[RPF] Il non-conte Conte e la Storia di un Grande Acquisto

Jan 12, 2012 00:15

Titolo: ll non-conte Conte e la Storia di un Grande Acquisto
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Conte, Marco Borriello(/Daniele De Rossi), l'Oracolo, Claudio Marchisio, Alex Del Piero, Gigi Buffon, Arturo Vidal, Andrea Pirlo
Rating: PG14
Conteggio Parole: 3600 (fidipu)
Avvertimenti: AU, mild crack, wtf, parodia (?), scemità, cazzate varie
Prompt: Favole/miti @ auverse. [tabella]
- Catastrofe @ Zodiaco!challenge di fiumidiparole.
- Qualcosa di insolito @ Kyalendario.
Note: NON SO COSA SIA QUESTA COSA CHE HO SCRITTO, MA L'HO SCRITTA CON AMORE. *ride*
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ Il non-conte Conte
e la Storia di un Grande Acquisto.

C’era una volta, nella brividevole Città delle Due Stelle, un signore chiamato Conte, che non era proprio un conte, quello era solo il suo nome; siccome, però, a differenza delle loro Due Stelle, gli abitanti della Città - o perlomeno, la maggior parte di loro - non erano esattamente brillanti, tutti gli davano del lei, e si erano rapidamente convinti di vivere in una contea.
Questo Conte - che conte non era, - trascorreva le sue giornate ad occuparsi della Squadra di Calcio della Città; avrebbe potuto fare il sindaco, gli diceva sempre sua madre, o il tassista, o il panettiere, o il conte, ma, dopo esser stato in gioventù egli stesso un Calciatore, aveva deciso di continuare a far quello. La brividevole Città delle Due Stelle, infatti, con la sua Squadra di Calcio, era uno dei maggiori centri di potere del lontano Paese di Serie A, e il giovane Conte - che conte non era, e neanche più tanto giovane, ad essere onesti, - adorava essere l’uomo di maggiore potere di uno dei maggiori centri di potere del Paese, perché questo lo rendeva uno degli uomini più potenti del Paese, e cosa c’è di più figo dell’essere uno degli uomini più potenti di un Paese bello e potente come il lontano Paese di Serie A? Probabilmente, solo essere José Mourinho.
Perciò, siccome Mourinho non poteva diventare, per via di dettagli tipo l’altezza e il colore degli occhi e l’accento e varie altre cose, Conte s’era fatto Allenatore della Squadra della Città delle Due Stelle - una roba niente male, in effetti, ma non che bastasse a far felice sua madre.
Il lontano Paese di Serie A, una penisola a forma di scarpino da Calcio seduta a tanto così dalla grande e prepotente nazione di Liga - il cui re, di nome Ligabue, era nato proprio in Serie A, ma nessuno lo sapeva, o meglio: tutti lo sapevano, ma facevano finta di niente, come per ogni cosa imbarazzante, - era, come tutti gli Stati di quel mondo a pentagoni ed esagoni, divisa in una quantità pressoché infinita di città-stato autonome, in perenne lotta tra di loro perché gli uomini, si sa, senza testosterone non ce la possono fare. All’inizio, il bisogno di violenza della popolazione lo saziavano enormi e sanguinose battaglie campali tra città e città, tra leghe di città, persino tra due fazioni differenti interne ad una stessa città, ad uno stesso condominio, continuamente. Un giorno, poi, le donne dell’intero Paese, stanche di dover ricucire le ferite dei loro mariti, e di ripulire il casino di budella e cadaveri che le guerre si lasciavano dietro, si misero d’accordo, e li lasciarono a stecchetto - di cibo e vestiti puliti e delle cose misteriose che succedono sotto le foglie dei cavoli, - per una settimana intera.
Fu così, allora, che venne inventato il Calcio, e ben presto lo sport si diffuse, dal Paese di Serie A, in tutte le regioni, pentagonali ed esagonali, di quel mondo.
Le guerre, quindi, ora le combattevano truppe scelte di undici uomini ciascuna, all’interno di un’arena col prato e due porte e un pallone che doveva finire dentro le porte. Semplice, eppure quantomai complicato, e ben presto le Squadre - così si chiamavano gli eserciti, adesso, - si erano dotate di un Allenatore, sostanzialmente un tizio che stava lì a urlare e farsi esplodere le vene del collo. Ed era questo che Conte faceva, lassù a Due Stelle, con le Zebre, e, da quando era arrivato lui, la Squadra della Città aveva cominciato a riemergere dalla spirale di prestazioni imbarazzanti in cui era sprofondata sotto il regno del suo predecessore.
(In verità, la Città di Due Stelle si chiamava così non solo per via delle due enormi lanterne che ogni sera venivano accese in cima alla torre più alta, in memoria dei venti e più trionfi ottenuti dalle Zebre da che era stato istituito il Campionato di Serie A; la città si chiamava così perché di squadre ne aveva due, e la minore, quella dei Tori, era pure la più benvoluta, tra i cittadini. Alle Zebre, però, che avevano un sacco di simpatizzanti in tutto il mondo e, si sa, questo genere di cose danno facilmente alla testa, piaceva dimenticarsi dei propri cugini granati, e molti bianconeri delle generazioni più giovani erano convinti di averglielo dato loro, il nome alla città. Di nuovo, non erano poi tanto brillanti, indipendentemente dalla provenienza.)
Ad ogni modo, nel centodecimo anno dalla fine delle Perenni Guerre, le Zebre stavano lavorando con tanto impegno e tanti buoni risultati che Conte decise di farsi un regalo; erano già alcune settimane - mesi, in verità, - che si coccolava l’idea di un paio di acquisti importanti per certi reparti mezzi in crisi della sua Squadra, e sotto Natale, giacché siamo tutti più buoni, finalmente si decise ad agire.
Molti e molti chilometri più giù delle Due Stelle, in quella Capitale piena di pietrazze vecchie e di edifici scarrupati che nessuno si sarebbe sognato mai di abbattere o di tenere al riparo dalle intemperie, viveva, o meglio, vivacchiava, un calciatore bellissimo, il più bello di tutti, un ragazzo pieno di talento e muscoli torniti e magliette scollate, che però nessuno voleva fare giocare. Il suo nome era Marco, ed era talmente bello e bravo che i suoi tifosi lo amavano come nessun altro aveva mai fatto, - o perlomeno così si credeva, - sebbene non vedesse il campo da mesi.
Conte desiderava portare Marco - che nella sua testa lui chiamava col cognome, Borriello, per darsi una parvenza di professionalità, - alla Città delle Due Stelle, perché Marco era bravissimo e bellissimo e chi è che non vorrebbe allenare un giocatore bellissimo e bravissimo? Beh, a parte l’Innominato, lo spagnolo che governava la Squadra della Capitale, si intende.
Insomma, Conte voleva così tanto vedere Borriello in bianconero che aveva cominciato a sognarselo persino la notte, bellissimo e bravissimo e tutto; sentiva di averne bisogno proprio fisicamente, e, per quando arrivò il Natale, Borriello era diventato praticamente un’ossessione.
Conte, una mattina, mise la Squadra ad allenarsi - cinquanta giri di corsa con i pesi alle caviglie, per cominciare, niente di stressante, - e, infilatosi il cappotto, salutò tutti e se ne andò a consultare il Grande Oracolo della Città.
Viveva in una splendida villa, l’Oracolo, da cui però non poteva uscire, così avevano ordinato le Superiori Autorità di Serie A, perché più volte, in passato, egli aveva utilizzato le sue conoscenze per perseguire fini vagamente meno che nobili. Era un po’ il cattivo della storia, l’Oracolo, ma il povero non-conte Conte non sapeva che altro fare, e così si fece accompagnare da due gendarmi nella stanza in cui, due volte a settimana e sotto il totale, attentissimo controllo delle Autorità, l’Oracolo concedeva udienza a chi fosse potente e disperato abbastanza da stargli simpatico.
Era un ometto con un gran naso, l’Oracolo, e un paio di occhialetti tondi; Conte aveva sentito parlare di lui, ma non l’aveva mai incontrato, e rimase sorpreso a vederlo così piccolo e infagottato in un pesante mantello col cappuccio che gli gettava lunghe ombre sul viso.
«Ah, signor Conte,» sorrise l’Oracolo, scoprendo due file di denti giallastri e sottili come artigli, e Conte avrebbe voluto fuggire a gambe levate, ma si costrinse a sederglisi di fronte, dall’altro lato di un un tavolino rotondo, un po’ troppo basso, su cui era poggiata una spessa coperta di velluto nero. «Quale catastrofe vi spinge a venire in visita da questo povero vecchio?»
Conte si agitò leggermente sulla seggiola, guardandosi discretamente alle spalle per assicurarsi che i soldati stessero ancora piantonando la porta, pronti a intervenire - l’Oracolo era incatenato e disarmato, ma con certi personaggi non si può mai sapere, davvero, - e che dall’ombra ammiccassero le lucine rosse di svariate dozzine di telecamere. Era tutto apposto, e il non-conte si rilassò un po’.
«Dovreste saperlo,» rispose, costringendosi a guardare dritto sotto il cappuccio che oscurava gli occhi dell’Oracolo. «O forse i vostri poteri non sono più efficaci come una volta?»
L’Oracolo sorrise di nuovo, con ancor più cattiveria, e Conte pensò che si sarebbe sognato quella smorfia spaventosa per tutto il resto della propria vita.
«Marco Borriello,» cantilenò l’Oracolo, la voce melliflua; al centro del tavolino si materializzò una sfera di cristallo, la cui superficie era strisciata da sottili venature che s’intersecavano a formare esagoni e pentagoni, come un pallone da Calcio. Conte cercò il trucco che l’aveva fatta apparire sul tavolo, ma non ne trovò nessuno. «Desideri ingaggiarlo, mio caro amico, non è così? E vuoi che l’Oracolo ti riveli la via per raggiungere il tuo obiettivo.»
«...è così,» mormorò Conte, a disagio. L’Oracolo ridacchiò, e poi, facendo tintinnare le grosse catene che gli pendevano dai polsi e andavano a conficcarsi nel pavimento dieci metri più indietro, sfiorò la sfera di cristallo, che si riempì subito di una nebbia opaca.
«Balon belin don balón balastro,» prese a mormorare, e, mentre Conte si guardava attorno, la stanza divenne più fredda, più scura. Nella sfera, la nebbia si mutò in spessi fiocchi di nuvole, e poi le nuvole diradarono, mentre l’Oracolo ripeteva la sua cupa filastrocca, e Conte vide il suo Borriello ridere su un campo da calcio.
«Che cosa significa?» chiese, sporgendosi sul tavolino per guardare meglio. «È il presente che mi state mostrando, o il futuro?»
«Fa’ silenzio, sciocco,» lo zittì l’Oracolo, astioso. «Qui comando io, e quindi parlo io. Quello che vedi,» e accennò alla distesa di verde che ora la sfera mostrava, un campo da calcio, su cui correva una schiera di giocatori di cui Conte non riusciva ad intuire i colori. «Può essere presente, passato e futuro insieme; ogni cosa, mio caro ragazzo, può essere qualsiasi altra cosa, a seconda di ciò che desideri.»
Conte, sebbene lusingato per essere stato chiamato ragazzo, corrugò le sopracciglia.
«Non ha il minimo senso, quello che avete detto,» osservò. L’Oracolo gli lanciò un’occhiataccia - lo avrebbe incenerito, in altri tempi, ma ora le Autorità tenevano i suoi più mortali poteri sottochiave e gli restava a malapena la forza sufficiente a scaldarsi un caffè una volta ogni tanto.
«Verrà, Borriello,» sbuffò, allora, perché il suo ospite non sembrava gradire i mezzi termini fumosi. «Verrà qui; se lo chiederai, te lo concederanno. Ma non sarà mai tuo, né davvero una Zebra, osserva,» e indicò la sfera, che ora mostrava Borriello premere le fronte contro quella di un giocatore terribilmente biondo, «il suo cuore appartiene ad un altro.»
Conte diede uno sbuffo.
«Non m’importa del suo cuore, ma dei suoi piedi,» disse; e di altre cose di lui, magari, ma non era necessario che l’Oracolo lo sapesse. Si tirò in piedi, dunque, e fece per andarsene, tutto sommato soddisfatto.
«Aspetta, sciocco!» lo fermò l’Oracolo, in tono urgente. «Ho detto che verrà qui, e che non sarà tuo, ma non è tutto!»
E l’avrebbe avvertito della Maledizione che gravava sul povero Marco, ma Conte, tutto felice per la predizione di prima, non lo stava più ascoltando - anzi, stava già chiamando tutti i suoi burocrati di fiducia per spedirli il più presto possibile giù dai Lupi.

*

I cittadini della Capitale, appena si diffuse la notizia che l’Innominato aveva ceduto il loro inutilizzato idolo senza batter ciglio, rimasero a lutto per giorni, e una affollata, lenta e affettuosissima processione accompagnò, per un lunghissimo tratto, la sua carrozza. Daniele, che ci si era imboscato di soppiatto perché voleva salutare Marco una volta di più, poté venir fuori solo quando ormai già erano in aperta campagna, e fu costretto a farsela a piedi fino alle mura serviane, poveraccio.

*

Prima ancora di vederlo in faccia, a Marco Borriello i tifosi bianconeri lo chiamarono Mercenario, che non è un gran complimento, e gli diedero la sovrintendenza del poco ameno quartiere di Senza Onore E Dignità; a Marco, onestamente, non dispiacque più di tanto, perché ci aveva abitato un tizio di nome Ibra, lì, prima di lui, e di Ibra il Campionato era sempre stato molto innamorato.
Conte, invece, non era né conte né contento.
Si era impegnato così tanto per portar su Marco, che era veramente troppo bello e troppo bravo, andiamo, e invece di buttarsi in strada a festeggiare il popolo gli si rivoltava contro. Avrebbe davvero voluto fare una strage, Conte, ma si tenne buono; difese il suo acquisto, se lo guardò perbene, - proprio davvero tanto bello, accidenti, - e non spaccò la faccia a nessuno, perché è questo che fanno i buoni, nelle favole: si tengono tutto dentro, e sopportano stoicamente, finché non arriva il momento opportuno e solo allora si vendicano, e in un modo talmente scaltro e nobile che a tutti sembra che abbiano fatto un grande atto di coraggio e purezza d’animo e altruismo.
Conte magari non era un principe azzurro, e neppure un conte, ma era buono, e, soprattutto, non ci teneva a finire in catene come l’Oracolo.
Per cui, piazzò Marco in Squadra e, oh, era semplicemente una gioia guardarlo correre su e giù, potergli dire ‘vai a destra’ e vederlo andare a destra, chiedergli di fare un affondo e vederlo farne due, per buona misura. Conte era contecontecontecontento, davvero.
Poi venne la prima partita, e La Maledizione si mangiò il nome di Marco dalla lista dei titolari, sostituendolo con quello di Mirko; le Zebre persero due a uno, per la prima volta dall’inizio dell’anno, e Conte andò a letto frustrato, incazzato, con l’alluce gonfio e dolorante perché aveva tirato un incauto calcio ad una parete.
La mattina dopo, quando si tirò a sedere sul letto, il suo primo pensiero fu, ma perché cazzo non ho fatto giocare Borriello?
Non seppe darsi una risposta, e neppure la volta successiva, e neanche quella dopo ancora.

*

Marco s’allenava ogni giorno come se la fine del mondo incombesse sull’orizzonte; non aveva ancora giocato, ma non si lamentava, perché non voleva creare problemi. La Squadra gli voleva bene, i tifosi si erano annoiati e avevano smesso di insultarlo dopo quella prima provocazione a cui lui aveva risposto con un sorriso educato - Marco non lo sapeva, ma molti duestellani s’erano un po’ innamorati di quel sorriso, anche se rifiutavano di ammetterlo, - e, insomma, a parte dettagli insignificanti tipo il fatto di essersi ormai diplomato scaldapanchine e l’insostenibile nostalgia della Capitale (e di Daniele) che lo tormentava, era tutto perfetto.
Conte non era della stessa opinione, e quanto più continuava ad escludere Marco dalle partite, tanto più incontrollabilmente gonfia diventava la vena sulla sua tempia destra; non riusciva a capire perché, ma non appena si trattava di schierare la Squadra o di fare una sostituzione, era come se Marco non esistesse più. Aveva chiesto all’intero suo staff di ricordarglielo, sì, si era abbassato a tanto, ma per qualche ragione anche loro sembravano colpiti dalla stessa amnesia selettiva, che poi svaniva, ancor più misteriosamente, la mattina successiva all’incontro.
La situazione stava cominciando a diventare imbarazzante, e il povero Conte proprio non sapeva più cosa dire ai Giocatori che venivano a domandargli spiegazioni - non Marco, mai, neppure una volta, ma tutti gli altri sì, uno più preoccupato dell’altro, e che tenerezza gli facevano!, - per cui, un bel giorno, sospirò e chiese a tutti di seguirlo nello spogliatoio.
«Ragazzi,» esordì, triste, anche se alcuni dei suoi uomini non erano più ragazzi da un pezzo. «Vi sarete accorti che sta succedendo qualcosa d’insolito.»
«A dir poco,» intervenne Arturo, uno di quelli che aveva lasciato il cervello sotto il cavolo dove l’avevano trovato i suoi genitori. «Gigi non ha ancora fatto merenda.»
Conte scosse la testa.
«Non è a quello che mi riferisco, Arturo,» disse. «E comunque, guarda, sta mangiando proprio ora,» e indicò Gigi, che, nascosto dietro un borsone, sperava di passare inosservato mentre faceva fuori la sua terza tazza di latte e cereali della giornata. Aveva imparato ad essere molto discreto, in realtà, ma era il rumore dello sgranocchiamento che lo tradiva sempre. «No, sto parlando del fatto che, non importa quanto duramente ci provi, non riesco a farti giocare, Marco.»
Tutti gli occhi presenti nella stanza, tranne quelli di Marco, si puntarono, allora, su Marco.
«Mister?» chiese lui, un po’ incerto.
«Che vuol dire che non ci riesci, Antonio?» chiese Alex, il Capitano, il Re, l’unico, nell’universo mondo, che avesse il diritto e il coraggio di chiamare Conte per nome - e se l’era dovuto inventare, quel nome, l’aveva scelto lui, perché anche la madre di Conte l’aveva sempre chiamato Conte. «Stai scherzando?»
Conte, di nuovo, scosse la testa, affranto, e si tirò fuori dalle tasche tutte le liste dei titolari delle ultime quattro partite - stropicciate, strappate agli angoli, ma comunque leggibili.
«No, guardate,» disse, pigiandole nelle mani dei suoi ragazzi. «Marco, ti ho messo tra i primi undici ogni volta. E poi, come arriviamo allo stadio, il tuo nome scompare, e io neanche ti vedo, e neanche il mio staff, ed è imbarazzante, ma non so cosa fare.»
La Squadra mormorò, si consultò, lucidò scarpini e discusse sottovoce. Infine, levarono tutti la testa come un sol uomo.
«L’Oracolo saprà cosa fare,» disse Andrea, e i suoi magnifici capelli rilucevano contrita saggezza.

*

A nessuno, onestamente, piaceva consultare l’Oracolo. Conte era andato da lui per disperazione e per disperazione, ora, vi stava tornando, e non era affatto felice; certo, gli dava un po’ di conforto essersi portato dietro Claudio e Alex e Gigi e Andrea e Arturo - no, Arturo non gli dava conforto, - ma, in ogni caso, avrebbe preferito restarsene a casa.
Andrea, tuttavia, aveva ragione - ovviamente; non c’era altra soluzione che non rivolgersi alla superiore, incatenata Conoscenza dell’Oracolo.
«Questo posto non mi piace,» mormorò Claudio, a disagio tra i soffitti troppo alti della villa dell’Oracolo, e forse per via delle guardie armate che camminavano loro accanto.
«Non c’era bisogno che veniste tutti quanti,» disse Marco, allora, per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta tutti gli sorrisero, indulgenti - tranne Claudio, perché Claudio non sorrideva proprio a nessuno, e sicuramente non a Marco.
«Sì che ce n’era bisogno, invece. Sei uno di noi, ora,» disse Alex, battendogli una pacca tra le spalle; era la milleventitreesima volta che glielo diceva, quel giorno, ma Marco faceva ancora fatica a ricordarselo.
L’Oracolo li accolse nella solita stanza cupa, con le solite catene, il solito tavolino, le solite telecamere appollaiate nell’ombra, e sedie per tutti. Conte gli si accomodò di fronte, Alex alla sua destra e Marco alla sua sinistra; l’allenatore ebbe, per un fugace momento, l’impressione che l’Oracolo fosse meno minuto di come lo ricordava, ma si diede dello sciocco, forse aveva solo cambiato mantello.
«Zebre, zebrine, zebrucce,» ridacchiò l’Oracolo, facendo tintinnare le catene. «Mio buon Conte, mi hai portato la Squadra al completo, stavolta.»
«Sai già cos’è che vogliamo sapere,» disse Conte, brusco, perché voleva portare i suoi ragazzi via da lì al più presto. «Taglia corto e spiegaci cosa sta succedendo.»
«Uff, sei proprio noioso,» brontolò l’Oracolo; nondimeno, fece saltar fuori dal nulla la sfera di cristallo, e si mise a mormorare una nenia incomprensibile.
«Sta avendo un collasso?» domandò Gigi, in un soffio, affacciandosi da sopra la spalla di Conte, che lo zittì malamente, spingendolo via.
«Comportati bene, che se non funziona va a finire che dobbiamo tornare,» gli sibilò; Gigi subito si risedette composto.
«Veeeeedooooo,» disse l’Oracolo, allora, mentre nella sfera di cristallo si avvicendavano nubi di fumo colorato. «Vedo una Maledizione che incombe sulla testa del giovane Marco Borriello!»
«Una maledizione?» ripeté Arturo, e l’Oracolo fece un verso quasi offeso.
«Non una maledizione, citrullo, una Maledizione.»
«Aaah,» soffiò Arturo, sgranando gli occhi. «Ma perché non l’ha detto subito?»
«Lo ignori, per favore,» s’intromise Alex, la voce tesa di preoccupazione. «La prego, ci dica di che maled-- Maledizione si tratta, e come possiamo romperla.»
«Veeeeedooooo,» si lamentò ancora l’Oracolo, ispirato. «Vedo un Calciatore. Un Calciatoooore di nome Marco Borriello,» lo sbuffo poco impressionato di Gigi si strozzò in un singulto quando Claudio lo prese a gomitate nel fianco, «Grazie. Dicevo. Marco Borriello. E veeeeedooooo... vedo una bottiglia, una birra. Con una fetta di limone. È stata lei a maledirlo, oh, sì, lo vedo chiaramente...
Nel dubbio e nelle tenebre in panchina resterai,
e macerando nell’inedia ti consumerai,
svanita ogni speme, lacero è il cuore:
t’attenda la rovina, la ruggine; e l’odio di ogni allenatore!»
L’Oracolo tacque, e un silenzio attonito calò nella stanza.
«Cioè,» disse Arturo, infine, grattandosi una guancia. «L’ha maledetto una birra?»
«Una birr-- oh, santo cielo bianconero,» l’Oracolo sbuffò, esasperato. «Conte, ragazzo mio, ma dove li trovi certi elementi? È una metafora, stolto, potrebbe significare qualsiasi cosa - un nemico mortale a cui piace quella birra, una persona cui Marco ha rovesciato addosso una birra, un--»
«O il nuovo fidanzato della mia ex,» disse Marco, quietamente, e l’Oracolo si zittì di colpo.
«Come hai detto, ragazzo?»
«Il nuovo fidanzato della mia ex,» ripeté lui, mordendosi le labbra. «Fabrizio Corona. La birra che ha descritto... e poi, conoscendolo, non mi stupirei se fosse stato lui davvero.»
«Mi pare plausibile,» convenne l’Oracolo, annuendo lentamente sotto il suo enorme cappuccio.
«D’accordo, magnifico, sappiamo chi è stato,» brontolò Conte, per niente entusiasta. «E adesso? Facciamo rapire questo birraio e lo interroghiamo finché non ci dice come spezzare la Maledizione?»
«Oh, non essere sciocco anche tu, ora,» lo riprese l’Oracolo. «Non ci sarà bisogno di simili trivialità, esiste un modo semplice e infallibile per liberarsi di qualunque influsso malefico.»
«Che sarebbe?»
L’Oracolo fece quel suo sorriso inquietante e giallastro, e gli otto presenti - più le due guardie, - trasalirono tutti assieme.
«Il bacio di un principe, ma naturalmente.»
Fu così che Marco si ritrovò a farsi baciare da Claudio, l’unico Principino che avessero sottomano, e poi, tanto per star sicuri, anche da Alex, che era il Re - ma non nel senso che era il padre di Claudio, - e, alla fine, si baciò pure Conte, sebbene non fosse davvero un conte, perché non si può mai stare proprio sicuri sicuri.
Alla partita successiva, con somma gioia dell’Oracolo, che di fede Calcistica ne aveva una e centomila, Conte si ricordò di mettere Marco in campo, e da quel momento le Zebre vissero per sempre felici e contente e piene di titoli (nobiliari).

A/N.
- IDKKKKK IDKKKKKKK *ride*
- La ~*profezia*~ che fa l’Oracolo/Moggi è ricalcata sulla lirica che recita Éomer dopo la morte di Théoden: Nel dubbio e nelle tenebre verso il giorno galoppai / e cantando al sole la spada sguainai, / svanita ogni speme, lacero è il cuore: / ci attenda la collera, la rovina e il notturno bagliore! *ridepiange*

» challenge: zodiaco, » challenge: kyalendario, } 2012, rpf calcio: antonio conte, rpf calcio: marco borriello, › ita, rpf calcio, » challenge: auverse

Previous post Next post
Up