Dio della costanza dammi la forza di continuare questa ff a puntate.
L'idea di scrivere questa fanfiction mi è venuta dopo aver visto per l'ennesima volta Wild 7. Le vicende, però, non si concentreranno sui sette bricconcelli in motocicletta, ma su quelle di un misterioso ragazzo.
Mamma mia che suspance *rabbrividiamo*
Rabbrividiamo anche per l'icona fasulla che ho creato *scappa via piangendo*
TITOLO: Nameless
GENERE: Azione, Introspettivo, sentimentale, AU (Wild 7)
FANDOM: Kanjani8, Arashi e qualche senpai qua e là
PAIRING: AibaMaru
RATING: NC-17
DICLAIMERS: Kanjani, Arashi e i vecchiacci non sono di mia proprietà, ma sono sicura che il prossimo Natale troverò almeno un Maru o un Aiba sotto l'albero.. Questo sarà l'anno giusto!!
Il tempo era peggiorato appena era uscito dalla libreria. Nubi nere e dense di pioggia stavano minacciando il cielo. Cercò di aumentare il passo, ma le prime gocce incominciarono a picchiettargli la pelle. Tic toc tic toc sempre più veloci. Raggiunse il supermercato vicino a casa, comprò un piatto pronto e aspettò che la pioggia si attenuasse. Il cielo era sempre minaccioso, ma un forte vento stava portando via le nuvole. Alzò lo sguardo e un sorriso gli affiorò sul viso. Felicità. Era felice come non lo era stato mai. Il cuore gli batteva così forte che non seppe trattenere una risata e, con la busta della spesa tra le mani, uscì di corsa.
Aprì velocemente la porta di casa e vi si rifugiò dentro. Ancora grondante appoggiò la spesa sul tavolo e andò a cambiarsi. Si mise il pigiama pensante con i dinosauri, il suo preferito, prese un asciugamano e incominciò ad asciugarsi i capelli. Con la cena tra le mani si buttò sul divano e, con la coperta tirata su fino al petto, iniziò a mangiare. La pioggia continuava a cadere incessantemente, poteva sentirla sbattere dolcemente sulla finestra.
La sera era il momento più piacevole della giornata perché finalmente poteva dedicarsi a sé stesso: un libro o un telefilm, dipendeva dal suo stato d'animo, la cena e poi la cosa più importante, il premio per essere riuscito a cambiare vita e, soprattutto, per essere ancora vivo, cioè il dolcino prima di andare a dormire. In quel periodo era totalmente assuefatto dallo strudel della panetteria accanto alla libreria in cui lavorava. Il solo pensiero gli fece venir voglia di mangiarne una fettina, ma doveva essere piccina piccina pensò posando il piatto della cena sul tavolino.
Improvvisamente il telefono incominciò a squillare. Gli si mozzò il respiro e rimase in mezzo alla stanza a fissarlo. Nessuno aveva il suo numero di casa. Non poteva essere vero, non dopo tutto questo tempo. Tre anni per le persone come lui, erano un’eternità e chi abbandonava di solito non poteva tornare più indietro. Forse perché la maggior parte delle persone che mollava tutto per rifarsi una vita veniva uccisa poco dopo.. Si era sempre chiesto perché l’avessero lasciato libero e forse ora avrebbe scoperto la verità.
Sollevò con le mani tremanti la cornetta.
“KT ore 6:00 all'aeroporto. Troverai il biglietto nella buca delle lettere.” Riconobbe subito la voce. KT. Si accasciò a terra, le braccia attorno alle ginocchia. KT. Non riusciva a smettere di piangere. KT. KT. KT. Quel nome gli risuonava nella testa. Quel nome. Il suo nome. Lo odiava. Era il nome che si era dato quando era stato ammesso all'accademia e che aveva utilizzato durante le sue missioni. Ma perché ora? Perché lui? Per un attimo odiò suo padre. L’uomo che gli insegnò tutto, che lo plasmò a sua immagine e somiglianza, che lo vendette a loro come merce pregiata. La rabbia svanì poco dopo, quando realizzò che lui non c’era più e loro volevano lui. Il suo degno erede. Sconsolato si alzò e, asciugandosi le lacrime, andò in camera, prese il suo borsone e ci mise dentro lo stretto indispensabile. La partenza era inevitabile. Lui era il più bravo nel suo lavoro. Lui era perfetto. Lui era di loro proprietà.
Quella notte non riuscì a chiudere occhio, il solo pensiero di essere stato di nuovo arruolato gli faceva venire le lacrime agli occhi. In quei tre anni aveva cercato di cambiare il più possibile ed era stato davvero difficile. Lasciarsi andare alle proprie emozioni, fidarsi di qualcuno o anche solo sorridere sinceramente erano traguardi che non aveva ancora del tutto raggiunto e ora doveva buttare tutta all'aria.
Doveva tornare ad essere la persona che odiava.
Prese il borsone e lo appoggiò davanti alla porta d’ingresso, poi andò a buttare i rimasugli della cena e lavò le posate che aveva utilizzato. Cercava di asciugarsi le lacrime come poteva, ma le mani piene di sapone non aiutavano. Dopo aver finito si sedette sul divano e, tirando su con il naso, si disse “Basta piangere!” Non avrebbe più pianto e avrebbe portato a termine la missione nel minor tempo possibile. Si diresse verso la porta e varcò la soglia.
“Tornerò presto, casina.. Non ti dimenticare di me!” sentì le lacrime pungergli gli occhi, ma si trattenne. Chiuse la porta e infilò la chiave nella catenina che aveva al collo. Non riusciva più a contenere la sensazione fallimento, appoggiò la mano sulla porta e si lasciò andare ad un pianto sommesso.
☆☆☆
“Scusi, ha bisogno di qualcosa?” L’hostess lo stava guardando con aria preoccupata.
“Niente, grazie…” Doveva avere proprio una brutta cera pensò cercando di ricomporsi .
“Davvero. Sto bene così!” insistette guardandola negli occhi; tirò un sospiro di sollievo quando vide l’hostess alzare i tacchi e andarsene. Finalmente si poteva rilassare e godersi il viaggio; durante gli anni in cui aveva girato il mondo per lavoro aveva passato più tempo sugli aerei che nelle città in cui doveva operare, era l’unico luogo dove poteva veramente riposarsi: 10 o 13 ore di sonno sicure, cosa che non poteva fare normalmente.
Appoggiò la testa vicino al finestrino cercando di guardare fuori, ma era ancora buio e così preferì chiudere bruscamente la tendina. Frugò nella borsa e tirò fuori la busta, trovata nella buca delle lettere, in cui aveva trovato il biglietto aereo e i suoi nuovi documenti. Si sarebbe chiamato Kazama Masamune, 31 anni, insegnate, celibe. Sfilò il foglio che vi era all'interno. C’era scritto solo una parola. Tokyo. Non avrebbe voluto lasciare la sua nuova vita per andare in quel posto. Persino suo padre aveva avuto il coraggio di scappare da quella città, dov'era nato e vissuto per 30 anni. Suo padre. No. Non avrebbe pensato a lui in quel momento. Prese la mascherina, si coprì gli occhi e cercò di dormire.
“Mi scusi.. Ehm... Mi scusi!”
Masamune spostò la mascherina e, con la vista ancora annebbiata, vide il suo vicino di posto a pochi centimetri da lui che gli stava toccando la spalla con un dito. Istintivamente si ritrasse nel suo sedile.
“Ehm.. Volevo solo dirle che siamo arrivati.”
“Arrivati?”
“Siamo arrivati a Tokyo.” disse il ragazzo guardandolo in modo perplesso.
Ancora mezzo addormentato si guardò intorno. I passeggeri, in una fila ordinata, stavano avanzando verso l’uscita. Il cervello rincominciò a funzionare.
“Ah.. Be’… Ovvio! Tokyo! Yay!”
Ecco, forse aveva esagerato un pochino. Tutto quell'entusiasmo non era consono a KT. Doveva ritornare alle vecchie abitudini il prima possibile.
Aspettò per dieci minuti il suo borsone, poi, come un miraggio, lo vide. Stava per prenderlo quando un braccio da dietro si fece spazio e l’afferrò al posto suo. L’istinto gli stava urlano di reagire, ma questo avrebbe dato troppo nell'occhio e non poteva sbagliare, tutto dove essere controllato nei minimi dettagli. Si voltò di scatto e, a pochi centimetri da lui, un uomo alto e dai tratti marcati lo stava fissando.
“Mi scusi il mio borsone!” disse afferrando il manico.
L’uomo lo strattonò e per riflesso gli prese il colletto della giacca nera e lo tirò verso di sé.
Lo guardò dritto negli occhi “Questo borsone è mio!” sentiva le guance andare a fuoco. “POSALO!”
L’uomo appoggiò il bagaglio a terra e sempre con lo sguardo fisso negli occhi di Masamune disse “Ben arrivato a Tokyo signor KT. Sono Katori Shingo, il suo autista.”
Un sorriso smagliante si aprì su quel viso che fino a cinque secondi prima sembrava impenetrabile. “Prego, da questa parte!”