mai.”
“Tuttavia lo avete correlato subito.”
“Ah, sapete… in simili casi si suppone.”
“Sorella mia, sorella mia” disse Massimiliano venendo in soccorso del conte, “il signore ha ragione. Ricordati ciò che ci diceva spesso il nostro buon padre: ‘Non è un inglese che ci ha procurata questa fortuna’.”
Montecristo rabbrividì.
“Vostro padre diceva, signor Morrel?” riprese vivamente il conte.
“Mio padre, signore, vedeva in quest’azione un miracolo. Mio padre credeva ad un benefattore uscito per noi dalla tomba. Oh, qual commovente sentimento, signore, era questo… E mentre io stesso non ci credevo, ero ben lontano dal voler distruggere questa fede nel suo nobile cuore! Così quante volte ci pensava, pronunciando a bassa voce un nome, nome di un amico molto caro, un nome di un amico perduto! E quando fu vicino alla morte, quando l’approssimarsi dell’eternità ebbe dato al suo spirito qualche cosa della chiaroveggenza della tomba, questo pensiero, che fino ad allora non era che un dubbio, divenne convinzione: e le ultime parole che pronunziò morendo furono queste: ‘Massimiliano, egli era Edmondo Dantès!’.”
Il pallore del conte, che da qualche minuto stava crescendo, divenne livido a queste parole.
Tutto il suo sangue venne ad affluirgli al cuore; non poteva parlare. Cavò l’orologio come se avesse dimenticata l’ora, prese il cappello, e fece alla signora Herbault un complimento momentaneo ed impacciato, e stringendo la mano ad Emanuele e a Massimiliano:
“Signori” disse, “permettetemi di venire qualche volta a presentarvi i miei omaggi. Io amo la vostra casa, e vi sono riconoscente della vostra accoglienza; è la prima volta dopo molti anni che ho passato il tempo senza accorgermene.”
Ed uscì a passi precipitati.
“Che uomo singolare è questo conte” disse Emanuele.
“Sì” disse Massimiliano, “ma sono sicuro che ha un cuore eccellente, ed affettuoso.”
“Ed a me” disse Giulia, “la sua voce ha toccato il cuore, e due o tre volte mi è sembrato che non fosse la prima volta che la sentivo.”