[ Titolo: Slaving Slaver]
[ Rating: Rosso ]
[ Genere: Introspettivo, Romantico, Triste ]
[ Capitolo 6/12 ]
[ Note: Lemon, Slash ]
[ Serie: Original ]
[ Link Efp:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=735614&i=1 ]
Non ero più riuscito a incontrare Dravko.
Passavo le mie notti disperatamente tra un locale all’altro, correndo dove sentivo che l’ambasciatore era andato, ma arrivando sempre troppo tardi.
Trovandolo sempre già con qualcun altro e costretto a osservarlo ridere e giocare con qualche bel ragazzo o qualche bell’uomo dallo sguardo malizioso.
E non potevo farci nulla, perché io avevo perso il mio momento.
Avevo avuto la mia occasione e l’avevo sprecata.
Non potevo che prendermela con me stesso.
Perché io e io soltanto avevo sbagliato, bruciandomi l’unica opportunità che avevo di fare buona impressione su Dravko, di portarmelo a letto, di condividere con lui qualcosa che poi sarebbe anche potuta maturare in qualcosa di serio.
Avrei voluto solo tornare indietro, ma non potevo e la colpa era solo mia.
La delusione era tanta, tantissima.
Ma c’era qualcosa di anche peggiore di tutta la delusione che covavo nel cuore ed era il fatto che tutto ciò che avevo dentro lo rigettavo nelle mie canzoni.
Le prove, nell’ultimo periodo, andavano sempre peggio.
La mia band era ormai rassegnata a vederci fallire, il mio manager quasi disperato.
Ed io non sapevo che fare.
Ero stato abituato ad avere ciò che volevo, eppure non ero riuscito ad avere Dravko.
Quella consapevolezza, la consapevolezza che fosse stata solo colpa mia, mi distruggeva e mi impediva di esprimermi attraverso la mia musica.
Mi stava paralizzando la vita e più me ne rendevo conto, più mi sentivo stupido per quella paralisi, più le canzoni uscivano distorte e vuote.
Ero al capolinea?
Sembrava proprio di si.
“Maledizione, Gabriel!” Mi urlò Nina, la mia batterista, gettandomi
addosso il cappellino con visiera nero che sempre teneva in testa quando suonava. “Così non va, ma non te ne rendi conto?”
Certo che me ne rendevo conto, certo!
Solo che non potevo farci nulla.
Quell’insofferenza, decisamente più forte di qualsiasi altra cosa provassi, mi impediva di scuotermi.
“Se non ti riprendi i prossimi concerti andranno malissimo e noi saremo finiti!”
Nina era sempre un po’ esagitata quando parlava di certe cose, ma non stava esagerando.
Non eccessivamente, almeno.
I live erano da sempre stati il nostro forte: al contrario di quei
cantanti o gruppi che spaccavano nei registrati e poi non davano nulla durante i concerti, i nostri erano a dir poco fenomenali!
E non per immodestia!
“Senti, lo so, Nina, lo so bene!” Cercai anche di dire qualcos’altro, ma poi non lo feci.
Che altro avrei dovuto dire?
Sì, lo sapevo.
Avevo una soluzione? No.
O, meglio, si: Dravko.
Ma lui non era interessato a me.
Non era interessato a nessuno, in effetti.
“Gabriel.” Mi chiamò il manager, entrando.
Nina quasi urlò.
Per scaramanzia, solo sua, il nostro manager non entrava mai mentre facevamo le prove.
“Che c’è?” Sbraitò.
Il manager sembrava molto a disagio e non seppi dire se fosse lo sguardo bruciante della mia batterista o altro a renderlo così.
“C’è… c’è una persona per Gabriel.” Rispose a voce bassa, sicuramente in soggezione.
“Fallo entrare.” Mi affrettai a dire prima che Nina rispondesse al posto mio, mandandolo via.
Non avevo voglia di fare prove, un fan era sicuramente ciò che di cui avevamo bisogno.
Il nostro manager sparì oltre la porta e la batterista mi guardò furente, battendo le bacchette l’una contro l’altra, nervosamente.
“Ma che cazzo dici? Dobbiamo provare!”
“Ma tanto non ci viene!” Ribattei, sperando di non dovermi subire qualche schiaffone.
La porta si aprì prima che potesse effettivamente colpirmi.
Alzai lo sguardo e mi sentii mancare.
Davanti a me, bellissimo e impeccabile nella sue vesti eleganti, c’era Dravko.
Persino Nina, voltandosi, perse ogni traccia di ira, rimanendo semplicemente sorpresa.
“Non lo sto sognando, vero?” Mi ritrovai a chiederle, stupidamente.
“No.” Mi rispose lei, in un soffio.
Schiarendomi la gola cercai di riprendere un contengo, ma come potevo?
C’era Dravko davanti a me!
L’uomo che desideravo!
Dravko!
“Dravko…” Mi costrinsi a mormorare, sebbene la mia gola fosse troppo chiusa su sé stessa per permettere effettivamente alla voce di uscire.
Scesi dal palchetto sul quale eravamo sistemati per le prove, avvicinandomi, senza sapere che dire.
Lui mi sorrideva, splendido, come se fosse del tutto normale la sua presenza lì, in quel momento.
Beh, non lo era!
Che cosa diamine ci faceva lì?
Perché mi aveva cercato?
Cosa voleva da me?
Avevo migliaia di domande che riecheggiavano e rimbombavano nella mia testa, ma, confuso e stranito, riuscii solo a chiedergli “Che ci fai qui?”
Lui rise, lievemente.
Una risata che definire cristallina era persino poco.
Una risata capace di farti sciogliere.
“Io ho pensato a quello che mi hai detto… sai, che siamo stati bene insieme.”
… si, ma non ci volevano quasi tre settimane a pensarci su.
“Sai, io… ho scopato con molte persone…”
Sì…? Perché sembrava una confessione? Lo sapevo già?
“Volevo dimenticare un… una persona.”
… ecco perché sembrava una confessione.
“Non capisco…”
No, in realtà avevo capito benissimo. Dravko mi aveva portato a letto perché il suo fidanzato -o qualunque cosa fosse- gli aveva dato buca.
La mia autostima cercava di impiccarsi.
Non volevo sentirglielo dire, quindi quando cerò di spiegarsi io glielo impedii, alzando una mano.
“Era un modo di dire.” Tagliai corto. “Cosa vuoi da me, ora? Sei solo venuto a confessarti?”
“No, anche a scusarmi.”
Ah, beh, allora…
“E a chiederti di cenare con me, stasera.”
Giusta-che?
Voleva… voleva uscire con me?
Davvero?
Davvero davvero?
“Perché?”
Non era un altro modo per dimenticare il suo fidanzato, vero?
Non lo era, vero?
“Perché siamo stati bene insieme e… non stavo bene con qualcuno da tanto tempo.”
Dovevo credergli?
Era sincero?
O cercava solo di illudermi per convincermi?
“Dove andiamo?” Mi ritrovai a chiedergli.
Lui si strinse nelle spalle. “Al Jayn?”
Il Jayn… il ristorante più costoso forse di tutta l’intera Inghilterra.
Voleva fare colpo e trattarmi come una regina o solo mostrarmi come un trofeo?
Dovevo accettare?
Dovevo credergli?
Quanto mi sarei fatto male?
Osservai il suo sorriso, mentre mi porgeva la mano chiara.
“Vieni?”
Era sincero?
Dovevo credergli?
Ma, soprattutto, mi importava?
Gli sorrisi, afferrando saldamente la sua mano.
“Certo.” Gli risposi.
No, mi risposi