Fandom: free!
Titolo: shark in a love landslide -
Rating: PG13
Conto Parole: 3688 con Office.
Personaggi: Rin Matsuoka, Makoto Tachibana.
Pairings: makorin.
Avvertimenti: shounen-ai.
Note: dunque. Non credo di aver un granché da dire. Scritta per la
Notte bianca di free, è una cosina chu estremamente fuori dai miei soliti schemi di angst forte, ma nonostante tutto ne sono pretty soddisfatta. Ah, cosa non si fa per le precious otp.
S H A R K
IN A LOVE
LANDSLIDE -
standing on the world outside
caught up in a love landslide
stuck still, colour blind
hoping for a black and white
Parole.
Parlano tutti, lì.
Parole vuote, parole confuse, parole smezzate, parole urlate, parole e risate. Parole da bere, in cui affogare. Ognuno sceglie e fa sua una varietà di parole; ognuna di quelle arriva ronzante alle sue orecchie. Parole. Sono infinite e fastidiose.
Sono troppe.
Rin è venuto qui per non sentirle più, queste parole, eppure sembrano impregnare ogni molecola d'aria del bar. Ma, bisogna precisare, adesso, non è che sia più in grado di comprenderli proprio tutti, quei grumi di lettere e idiozie, dopo quegli ultimi sedici - o forse otto?, tutto sembra doppio, o metà, non distingue più, e non che gli interessi - bicchieri di un qualche alcolico di cui momentaneamente gli sfugge il nome.
Il braccio appoggiato sul bancone e la testa mollemente abbandonatavi sopra, lascia che un dito accarezzi il bordo del bicchiere semivuoto più vicino a lui: ha una minuscola scalfitura, ad un certo punto, ed è così penoso sentire il polpastrello che incontra quella piccola scheggia mancante. Fastidioso. Anche quello.
Rin sospira, il dito che pure si arrende e precipita dal vertice di vetro sin a sfiorare il liquido scuro. I bicchiere continua ad essere rotto, le persone a parlare. Ma non si stancano, tutti quanti? Vanno avanti da un tempo incessabile, sicuramente, per quanto lui sia lì da non più di tre quarti d'ora e non l'abbia sentito con le sue orecchie: lo sa, e basta. Come sapeva perfettamente che sarebbe accaduto. Che lui l'avrebbe lasciato. Che gli avrebbe detto "non siamo gli stessi di quando ci siamo messi insieme", che gli avrebbe fatto un mezzo sorriso aspro, che avrebbe abbassato gli occhi. Era stato capace persino di indovinare il modo in cui lui avrebbe arricciato il labbro superiore prima di mormorargli "e io non ti amo più"; parole, parole, ha odiato quelle e ora le detesta tutte. Rin, in quel momento, non ha detto niente. L'ha soltanto guardato, un guizzo di dolore negli occhi scarlatti e in fondo al petto, ed è andato via, senza aspettare un istante. Perché, se sapeva che sarebbe successo, è perché lo conosceva e l'amava ancora; e non poteva certo convincere lui a tornare a volerlo. Parole inutili, non loro l'avrebbero potuto salvare, non quand'erano state proprio quelle a condannarlo.
Un soffio caldo ancora scivola via dalla bocca di Rin. Forse il brusio sta scemando pian piano, o forse è lui che sta pian piano perdendo contatto con la realtà. Ma che importa? Assolutamente nulla. Tutto è vuoto e niente conta, ora che non ha nemmeno una casa a cui tornare. La sua l'ha persa poche ore prima, prima di iniziare quel peregrinaggio per tutti i bar di Tokyo - o, se non altro, i primi che ha trovato.
E' solo.
In un qualunque momento avrebbe cercato Sousuke, ma questa sera è di turno alla centrale, e a Rin proprio non va di spiegare niente, di chiedere aiuto, compagnia o qualsiasi altra cosa. Parlare, lasciare che frasi vuote gli escano dalle labbra e altre gli feriscano le orecchie: non potrebbe sopportare niente di tutto questo. Non ora. Proprio adesso, probabilmente, è molto meglio la solitudine. Almeno non deve contenere la sua voglia di abbandonarsi al bruciore dell'alcool nella sua gola, che lo stordisce e lo rinfranca ad ogni sorso che beve. Gli sembra quasi di potersi lasciare tutto alle spalle, dimenticare, o anche fingere che nulla di tutto quello sia mai accaduto - eppure finito il drink quel tarlo martellante torna a divorargli le tempie con un'acuta violenza.
Lui l'ha davvero fatto. Dopo cinque anni, davvero l'ha cacciato.
Prevedibile quanto improvviso, più ci pensa più gli sale un senso di nausea lancinante. Ma ciò che Rin ha nello stomaco deve rimanerci, e per tenerlo giù non c'è niente di meglio che vuotare l'ennesimo bicchiere. Solleva il dito appena bagnato dal liquido, trascinandosi il vetro fino al viso. A quel punto solleva la testa quel tanto che gli basta per riuscire a ingoiare il cocktail fino all'ultima goccia.
<< Un altro. >>
Biascica al barista, mentre quegli gli scocca un'occhiata tra l'impietosito e l'irritato: probabilmente pensa a come dovrà buttarlo fuori dal bar quando sarà fuori combattimento. Ma non ce ne sarà bisogno. Si è così indicibilmente stancato di quel brusio, di quel bar, di quello sguardo penetrante - non vuole essere capito, compreso, compatito. Dio, l'ultima cosa che vuole è la pietà.
Ed è per questo che affonda le labbra in quell'ultimo bicchiere di assenzio mescolato a chi si ricorda poi cosa, e sbatte le banconote sul bancone, decisamente con più impeto di quanto intenda. Fa per alzarsi di scatto, ma un capogiro lo costringe nuovamente seduto sullo sgabello. Rin digrigna i denti, scricchiolano gli uni contro gli altri con una dolora vibrazione che sembra ferirgli il cervello.
Sta perdendo il controllo.
Non può e non vuole permetterselo.
Non sarà per colpa sua che finirà a schiantarsi da qualche parte in quella schifosa città, incosciente, incapace di distinguere un letto da un marciapiede sporco.
Quando ritenta una seconda volta a mettersi in piedi, stavolta con più calma, finalmente riesce. Muove i primi passi verso l'uscita, un piede dopo l'altro e una certa fatica per imporlo al suo corpo; ma chiaramente il mondo, quella sera, deve essere intenzionato a dargli contro, perché, un attimo prima che possa oltrepassare l'uscita e inspirare l'aria gelida della notte, una ragazza gli si para davanti, mettendo a dura prova il suo precario equilibrio. E davvero non è che per ironia della sorte che, nel tentativo di rimanere eretto, poggia una mano sul petto di lei.
<< Ops. >>
Si ritrova a dire, senza troppa convinzione, una smorfia che si dipinge sul suo volto e il braccio che si ritrae con la feroce velocità di chi si è appena scottato.
Ma evidentemente non è rapido abbastanza, perché la ragazza adesso sta urlando e, per favore, che qualcuno la faccia smettere. Gli sembra che quel grido stia sfondando le pareti del suono e, senza dubbio, le pareti del suo condotto uditivo, lasciando i tipanti e qualsiasi altra cosa all'interno del suo cranio in polvere. Qualsiasi cosa stia dicendo, poi, per Rin non ha alcun senso. Non voleva toccarla prima, non vuole toccarla ora. Preferirebbe anzi che lei si levasse dai piedi, che lo lasciasse passare, che si tappasse quella bocca e andasse ad infastidire qualcun altro. Ma non lo fa, purtroppo.
Rin socchiude gli occhi, infinitamente stanco. Vorrebbe solo andarsene da lì, lasciare ogni stupido ricordo ad affogare in un abisso a lui estraneo, oppure avere qualcos'altro da bere, e che magari sia quello l'abisso in cui far naufragare tutto. Fa quasi per girarsi e tornare al bancone per un ultimissimo bicchiere, ma dinanzi a lui, stavolta, si pone il barista stesso, due pupille che lo fulminano. Rin aggrotta le sopraccigglia, stolidamente confuso. Cos'è che vuole? Si lancia un'occhiata attorno, nel tentativo di capire cosa si stia svolgendo - ma di rimando lo colpiscono altri sguardi attoniti, silenziosi. Come ha potuto non accorgersene? Il brusio si è interrotto da almeno un minuto, spento dalla voce di quella ragazza come una fiamma leggera da un temporale improvviso.
Fa appena in tempo a tornare a guardare in volto il barista, che questi lo afferra per il colletto della camicia e lo trascina fino alla porta; poi, con una forza che Rin mai gli avrebbe attribuito, lo sbatte fuori dal locale, mandandolo a finire a terra nel silenzio della notte.
Silenzio.
Silenzio.
E' terribile, si rende in un istante conto, come, dopo averlo desiderato tutta la serata, adesso che l'ha ottenuto non lo riesca a sopportare. Non ci sono più parole a riempire quegli spazi, quell'enorme vuoto che sente crescere dentro; non un rumore che lo distragga dal nulla con cui è rimasto. Solo la rabbia di aver perso non solo la casa e gli ultimi cinque anni della sua vita, ma anche quel poco di dignità che gli era rimasta.
Solo, in mezzo una strada, senza una meta.
E' in quel momento, la mente annebbiata dagli effluvi di una furia che non sapeva nemmeno di star maturando, che la sua mano accorre alla sua tasca, al telefono. Quel nichilismo di prima sembra essere evaporato quasi neve al sole - eppure la notte è così fredda - e ora tutto ciò che riesce a fare è avvicinarsi il telefono agli occhi - non ci vede più molto bene - e battere furiosamente i tasti - sbaglia la password almeno tre volte.
Quando poi scorre con i polpastrelli la rubrica, è con vera violenza che sceglie il destinatario del messaggio, subito prima di toccare il tasto di invio. Il bip di esecuzione è il suono della sua vittoria. Quelle parole che non è riuscito a dire quando ne aveva avuto l'occasione, quelle su cui ha rimuginato tutta la sera, quelle che si è tenuto stagnanti nel petto sperando di poterle gettare nel dimenticatoio; quelle ha digitato e lasciato che fluissero alla colui che aveva creduto di poterlo lasciare così, in quel modo.
Di chiudere quella parentesi di vita come se non fosse stato altro che un gioco di un momento.
Di privarlo di tutto in pochi istanti.
Rin sospira.
La vittoria di qualche secondo prima non sembra più una grande vittoria, ma forse più una notevole presa per il culo. Perché, alla fine, quello seduto in un vicolo squallido, con pochi yen in tasca e un telefono semiscarico era lui e nessun altro. Probabilmente, lui quel messaggio non l'avrebbe nemmeno letto, perché ormai le loro vite sono separate, e il numero di Rin probabilmente sarà già stato abbondantemente cancellato o bloccato.
Mentre i minuti sgocciolano via uno a uno, come una clessidra rotta anche Rin sente di star perdendo i grani di sé stesso; e della rabbia e della foga non resta più nulla, conclusa quell'altalena di umori gli rimane solo un enorme torpore. Ha solo voglia di chiudere gli occhi e riposare, di perdere contatto con tutto, di lasciar---
Un trillo. Un trillo e la sua mano corre al telefono, perché un sms a quell'ora non può essere che il suo, e se gli ha risposto è perché forse ci tiene ancora, perché ha cambiato idea; e ora a Rin non importa più molto del suo orgoglio, sarà rimasto probabilmente seduto al bar a crogiolarsi nell'alcol, perché il ragazzo non riesce a seppellire quella grande grandissima infinta voglia di tornare a casa, tra quelle braccia che ha stretto tante volte.
"Oh, senti, scusami, ma non credo di essere quello che cerchi. Forse hai sbagliato numero. Ma penso che dovresti andare dal tuo ragazzo e parlargli a quattr'occhi, magari? Mi dispiace per il fraintendimento. Per favore, non bere troppo. (: Makoto"
Il fremito che scuote Rin da capo a piedi, a quel punto, è dettato dall'impulso di lanciare il telefono via, lontano, dove non abbia possibilità di rimanere intatto, o di fargli ricevere messaggi tanto stupidi, odiosi. E quel Makoto che non ha idea di chi sia, ha davvero tanta voglia di mandarlo a farsi un giro in posti dove il "non bere troppo" possa ricevere la risposta che merita. Che accidenti ne vuole sapere, questo, di ciò che dovrebbe o non dovrebbe fare, da chi dovrebbe tornare, di ciò che dovrebbe dire e come. Non lo conosce, ma Rin lo odia, lo odia indicibilmente, e in quell'odio si sente prosciugarsi. Vorrebbe tanto alzarsi e andarlo a prendere a casa, ovunque possa mai abitare costui, chiedergli come si sia infilato nella sua rubrica al posto del nome del suo ex e poi sferrargli un pugno da lasciargli il ricordo più indelebile della sua maledetta esistenza - oh, se lo vorrebbe, ma le sue gambe paiono proprio non aver voglia di alzarsi, di muoversi. Riesce solo ad appoggiare la testa al palo accanto al quale sta seduto, a tremare di rabbia, e si rende conto di quanto anche i suoi occhi abbiano deciso di averne abbastanza di stare svegli, di vedere quello schifo che lo circonda.
Quello schifo a cui sembra essere inesorabilmente destinato.
Nel momento in cui le sue palpebre si chiudono, ne prende davvero coscienza.
Ha perso, alla fine, lui si è preso davvero tutto.
Persino la sua volontà.
*
Schiudere le palpebre non è mai stato così doloroso - la testa, tutto il suo corpo, niente gli è mai sembrato tanto pesante, tanto estraneo. Eppure quella luce lo sta torturando. Vuole solo girarsi e affondare il viso nel cuscino, eliminare dalla sua mente tutto ciò che non riguarda l'idea di lui e di un lungo, dolce, profondo oblio.
Ma ormai è giorno, il suo corpo proprio non ne vuole sapere di rispondere ai comandi e con quei raggi diretti esattamente sulle sue orbite socchiuse dormire non è che pura illusione.
Ha bisogno di un'aspirina, probabilmente. Gli pare di aver lasciato il pacco nuovo nel bagno.
Nel bagno.
Di casa.
Ora che ci pensa, come ci è tornato a casa?
Ammesso di esserci effettivamente, poi, tornato - l'odore di limone di quella federa, a farci ben caso, non è affatto quello del detersivo neutro che ha sempre usato. Rin salta a sedere, il dolore e lo stordimento della sbornia momentaneamente evaporati; l'urgenza della situazione con cui si è all'improvviso ritrovato a confrontarsi ha innescato in lui un picco di adrenalina che, di certo, non provava da tanto.
Si guarda attorno stupefatto, rendendosi conto di essere in una stanza che non crede di aver mai visto in vita sua. E' una camera da letto ampia, luminosa, dal mobilio chiaro e affatto eccessivo: solo il letto a due piazze dalle coperte verde prato dove si trova seduto, un comodino, una libreria, un'armadio e una poltroncina.
<< Ma che accidenti... >>
Mormora, incapace di cancellarsi dal viso l'espressione sconcertata che, dal momento in cui aveva recuperato lucidità, era stata protagonista indiscussa dei suoi tratti. Scivola fuori dalle coperte calde con una fatica più psicologica che effettiva: anche se in un posto sconosciuto e potenzialmente pericoloso, non può assolutamente fare a meno di pensare che, finché rimane all'interno di quelle morbide coltri, niente potrà in alcun modo sfiorarlo.
Ma è adulto, ormai (purtroppo), e come tale dovrebbe comportarsi.
E' con i primi passi che Rin si rende davvero conto di indossare un pigiama, e che quella piccola massa sulla poltrona non corrisponde ad altro che i suoi vestiti; si morde le labbra, mentre le fitte del mal di testa tornano ad avanzare baldanzose lungo tutta la sua fronte: che stupido, stupido, stupido idiota. Che deve mai aver combinato la notte prima? Si ricorda che stava scappando da lui - fitta al petto -, che era passato di bar in bar fino a perdere il conto, che era stato cacciato dall'ultimo, che si era accasciato a terra, sul marciapiede, e poi... più nulla. Black out.
Chiude nuovamente gli occhi, massaggiandosi per un attimo le tempie, prima di sfilarsi velocemente quella pigiama chiaramente troppo largo per lui e reindossare la sua camicia e il suo pantalone - per grazia del cielo, i boxer sono ancora al loro posto, e Rin non può fare a meno di sentirsi notevolmente sollevato dalla scoperta.
Esce dalla stanza chiusa con l'addome contratto, quasi agitato da ciò che potrebbe attenderlo; ma tutto ciò che trova è un salone, di gusto classico e dai colori chiari, e la sagoma di un ragazzo addormentato sul divano, gli occhiali ancora sul naso e un libro mollemento stretto in una mano.
Rin si avvicina per metterlo meglio a fuoco e riscopre in quei capelli castani, i tratti delicati e il fisico imponente una figura familiare, seppur non riesca a rendersi conto di chi si tratti in realtà. Adesso potrebbe allontanarsi in silenzio ed andarsene, e anzi sarebbe la soluzione più ragionevole, ma per un motivo che non sa spiegarsi rimane lì, fermo, ad osservare la linea del naso, delle guance, del mento dello sconosciuto, quasi ipnotizzato dalla delicatezza che questi assumono durante il sonno del loro proprietario. Preso dall'attenta indagine, non si accorge di starsi lentamente accostando al divano, e per primo sobbalza nel momento in cui, urtando il braccio sospeso oltre il divano, il ragazzo si sveglia di soprassalto, saltando a sedere.
<< Oh che co-, ah! >>
Esclama questi, subito, gli occhiali adesso leggermenti inclinati di lato e gli occhi di un verde intenso spalancati su Rin, che, dal canto suo, non può far a meno di inarcare le sopracciglia in una maniera ben poco naturale.
<< Tachibana?! >>
Prorompe di rimando mentre indietreggia di qualche passo, riconoscendolo fulmineamente quella sfumatura di iridi. Le ha viste almeno un centinaio di volte - in ascensore, all'entrata, sul pianerottolo.
Quel colore che ognuna di quelle volte l'ha meravigliato come se fosse la prima.
<< Matsuoka-kun, uh, buongiorno >>, gli fa l'altro, alzandosi, << Come ti senti? Spero che dopo ieri sera tu stia... meglio. >>
Il tono che ha usato, l'espressione che ha preso il suo viso e lo stesso modo con cui ha pronunciato quelle parole fanno sì che in Rin il sentimento di angoscia torni più forte di prima. Dio, spera solo di non aver combinato niente di male, non con il suo (ex?) vicino di casa, né è del tutto sicuro di voler sapere come diavolo sia giunto a casa sua.
Ma, di nuovo, certe cose, per i venticinque anni che ha, dovrebbe essere in grado di doverle affrontare.
<< Sto bene >>, taglia corto, leggermente irritato, le iridi purpuree che si assottigliano in un'espressione sempre più sospettosa << Ma riguardo a ieri sera... >>
Un po' deve ammettere che si vergogna a chiedere cosa sia successo, di ammettere di aver perduto totalmente il controllo. Di non avere la minima idea di cosa abbia fatto di sé stesso in quelle ultime ore.
Ma l'altro non pare cogliere la sua reticenza, forse ancora troppo sonnolento, e alla sua domanda implicita risponde con un'espressione interrogativa.
<< Ieri >>, riprende << cos'è successo, ieri, Tachibana? >>
Stavolta la richiesta pare andare a segno.
<< Oh, ieri. Non ricordi? >>, Tachibana accentua l'increspamento della fronte, << Beh, effettivamente eri svenuto. Allora. Diciamo che dopo il messaggio che mi hai inviato ieri, ho ricevuto una telefonata di una persona che diceva di averti trovato per strada e che voleva sapere se potevo venirti a prendere o doveva chiamare l'ospedale. Così eccoci qui. Mi sono preso la libertà di metterti a letto, sembravi talmente distrutto... >>
"Tachibana Makoto".
Rin lo guarda con espressione totalmente impenetrabile, mentre l'altro nel concludere il discorso si ritrova le guance colorate da un leggero rossore.
Ironico come si ritenga lui quello in dovere d'essere in imbarazzo, quando Rin non solo è stato in grado di farsi trovare svenuto, in uno stato a dir poco pietoso, e di averlo quasi aggredito il giorno dopo, ma soprattutto ha inviato a lui quel messaggio.
Quell'agglomerato di ridicole accuse, scuse e preghiere, il tutto condito da una sintassi da ubriaco sulla quale Rin davvero preferisce non soffermarsi.
Gli occorre qualche secondo prima di ritrovare quel tanto di dignità da permettersi di aprire bocca.
<< Tachibana, sono sinceramente... >>, fa una pausa, umiliato << mortificato per tutto ciò che ti ho- >>
<< No! Non scusarti. Non è stato un problema per me, tranquillo. Ho capito che eri in un brutto momento, mi è sembrato il minimo. >>, gli fa, un'istante prima di continuare << E chiamami pure Makoto. >>
In quel momento, Rin pensa di non essere ancora del tutto sobrio, perché, quando le sue labbra iniziano a muoversi nuovamente, non è assolutamente per sua consapevole decisione.
<< Rin. >>, ed è più un mormorio che una vera frase.<< Rin, allora. Ti va di fare colazione? E magari anche un'aspirina, che dici? >>
Ma il sorriso che Makoto gli regala in quello stesso istante, Rin è pronto a rimetterci entrambe le mani, è meglio di qualsiasi medicina, magia o miracolo possa mai utilizzare.
Che assurda, la vita.
Non avrebbe mai assolutamente immaginatodi vedere il sorriso del sole sul viso del suo vicino di casa.
are you gonna be mine?
my wave, my shark, my demon in the dark
the blue tide pulling me under
or are you my soul, my heart, pull everything apart?
are you gonna, are you gonna be my love?
standing on the world outside
i’m a shark in a love landslide