Capitolo 51. Tossicologia

Aug 19, 2008 16:11

Era realmente il conte di Montecristo che entrava dalla signora Villefort, con l’intenzione di restituirle la visita che il procuratore del re gli aveva fatta, ed a questo nome tutta la casa, come si può ben immaginare, s’era messa in moto.

La signora Villefort che non era sola nel salotto, quando fu annunziato il conte, fece subito chiamare suo figlio, perché rinnovasse i ringraziamenti al conte, ed Edoardo che da due giorni non aveva cessato di sentir parlare di questo gran personaggio, accorse in tutta fretta non per ubbidire a sua madre, non per ringraziare il conte, ma per pronunciare qualcuna di quelle impertinenze che facevano dire a sua madre: “Oh che cattivo ragazzo. Ma bisogna pure che gli perdoni, ha tanto spirito!”

Dopo i primi convenevoli il conte domandò del signor Villefort.

“Mio marito è andato a pranzo dal signor cancelliere” rispose la giovane sposa. “È partito da poco e sarà dispiacentissimo, ne sono sicura, di essere stato privato della fortuna di vedervi.”

Due visitatori che avevano preceduto il conte nel salotto, e che lo divoravano con gli occhi, si ritirarono dopo quel tempo conveniente che esige l’educazione e la curiosità.

“A proposito, che fa dunque vostra sorella Valentina?” domandò la signora Villefort ad Edoardo. “Sia avvertita affinché abbia l’onore di presentarla al signor conte.”

“Avete una figlia, signora?” domandò il conte. “Ma deve essere una bambina…”

“È la figlia del signor Villefort” replicò la giovane sposa, “una figlia del primo matrimonio, una bella ragazza.”

“Ma malinconica” interruppe il giovane Edoardo, strappando, per farsene un pennacchio al cappello, una penna a un magnifico pappagallo, che gridava per il dolore nella sua gabbia dorata.

La signora Villefort si limitò a dire: “Quieto, Edoardo!”. Poi soggiunse: “Questo giovane stordito ha quasi ragione, e ripete ora ciò che ha sentito dire da me molte volte con dolore; perché la signorina Villefort, per quanto facciamo per distrarla, è di un’indole triste, di un umore taciturno, che spesso nuoce all’effetto della sua bellezza… Ma non viene… Edoardo, vedete dunque perché”.

“Perché la cercano dove non è.”

“Dove la cercano?”

“Dal nonno Noirtier.”

“E credete che non sia là?”

“No, no, no, no, non c’è” beffeggiò Edoardo.

“E dov’è? Se lo sapete, ditelo.”

“È sotto il gran castagno” continuò il perfido ragazzo, offrendo, nonostante le grida di sua madre, alcune mosche ancora vive al pappagallo che sembrava ghiotto di un tal cibo.

La signora Villefort stese la mano per suonare, e per far sapere alla cameriera dove stava Valentina, quando lei stessa entrò.

Difatti sembrava triste, e guardandola attentamente si sarebbero potute scorgere nei suoi occhi le tracce delle lacrime.

Valentina, che per la rapidità del racconto abbiamo presentato ai nostri lettori senza farla conoscere, era alta e snella, di diciannove anni, coi capelli castano chiari, la figura morbida e ben modellata, con quella squisita signorilità che distingueva sua madre. Le sue mani bianche ed affilate, il collo d’avorio, le guance dai fuggevoli colori, le davano, al primo aspetto, l’aria di quelle belle inglesi, che con molta poesia sono state paragonate a dei cigni che si specchiano. Entrò dunque, e vedendo vicino a sua madre lo straniero di cui aveva inteso parlare, salutò, senz’alcuna smorfia da ragazzina, e senza abbassare gli occhi, con una grazia che raddoppiò l’attenzione del conte, il quale si alzò.

“La signorina Villefort, mia figliastra” disse la signora Villefort a Montecristo chinandosi sul sofà, e indicando con la mano Valentina.

“È il signor di Montecristo, re della Cina, imperatore della Cocincina!” disse il ragazzo impertinente, lanciando uno sguardo alla sorella.

Questa volta la signora Villefort impallidì, e quasi si adirò contro quel flagello domestico che rispondeva al nome di Edoardo; ma il conte al contrario sorrise e parve guardasse il bambino con compiacenza, il che portò al colmo la gioia e l’entusiasmo della madre.

“Ma signora” riprese il conte riannodando la conversazione, e guardando ora la signora Villefort ed ora Valentina, “è forse possibile che abbia avuto l’onore di veder voi e la signorina in qualche altro luogo? Poco fa ci pensavo e quando entrò la signorina la sua vista è stata un bagliore di più su un confuso ricordo, perdonate l’espressione.”

“Non è probabile, signore; la signorina Villefort ama poco la società e noi usciamo raramente.”

“Ma non in società ho veduto la signorina e voi, come questo grazioso folletto. La società parigina, d’altra parte, mi è affatto sconosciuta, perché, credo di avere avuto l’onore di dirvelo, sono a Parigi da pochi giorni. No, se permettete che mi ricordi… aspettate…” Il conte appoggiò la mano alla fronte come per concentrare le idee. “No, è all’estero… è… non so bene, ma mi sembra che questo ricordo sia collegato con un bel sole, e con una specie di festa religiosa… La signorina teneva dei fiori in mano, il bambino correva dietro un bel pavone in un giardino, e voi, signora, eravate sotto un pergolato di foglie… Aiutatemi dunque, signora, forse quanto vi dico non vi fa risovvenire di qualche cosa?”

“No, in verità” rispose la signora Villefort. “Eppure mi sembra che se vi avessi incontrato in qualche luogo il ricordo di voi mi sarebbe rimasto impresso.”

“Il signor conte ci avrà forse vedute in Italia” disse timidamente Valentina.

“Difatti in Italia… Siete stata in Italia, signorina?”

“La signora ed io ci fummo circa due anni fa; i medici temevano per il mio petto e mi avevano raccomandato l’aria di Napoli. Passammo per Bologna, Perugia e Roma.”

“Ah, è vero signorina!” gridò Montecristo, come se questa piccola indicazione gli fosse bastata per fissare le sue rimembranze. “Fu a Perugia, il giorno di una festa, nella locanda della Posta, dove la combinazione ci riunì, signora, vostro figlio, la signorina ed io.”

“Mi ricordo perfettamente di Perugia, della locanda della Posta, della festa di cui mi parlate” disse la signora Villefort, “ma ho un bell’interrogare i miei ricordi, e mi vergogno della mia poca memoria, ma non mi sovvengo di avere avuto l’onore di vedervi.”

“È singolare, neppure io” disse Valentina alzando i suoi begli occhi sul conte di Montecristo.

“Ah, me ne ricordo io” disse Edoardo.

“Vi aiuterò, signora” riprese il conte. “La giornata era calda; aspettavate dei cavalli che non venivano a causa della solennità. La signorina si allontanò nel fondo del giardino, vostro figlio disparve correndo dietro al pavone.”

“E lo raggiunsi, mamma, lo sai” disse Edoardo, “che anzi gli strappai due penne della coda.”

“Voi signora, vi fermaste sotto il pergolato di viti… Non ricordate più che mentre eravate seduta su una panchina di pietra, mentre, come vi dicevo, la signorina Villefort e vostro figlio erano assenti, voi parlaste lungamente con qualcuno?”

“Sì, davvero, sì” disse la giovane sposa arrossendo, “me ne sovvengo, con un uomo avviluppato in un lungo mantello di lana… con un medico, credo.”

“Precisamente, signora, quell’uomo ero io. Soggiornavo da quindici giorni in quell’albergo dove avevo guarito il mio cameriere dalla febbre, ed il mio locandiere dalla itterizia, per cui ero creduto un gran dottore. Noi parlammo lungamente, signora, di cose indifferenti, del Perugino, di Raffaello, delle abitudini, dei costumi, e di quella famosa acqua tofàna di cui alcuni, vi era stato detto, conservano ancora il segreto a Perugia.”

“Ah, è vero!” disse vivamente la signora Villefort, con una certa inquietudine. “Me ne ricordo.”

“Non so più che mi diceste in particolare, signora” riprese il conte con una perfetta tranquillità, “ma ricordo benissimo che, condividendo voi pure l’equivoco sulla mia professione, mi consultaste sulla salute della signorina Villefort.”

“Ma però, signore, voi eravate realmente medico, poiché guariste degli infermi.”

“Molière e Beaumarchais vi risponderebbero, signora, che appunto perché non medico, non ho potuto guarire i miei malati, ma essi sono guariti da sé. Mi limiterò a dirvi che ho studiato molto profondamente la chimica, le scienze naturali, ma soltanto come dilettante… capite?”

In quel momento suonarono le sei.

“Sono le sei” disse la signora Villefort visibilmente agitata. “Valentina, non andate a vedere se vostro nonno è pronto per pranzare?”

Valentina si alzò, e salutando il conte, uscì dalla stanza senza pronunciare una parola.

“Oh, mio Dio, signora, sarebbe mai per colpa mia che avete fatto uscire la signorina?” disse il conte quando Valentina fu uscita.

“No, davvero” rispose vivacemente la giovane sposa. “Ma questa è l’ora nella quale facciamo fare al signor Noirtier il triste pasto, che sostiene la sua anche più triste esistenza. Sapete, signore, in quale deplorevole stato è il padre di mio marito?”

“Sì, signora, il signor Villefort me ne ha parlato, credo una paralisi…”

“Purtroppo sì, per il povero vecchio vi è completa assenza di movimenti, l’anima sola veglia in quella macchina umana, pallida e tremante come una lampada vicina ad estinguersi… Ma mi scusi, signore, se vi ho trattenuto sui nostri domestici infortuni; vi ho interrotto al momento che dicevate di essere un abile chimico.”

“Oh, io non dicevo questo, signora” rispose il conte con un sorriso. “Ben diversamente, ho studiato la chimica, quando deciso a vivere particolarmente in Oriente, ho voluto seguire l’esempio del re Mitridate.”

“Mitridates rex Ponti” disse lo stordito ragazzo stracciando dei disegni in un magnifico album, “quello che faceva colazione tutte le mattine con una tazza di veleno al fior di latte.”

“Edoardo, perfido ragazzo!” gridò la signora Villefort, strappando il libro mutilato dalle mani del figlio. “Siete insopportabile! andate a raggiungere vostra sorella Valentina presso il nonno.”

“L’album” disse Edoardo.

“Come l’album?”

“Sì, lo voglio…”

“Perché avete stracciato i disegni?”

“Perché mi diverte.”

“Andatevene, andatevene!”

“Non me ne andrò, se prima non mi si dà l’album” disse il ragazzo, accomodandosi su una gran seggiola.

“Prendete e lasciateci tranquilli” disse la signora Villefort.

E dette l’album ad Edoardo, che uscì accompagnato da sua madre sin sulla soglia.

Il conte seguì con gli occhi la signora Villefort.

“Vediamo se chiude la porta…” disse fra sé.

La signora chiuse la porta con la più gran cura dietro il ragazzo; il conte fece mostra di non accorgersene. Quindi gettando un ultimo sguardo intorno, la giovane sposa si sedette sulla poltrona.

“Permettetemi di farvi osservare, signora” disse il conte con quella bonarietà di cui lo conosciamo dotato, “che voi siete un poco severa con questo grazioso folletto.”

“È necessario, signore…” replicò lei con tono materno.

“Egli recitava il suo Cornelius Nepos, parlando del re Mitridate” disse il conte, “e voi lo avete interrotto in una recitazione che prova che il precettore non ha perduto il tempo con lui, e che vostro figlio è molto avanti per la sua età.”

“Il fatto è, signor conte” riprese la madre dolcemente lusingata, “ch’egli ha una grande facilità, e impara tutto ciò che vuole; non ha che un difetto, ed è di avere troppa forza di volontà. Ma a proposito di ciò che si diceva, credete forse che Mitridate usasse queste cautele e che fossero efficaci?”

“Lo credo tanto, signora, che io ne ho usato in occasioni nelle quali, senza queste cautele, vi avrei potuto lasciare la vita.”

“E l’antidoto è stato efficace?”

“Perfettamente.”

“Sì, è vero, mi ricordo che voi mi avete già detto qualche cosa di simile a Perugia.”

“Veramente?” fece il conte con una sorpresa mirabilmente simulata. “Non me ne rammento.”

“Io vi domandai se i veleni operavano ugualmente e con la stessa energia sugli uomini del Nord, che su quelli del Mezzogiorno, e voi mi rispondeste che i temperamenti freddi e linfatici dei settentrionali non presentano la stessa attitudine che la ricca ed energica natura delle persone del Mezzogiorno.”

“È vero” disse Montecristo. “Ho visto dei russi divorare senza essere incomodati sostanze vegetali che avrebbero ucciso infallibilmente un arabo.”

“Per cui credete che in mezzo alle nostre nebbie ed alle nostre piogge un uomo si potrebbe più facilmente, che in regioni calde, abituare a questo lento e progressivo assorbimento di veleno?”

“Certamente, ben inteso però senza premunirsi di antidoto contro il veleno a cui si deve abituare.”

“Oh, capisco! E in qual modo vi ci abituereste voi, per esempio, ovvero in qual modo vi ci siete già abituato?”

“Supponete che sappiate già prima qual veleno si voglia usare contro di voi, supponete che sia della brucnina.”

“La brucnina si ricava dalla falsa angustura, credo” disse la signora Villefort.

“Precisamente signora” disse Montecristo. “Ma vedo che mi resta poco da insegnarvi. Vi faccio le mie congratulazioni; simili erudizioni sono rare nelle donne.”

“Ve lo confesso signore, ho il più vivo interesse per le scienze occulte, che parlano all’immaginazione come una poesia, e si risolvono in cifre come una equazione algebrica… Ma continuate vi prego, ciò che mi dite mi importa moltissimo.”

“Ebbene” riprese Montecristo, “supponete che questo veleno sia la brucnina, per esempio, e che ne prendiate un millesimo di grammo il primo giorno, due il secondo e così via… Ebbene, dopo 10 giorni ne prenderete un centigrammo, dopo 20 ne prenderete tre centigrammi, vale a dire una dose che sopporterete senz’alcun inconveniente, e che sarebbe pericolosissima per un’altra persona che non avesse prese le stesse cautele; infine dopo un mese, bevendo nello stesso bicchiere, voi ammazzereste una persona che beva di quest’acqua, con voi. Vi accorgerete solo da un piccolo malessere che c’era una sostanza velenosa mescolata all’acqua.”

“Non conoscete altri contravveleni?”

“Non ne conosco altri.”

“Avevo spesso letta e riletta questa storia di Mitridate” disse la signora Villefort, “e l’avevo creduta una favola.”

“No, signora, contro il solito, questa è una verità, ma ciò che mi dite, signora, ciò che chiedete non è curiosità d’un momento poiché sono due anni che mi fate le stesse domande, ed ora mi dite che la storia di Mitridate vi preoccupa da molto tempo.”

“È vero, signore, i due studi favoriti della mia gioventù sono stati la botanica e la mineralogia, e quando poi ho saputo che l’uso di questi semplici spiegava spesso tutta la storia dei popoli, e tutta la vita degli individui d’Oriente, nello stesso modo con cui i fiori spiegano tutti i loro pensieri amorosi, mi è spiaciuto di non essere un uomo per diventare un Flamel, un Fontana, o un Cabanis.”

“Tanto più, signora” disse Montecristo, “che gli orientali non si limitano, come Mitridate, a servirsi dei veleni come una corazza, ma se ne servono come pugnali: la scienza nelle loro mani diventa non solo un’arma difensiva, ma anche offensiva: l’una serve loro contro le sofferenze fisiche, l’altra contro i loro nemici; con l’oppio, con la belladonna, con l’hashish si procurano sogni di felicità che il cielo ha loro realmente negati; con la falsa angustura, col legno di brionia, col lauro-ceraso addormentano quelli che vorrebbero svegliarsi. Non vi è una fra le donne egiziane, turche, o greche, che qui chiamate “buone donne”, che non sappia in fatto di chimica fare stupire un medico.”

“Davvero?” disse la signora Villefort, i cui occhi brillavano di uno strano fuoco durante la conversazione.

“Eh, mio Dio, sì, signora. I drammi segreti d’Oriente si annodano e si sciolgono così, dalla pianta che fa amare fino a quella che fa morire; dalla bevanda che vi rapisce in estasi, fino a quella che può far discendere un uomo nella sepoltura. Vi sono tante gradazioni di ogni genere, quanti sono i capricci e le bizzarrie dell’umana natura, fisica, e morale, e, dirò di più, l’arte di questi chimici sa adattare mirabilmente il rimedio ed il male ai propri bisogni d’amore, e ai propri desideri di vendetta.”

“Ma, signore” riprese la giovane sposa, “queste società orientali, in mezzo alle quali avete passato gran parte della vostra esistenza sono dunque fantastiche come i racconti che vengono da questi bei paesi? È dunque una realtà la Bagdad o la Bassora del signor Galland? I sultani e i visir che reggono queste società, e che costituiscono ciò che si chiamerebbe in Francia il governo, sono dunque sul serio tanti Harumal-Ruscid e tanti Giaffar, che non solo perdonano ad un avvelenatore, ma lo fanno anche primo ministro, se questo delitto è stato ingegnoso; e poi, in questo caso, ne fanno stampare la storia in lettere d’oro per divertirsene nelle loro ore di noia?”

“No, signora, il fantastico non c’è più, neppure in Oriente; vi sono anche laggiù mascherati con altri nomi e nascosti sotto altri costumi, dei giudici istruttori, dei procuratori del re, e dei periti. Vi s’impicca, vi si taglia la testa, vi s’impala molto gradevolmente; ma i delinquenti, da esperti frodatori, hanno saputo illudere la giustizia umana ed assicurare il successo alle loro imprese con abili combinazioni. Presso noi un imbecille posseduto dal demone dell’odio e della cupidigia, che ha un nemico da distruggere o un parente da annientare, va da uno speziale, gli dà un nome falso, che poi più facilmente farà scoprire il suo vero, e compra cinque o sei grammi d’arsenico; s’egli è molto furbo, va da cinque o sei speziali, e non è che cinque o sei volte conosciuto meglio: poi quando possiede il suo specifico, amministra al nemico, o al parente, una dose d’arsenico che farebbe crepare un elefante o un rinoceronte, e che fa mandare alla sua vittima urli tali da mettere tutto il quartiere sossopra. Allora giunge un nugolo di agenti di polizia, o di gendarmi; si manda a cercare un medico, che fa l’autopsia, e raccoglie nello stomaco o negli intestini l’arsenico a cucchiaiate; il giorno dopo cento giornali raccontano il fatto col nome della vittima e dell’uccisore. Fin dalla stessa sera lo speziale, o gli speziali, viene o vengono a dire “sono io che ho venduto l’arsenico al signore” e, piuttosto che non riconoscere il compratore, ne riconoscerebbero venti; allora il goffo reo è preso, imprigionato, interrogato, confrontato, confuso, condannato e ghigliottinato o, se è una donna della buona società, viene imprigionata a vita. Ecco il modo con cui i nostri settentrionali intendono la chimica. Desrues però la intendeva meglio, debbo confessarlo.”

“Che volete, signore. non tutti hanno i segreti dei medici o dei Borgia!” disse la giovane sposa ridendo.

“Ora” disse il conte stringendosi nelle spalle, “volete che vi dica qual è la causa di tutte queste sciocchezze? È che nei teatri, a quanto ho potuto giudicare io stesso dalla lettura delle opere che vi si rappresentano, si vede sempre qualcuno inghiottire il contenuto di un’ampolla, mordere la montatura di un anello, e cadere cadavere; cinque minuti dopo cala il sipario, gli spettatori si disperdono, s’ignorano le conseguenze dell’omicidio, non si vede mai né il commissario di polizia con la sciarpa, né il caporale coi suoi quattro agenti, e ciò autorizza i cervelli mediocri a credere che le cose finiscano così. Ma uscite un po’ dalla Francia, andate ad Aleppo o al Cairo, e vedrete passeggiare per le strade persone tutte fresche e color rosa, delle quali il diavolo zoppo, se vi toccasse col suo mantello, potrebbe dirvi: ‘Questo signore è avvelenato da tre settimane e sarà morto tra un mese’.”

“Ma allora” disse la signora Villefort, “hanno dunque trovato finalmente il segreto di quella famosa acqua tofàna, che in Perugia si diceva perduto.”

“Eh, signora, forse fra gli uomini si perde qualche cosa? Le arti si spostano e fanno il giro del mondo, le cose cambiano di nome, ecco tutto: l’uomo volgare s’inganna, ma è sempre lo stesso risultato, il veleno. Ciascun veleno opera particolarmente su un tale o tal altro organo, l’uno sullo stomaco, l’altro sul cervello, l’altro infine sugli intestini. Ebbene, il veleno determina una tosse, questa un’infiammazione di petto o qualunque altra malattia scritta nel libro della scienza, cosa che non le impedisce di essere del tutto mortale, e che quand’anche non lo fosse, lo diverrebbe grazie ai rimedi somministrati da ingenui medici, che in generale sono cattivi chimici. Ecco un uomo ucciso con arte, e con tutte le regole, sul quale la giustizia non ha da ridire, come diceva un terribile chimico mio amico, l’eccellente Adelmonte di Taormina in Sicilia che aveva molto studiato i fenomeni nazionali.”

“È spaventoso, ma ammirabile” disse la giovane sposa immobile per l’attenzione. “Lo confesso, credevo che tutte queste fossero invenzioni del medio evo.”

“Sì, senza dubbio, ma che si sono meglio perfezionate ai giorni nostri. A che volete dunque che servano i tempi, gli incoraggiamenti, le medaglie, le croci, i premi alla virtù se non per condurre la società alla sua più grande perfezione? Ora l’uomo non sarà perfetto che quando saprà come creare e distruggere come la natura. Egli sa distruggere, dunque la metà del cammino è fatta.”

“Di modo che” riprese la signora Villefort, ritornando invariabilmente al suo scopo “i veleni dei Medici, dei Renato, dei Ruggero, e più tardi probabilmente del barone di Trenck, di cui ha tanto abusato l’odierno dramma ed il romanzo…”

“Erano oggetti d’arte, signora, non altro” riprese il conte. “Credete che il vero sapiente s’indirizzi bonariamente allo stesso individuo? No, davvero. La scienza ama il recondito, le grandi fatiche, l’ideale, se ciò si può dire. Così a mo’ d’esempio, quell’eccellente Adelmonte di cui vi parlavo ha fatto su questo rapporto eccellenti esperienze; ve ne citerò una sola. Aveva un bellissimo giardino pieno di legumi, di fiori e di frutti. Egli sceglieva il più umile di tutti questi legumi, per esempio, un cavolo. Per tre giorni lo annaffiava con una soluzione di arsenico; il terzo giorno il cavolo cadeva malato ed appassiva; era il momento di tagliarlo: per tutti sembrava maturo e conservava la normale apparenza; per Adelmonte solo era avvelenato. Allora egli portava il cavolo a casa, e prendeva un coniglio (Adelmonte aveva una collezione di conigli, di gatti, di porcellini d’India, che nulla cedeva alla collezione di legumi, di fiori e di frutti), prendeva dunque un coniglio e gli faceva mangiare una foglia di cavolo; il coniglio moriva. Quale sarebbe il giudice istruttore che potrebbe trovare a ridire su ciò? e qual procuratore del re ha mai sognato di stabilire una requisitoria contro Magendie o Flourens sul conto dei conigli, dei porcellini d’India e dei gatti che hanno ucciso? Nessuno: ecco dunque un coniglio morto senza che la giustizia se ne inquieti. Morto il coniglio, Adelmonte lo faceva sventrare dalla sua cuoca e gettare gli intestini sopra un letamaio; su questo un pollo va a beccare gli intestini, cade malato a sua volta e muore l’indomani. Mentre si dibatte nelle convulsioni dell’agonia passa un avvoltoio (vi sono molti avvoltoi nel paese di Adelmonte), piomba sul cadavere, lo porta su una roccia e lo divora. Tre giorni dopo il povero avvoltoio, che dopo questo pasto si è trovato costantemente indisposto, si sente preso da un capogiro durante il volo, s’avvita in aria e viene a cadere a piombo in un vostro vivaio di pesci: voi sapete che il luccio, l’anguilla, la morena mangiano golosamente, essi mordono l’avvoltoio. Ebbene supponete che l’indomani venga servito alla vostra tavola uno di questi lucci, una di queste anguille, una di queste morene avvelenata dopo quattro passaggi, il vostro convitato, che lo sarà al quinto morrà in capo ad otto o dieci giorni di dolore d’intestini, di male al cuore, di ascesso al piloro. Verrà fatta l’autopsia, e i medici diranno: è morto di un tumore al fegato o di una febbre tifoidea.”

“Ma” disse la signora Villefort, “tutti questi passaggi che voi concatenate gli uni agli altri possono essere interrotti dal più piccolo accidente: l’avvoltolo, per esempio, può non passare in tempo, o cadere a cento passi dal vivaio…”

“Ecco dove sta precisamente l’arte. Per essere un gran chimico in Oriente, bisogna saper prendere l’occasione: e vi si giunge.”

La signora Villefort era tutta intenta ad ascoltarlo.

“Ma” disse, “l’arsenico è indelebile; in qualunque modo venga assorbito si trova sempre nel corpo umano, dal momento che vi sia stato introdotto in quantità sufficiente per darne la morte.”

“Bene” gridò Montecristo, “bene! Ecco precisamente ciò che dissi al buon Adelmonte. Egli sorrise, e mi rispose con un proverbio siciliano, che credo sia anche un proverbio francese: ‘Figlio mio, il mondo non fu fatto in un giorno, ma in sette, ritornate domenica’. La domenica successiva vi andai, invece di avere annaffiato il suo cavolo con la soluzione arsenicale, l’aveva annaffiato con una soluzione a base di stricnina, strichnon culubrina come dicono gli scienziati. Questa volta il cavolo non aveva l’aspetto malato, per cui il coniglio non ne diffidava; e cinque minuti dopo era morto. Il pollo lo mangiò ed il giorno dopo era morto. Allora noi facemmo come l’avvoltoio, il pollo venne sventrato. Questa volta tutti i sintomi particolari erano spariti, e non restavano che i sintomi generali. Nessuna indicazione sugli organi, soltanto esasperazione del sistema nervoso, e traccia di congestione cerebrale, nient’altro; il pollo non era stato avvelenato, era morto d’apoplessia. E un caso raro nei polli, lo so, ma comunissimo nell’uomo.”

La signora Villefort sembrava sempre più assorta.

“È una fortuna” disse, “che tali sostanze non possano essere preparate che dai chimici, perché in verità una metà del mondo avvelenerebbe l’altra.”

“Da chimici, e da quelli che si occupano di chimica” rispose negligentemente Montecristo.

“E poi” disse la signora Villefort togliendosi con forza dai suoi pensieri, “per quanto più sapientemente preparato, il delitto è sempre un delitto; e se sfugge alle umane investigazioni, non sfugge però allo sguardo di Dio! Gli orientali sono più coraggiosi di noi, ecco tutto.”

“Eh, signora, questo è un pensiero che deve naturalmente nascere in un’anima onesta come la vostra, ma che i sofismi sradicano ben presto nei perversi. La vita dell’uomo scorre facendo tali cose, e la sua intelligenza si stanca a segnarle. Voi troverete ben poche persone che vadano bestialmente a piantare un coltello nel cuore del loro simile, o a somministrare una dose d’arsenico, come quella di cui vi parlavo or ora. Questa è veramente una eccentricità o una bestialità. Per giungere a ciò bisogna che il sangue si riscaldi e che l’anima esca dai limiti ordinari. Ma se, come si usa in filologia, si passa dalla parola al sinonimo, voi fate una semplice eliminazione, invece di commettere un ignobile assassinio; se allontanate puramente e semplicemente dal vostro sentiero colui che vi dà incomodo, e ciò senza scossa, senza violenza, senza quelle sofferenze che, diventando un supplizio, fanno della vostra vittima un martire, e di chi opera un carnefice in tutta l’estensione del termine; se non vi è né sangue, né urli, né contorsioni, né soprattutto la pericolosa fretta del delitto, allora voi sfuggite ai colpi della legge umana che vi dice: ‘Non disturbate la società’. Ecco come procedono e riescono le genti d’Oriente, persone gravi, e flemmatiche, che s’inquietano poco sulla questione del tempo nelle circostanze di una certa importanza.”

“Resta la coscienza” disse la signora Villefort con voce commossa soffocando un sospiro.

Montecristo voleva continuare, ma lei lo interruppe come per cambiar discorso.

“Tutto mi conduce a stimarvi” disse, “per un gran chimico, e quell’elisir che avete fatto prendere a mio figlio, che lo ha richiamato così rapidamente alla vita…”

“Oh, non ve ne fidate” la interruppe Montecristo. “Una goccia di quell’elisir bastò per richiamare vostro figlio alla vita mentre stava per morire, ma tre gocce gli avrebbero spinto il sangue ai polmoni, in modo da procurargli forti palpitazioni di cuore, sei gocce gli avrebbero sospesa la respirazione, e lo avrebbero posto in una sincope molto più grave di quella in cui si trovava; dieci lo avrebbero fulminato. Sapete, signora, in qual modo lo allontanai da quelle ampolle che aveva l’imprudenza di toccare…”

“È dunque un veleno terribile?”

“Oh, mio Dio, no: bisogna prima ammettere che la parola veleno non esiste: in medicina si servono dei veleni più violenti, che divengono, per il modo con cui sono amministrati, i rimedi più salutari.”

“Che cosa è dunque allora?”

“È una sapiente pozione del mio amico, l’eccellente Adelmonte, e di cui mi ha insegnato a servirmi.”

“Oh” disse la signora Villefort, “questo dev’essere un eccellente antispasmodico.”

“Sovrano rimedio, signora, lo avete veduto” rispose il conte, “ed io ne faccio uso frequentemente con tutta la prudenza possibile, ben inteso” soggiunse ridendo.

“Lo credo; in quanto a me, tanto nervosa e così facile a svenire avrei bisogno di pillole per respirare meglio, giacché il mio terrore è di morire soffocata. Ma siccome è difficile trovar ciò in Francia, e il vostro amico non sarà disposto a fare per me un viaggio a Parigi, io faccio uso degli antispasmodici del signor Planch, e la sua menta e le gocce di Hoffmann occupano un gran posto in casa mia. Osservate, ecco le pastiglie che mi faccio fare espressamente; sono a dose doppia.”

Montecristo aprì la scatola di madreperla che gli porgeva la giovane sposa, ed odorò le pastiglie come un esperto in grado di apprezzare questi preparati.

“Esse sono squisite” disse, “ma bisogna deglutirle, e spesso ciò è impossibile a una persona svenuta. Preferisco il mio specifico.”

“Ma certamente; io pure lo preferirei, particolarmente dopo gli effetti veduti. Senza dubbio sarà un segreto, né sono tanto indiscreta da domandarlo…”

“Ma io sono abbastanza galante per offrirvelo.”

“Oh, signore.”

“Soltanto ricordatevi d’una cosa, che a piccola dose è un rimedio, ad alta dose è un veleno. Una goccia rende la vita, come avete visto, cinque o sei ammazzerebbero infallibilmente ed in modo terribile. Sciolte in un bicchier di vino non ne altererebbero minimamente il gusto… E qui taccio, perché sembrerebbe che avessi l’aria di consigliarvi…”

Le sei e mezzo erano suonate, fu annunziato un amico della signora Villefort che veniva a pranzo da lei.

“Se avessi l’onore di avervi già frequentato più volte e avessi così l’onore d’essere vostra amica, invece di avere soltanto la fortuna d’esservi obbligata, insisterei perché rimaneste a pranzo, e non mi lascerei abbattere da un primo rifiuto…”

“Mille grazie, signora” rispose Montecristo. “Ho un impegno al quale non posso mancare. Ho promesso di condurre a teatro una principessa greca mia amica, che non è ancora stata all’Opéra, e conta su di me per andarvi.”

“Andate dunque, ma non dimenticate la mia ricetta.”

“E come, signora? Per far ciò bisognerebbe dimenticare la conversazione che ho avuta con voi, il che è impossibile.”

Montecristo salutò e partì.

La signora Villefort rimase impensierita.

“Ecco un uomo strano” disse fra sé, “e che mi dà l’impressione di chiamarsi Adelmonte per nome di battesimo.”

In quanto a Montecristo il risultato aveva superato la sua aspettativa.

“Andiamo” si disse partendo, “ecco una buona terra; sono convinto che il seme che vi si lascia cadere non abortisce.”

Il giorno dopo, fedele alla sua promessa, inviò la ricetta.

alexandre dumas père, il conte di montecristo

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