Parte prima Con la fine della guerra a Harry parve di rinascere. Certo, i primi giorni furono frenetici, l’intero mondo magico era intento a risollevarsi dalla cappa di oppressione sotto la quale si era dovuto piegare e lui era, volente o nolente, colui che aveva sconfitto Voldemort e di conseguenza salvato tutti per la seconda volta; però la notte dormiva in un letto comodo, mangiava abbondantemente e al suo fianco c’erano di nuovo tutti i suoi amici, e Ginny. Soprattutto Ginny.
Hogwarts chiuse con largo anticipo e l’anno scolastico fu dichiarato per forza di cose - e con grande sollievo di Hermione, sotto sotto - nullo. C’erano molte faccende da chiarire, persone da rimpiazzare, posizioni vacanti da riempire. Harry seguì ogni cosa da vicino, compiacendosi del trionfo che la giustizia finalmente stava riscuotendo. Kingsley, Ministro provvisorio, divenne Ministro della Magia in piena regola dopo una votazione formale, conclusasi all’unanimità. L’intera direzione della Gazzetta del Profeta cambiò, come pure gran parte dei responsabili dei Dipartimenti al Ministero. Entrò in azione una macchina legale che non veniva movimentata in così larga scala da diciassette anni, dalla prima caduta di Voldemort. Mano a mano che i Mangiamorte, i sospetti tali e i sostenitori silenziosi del regime di Voldemort venivano individuati e arrestati, i processi iniziarono a susseguirsi con regolarità. Questa volta, però, non si fecero sconti e non si lasciò niente di impunito. Ogni evento, ogni azione fu soppesata, indagata e giudicata secondo leggi inflessibili, ma giuste; ognuno dovette pagare per la propria parte, com’era corretto. La macchina legale doveva essere esemplare, il primo specchio della nuova condotta integerrima del Ministero. Il comportamento del neoministro Kingsley Shacklebolt era la seconda immagine del nuovo governo. Harry era fiero di poter dire che Kingsley era un membro dell’Ordine, un Auror, un uomo d’azione e soprattutto un suo amico.
Per sua natura Harry non era un politico, quindi non si tuffò con troppa foga nel delirio di scartoffie che i processi inevitabilmente avevano sollevato. Piuttosto seguì da vicino le indagini e gli arresti, e per da vicino, per una volta, si intendeva proprio dall’interno. Probabilmente non avrebbe dimenticato mai il momento in cui Kingsley l’aveva portato con sé al Ministero, convocandolo nel suo ufficio, e lì gli aveva fatto la proposta: entrare a far parte degli Auror subito, o non appena si sarebbe ripreso dalla fatica della guerra, diventando così il suo braccio destro all’interno del Dipartimento e una fonte di sicurezza in più per tutto il popolo magico. Harry non si sarebbe mai aspettato di ricevere un invito simile e si trovò sinceramente spiazzato. Kingsley l’osservò vacillare leggermente, poi scoppiò a ridere.
“Non mi devi mica rispondere subito,” gli disse per tranquillizzarlo. “Prenditi tutto il tempo che vuoi. Intanto, però, se vorrai, disporrò che tu possa prendere parte attivamente alle operazioni di pulizia e ristrutturazione del Ministero.”
Pulizia e ristrutturazione era una definizione piuttosto ridicola, e Harry rise, accettando con entusiasmo; tuttavia si rese presto conto che le parole rendevano pienamente l’idea. Kingsley lo portò al Dipartimento Auror e lo presentò ai suo collaboratori più fidati. Tutti parvero estasiati all’idea di conoscerlo e averlo tra loro e gli illustrarono ogni lato del loro lavoro nei minimi particolari, cosicché potesse intervenire secondo le procedure standard. Fu un’esperienza a dir poco elettrizzante per Harry. Aveva sognato di diventare un Auror per anni e ora ritrovarsi tra loro, pienamente riconosciuto e stimato come un collega, lo gonfiava di un orgoglio che nemmeno sconfiggere Voldemort gli aveva regalato.
Tuttavia, col passare delle settimane, si rese conto anche della propria inesperienza. Era incredibile, visto ciò che aveva passato, ma se dal lato pratico poteva vantare più esperienza di metà dei colleghi più anziani e il suo istinto si rivelava sempre infallibile, Harry non poté che constatare la disparità di preparazione magica che intercorreva tra lui e i compagni appena usciti dall’Accademia. Aveva imparato alcuni incantesimi di protezione durante la lunga latitanza per i boschi, ma non sembravano che una minima parte delle abilità che avrebbe dovuto possedere per far parte a tutti gli effetti del corpo specializzato degli Auror. Dentro di lui, lentamente, andò formandosi la coscienza della disparità tra il suo livello di conoscenze e quello di coloro con cui avrebbe dovuto collaborare, e all’entusiasmo per il lavoro si affiancò un nuovo desiderio di migliorarsi. Per la prima volta in vita sua Harry si sentiva attratto dall’idea di prendere la vita con calma e, cosa ancora più strana, terminare i suoi studi. Questo avrebbe senza dubbio significato rinunciare alla proposta di Shacklebolt e avrebbe richiesto tempo, ma dopo tanto affannarsi credeva di poter sacrificare ancora un anno o due della propria giovinezza.
“Voglio tornare a scuola,” annunciò quindi al Ministro un pomeriggio di luglio, concluso il proprio turno.
Kingsley lo fissò a lungo, serio.
“Qualcuno ti ha detto qualcosa, o ti ha fatto sentire a disagio?”
“No. Solo…penso che sarebbe più giusto così. Ho bisogno di affinare ancora un po’ la bacchetta prima di entrare in azione a tempo pieno. E poi credo farebbe bene anche a me prendermi un annetto di pausa.”
Kingsley annuì.
“Se è ciò che vuoi…” disse. “Allora ascolta: torna a Hogwarts e frequenta il settimo anno coi tuoi compagni. L’anno prossimo, quando sarà ora di entrare in Accademia, vedrò di fare in modo che tu possa frequentare i corsi e partecipare attivamente al contempo.” La sua risata profonda fece sorridere Harry. “Forse è vero che non hai lo stesso livello di preparazione dei ragazzi usciti dall’Accademia, ma non puoi nemmeno venirmi a dire che sei alla pari con uno studentello inesperto…”
Rimasero d’accordo che Harry avrebbe continuato a collaborare con le forze degli Auror fino a che la scuola non avesse riaperto i battenti e Harry visse quelle ultime settimane con una leggerezza simile alla spensieratezza, godendosi la libertà e traendo il massimo dall’esperienza che gli era stata offerta.
Naturalmente tutto il mondo magico si aspettava che Harry Potter, il grande Harry Potter, prendesse parte attiva nei festeggiamenti e nella ricostruzione. Harry, però, se da una parte aveva accettato di aiutare Kingsley a rimettere in sesto il Ministero con entusiasmo, desiderava ciononostante sfuggire alla popolarità del suo nome, ora che aveva compiuto il suo destino. Voleva vivere la propria vita in pace, dopo aver atteso diciott’anni per averne una. Aveva sacrificato a tutti loro la sua infanzia e la sua adolescenza, era stato una leggenda per tutta la vita, e ora voleva diventare finalmente uno qualunque, con i propri spazi e la propria intimità. Per questo, lasciata Hogwarts tre giorni dopo la battaglia finale, si trasferì dai Weasley: la Tana era un posto caldo, familiare, sicuro, dove era certo di essere circondato dall’affetto di coloro che per primi gli avevano voluto bene e che mai gli avevano chiesto qualcosa in cambio, né l’avevano abbandonato in tutti quegli anni di lotta. Alla Tana non era mai solo e lì poteva stare sempre con Ron, che oltre ad essere il suo migliore amico era uno dei pochi ad aver vissuto intensamente quanto lui la guerra e a capire, di conseguenza, le cicatrici che questa gli aveva lasciato.
La famiglia Weasley, in verità, di cicatrici ne portava più d’una. Per un figlio tornato all’ovile, ce n’era un altro che i signori Weasley non avrebbero mai più riabbracciato. Fred, con la sua scomparsa, aveva lasciato un vuoto incolmabile, e la famiglia faticava a riprendersi dallo shock. Finita la guerra, combattuta la battaglia decisiva, i Weasley avevano accusato il colpo con un’intensità triplicata, e ne erano stati schiacciati. Fortunatamente erano tanti, aveva pensato Harry, che mai come allora aveva compreso la fondamentale importanza dell’avere una famiglia numerosa e unita, e, anche se ognuno aveva intrapreso il doloroso cammino verso la rielaborazione del lutto a modo proprio, nessuno di loro rimaneva mai veramente solo.
Inutile dire che George fosse colui che più era uscito devastato dalla guerra. Aveva perso sì un orecchio, ma soprattutto un fratello, e non uno qualunque: il suo gemello. Harry non aveva mai visto un dolore tanto struggente quanto quello di George. Invece di urlare e strepitare si era rinchiuso in una fissità inquietante. Mangiava a malapena, respirava persino a fatica, non parlava né si muoveva se non esortato, e Harry l’aveva osservato per ore, seduto in un angolo della sala o nella sua vecchia camera da letto, mentre piangeva in silenzio, senza emettere un gemito o un fiato, sbattendo appena gli occhi. Era una vista che lasciava distrutti, annichiliti. La signora Weasley, altrettanto sconvolta dal dolore, si era attaccata a quel figlio che le era rimasto con tutta la sua materna apprensione, ricoprendolo di attenzioni e affetto; tuttavia tutti i loro sforzi non sembravano sufficienti a strappare George dallo stato di shock in cui era sprofondato.
Il signor Weasley era impegnato nella ricostruzione del Ministero a tempo pieno e aveva voluto con sé Percy, Bill aveva ormai una sua famiglia a cui badare e Charlie era dovuto presto rientrare in Romania, per non perdere il proprio posto di lavoro. Le sole forze della signora Weasley, così provata dalla perdita di Fred, non potevano bastare a mandare avanti la casa e prendersi cura di George, così Ron aveva iniziato a darle una mano, seguendo il fratello nelle mansioni più semplici del vivere quotidiano. Ciononostante, anche dopo più di un mese, le cose non sembravano essere minimamente migliorate.
Harry uscì da camera di Ginny per fare una capatina in bagno, ma trovò Ron fermo davanti alla porta, la schiena appoggiata sulla superficie di legno. Dall’interno giungeva lo scroscio della doccia.
“Ehi,” lo salutò l’amico, vedendolo. Si scostò dalla porta, sorridendogli e facendo un passo per andargli incontro.
“Ehi,” rispose Harry. Fece cenno con la testa in direzione del bagno. “Occupato?”
“Ho convinto George a farsi una doccia, ma dovrebbe aver quasi finito. Insomma, è chiuso là dentro da dieci minuti…”
Harry annuì, comprensivo.
“Sono un po’ preoccupato, sai?” disse poi Ron, abbassando il tono di voce a quello delle confidenze.
“Per cosa?”
Ron fece un cenno con la testa in direzione del bagno.
“Voglio dire… Sì, stiamo tutti male per quello che è successo e non mi aspetto mica che si riprenda così in fretta, ma mi pare che non stia facendo nessun progresso. È un mese e mezzo che va avanti trascinandosi da una stanza all’altra, senza parlare e senza mangiare. Mamma sta perdendo la testa a vederlo così e anch’io, sinceramente, non so più che fare. È imbarazzante dover costringere tuo fratello a farsi una doccia,” concluse in un bisbiglio.
Harry annuì, sospirando. Era ben cosciente del problema, ma proprio come Ron non avrebbe saputo trovare una soluzione o un buon consiglio da elargire.
“Credo solo sia una questione di…” iniziò, e Ron lo interruppe con un gesto sbrigativo della mano.
“Tempo, sì. Ci vuole tempo. Lo so.”
Entrambi si voltarono a guardare pensierosi la porta chiusa. Harry rimase in ascolto del getto costante della doccia per un po’, poi chiese “Da quanto hai detto che è lì dentro?”
Ron aggrottò la fronte.
“Ormai saranno passati i dieci minuti.”
Ancora Harry si mise in ascolto.
“Non è un po’ troppo tempo per una doccia?” domandò poi, leggermente preoccupato.
Ron, cogliendo il suo lieve timore, si accostò alla porta, poggiandovi un orecchio; quindi bussò.
“George?”
Attesero, ma non giunse nessuna risposta.
“George?” chiamò Ron, a voce più alta, bussando ancora, tuttavia non ottenne risultati.
“Non starà male?” si consultò Ron con Harry velocemente.
“Non avrà fatto qualche cazzata?” ribattè Harry, ora davvero preoccupato. “Dai, entra.”
Ron afferrò la maniglia e la girò. La porta si aprì e i due giovani andarono automaticamente a cercare George nell’angolo dov’era posizionata la vasca. Per poco a Harry non venne un colpo, non vedendolo là in piedi, ma poi Ron entrò in bagno e Harry lo individuò: era seduto in un angolo, scostato dal getto d’acqua che continuava a scorrere, e si teneva le gambe strette al petto, nascondendovi il viso e piangendo disperatamente. Tremava vistosamente, ma sembrava non rendersene conto, o più probabilmente, pensò Harry, non gli interessava minimamente. Ron chiuse l’acqua e Harry fu lesto nel passargli un grande asciugamano, che Ron drappeggiò sulle spalle del fratello, coprendolo.
“George?” lo chiamò piano, con voce gentile. “Che fai qua? Dai, andiamo di là. Vieni…”
Lentamente, molto lentamente, George rialzò la testa dal suo nascondiglio tra le proprie ginocchia e si lasciò trascinare mollemente per un braccio da Ron fino a mettersi in piedi. Harry notò con una smorfia di apprensione quanto fosse dimagrito in quel breve periodo. Sfuggendo i loro sguardi, tenendo gli occhi bassi, George passò strascicando i piedi di fronte a Harry e si fece guidare da Ron fino in camera da letto. Harry notò, prima che uscisse dal bagno, che passando di fronte allo specchio aveva voltato la testa verso il muro, come a rifuggirlo. La scena lo colpì a tal punto che, quando l’amico fuoriuscì dalla camera di George qualche minuto dopo, lui ancora se ne stava sulla soglia del bagno, immerso nei propri pensieri.
Ron gli rivolse uno sguardo ansioso.
“L’ho messo a letto,” spiegò brevemente, passandosi le mani tra i capelli. “Forse dormire un po’ gli farà bene. Sempre che lo faccia…”
Harry lo fissò senza parlare; in fondo non c’era niente che potesse dire che l’amico già non sapesse.
“Non può continuare così. Dobbiamo fare qualcosa, prima che la situazione degeneri. Stasera devo parlarne con papà…”
“Sì, credo sia la cosa più giusta da fare,” approvò Harry, anche se non c’era molto che gli venisse in mente che si potesse fare per aiutare un uomo ad accettare di essere rimasto mutilato.
Il signor Weasley fu a casa un paio d’ore dopo, durante le quali Ron era rimasto a rimuginare sul destino di George e Harry era andato a consolarsi tra le braccia di Ginny, che aveva il potere di infondergli il giusto calore per superare quel genere di intoppi quotidiani. Quando la famiglia si riunì in cucina, pochi minuti dopo, e Ron iniziò la sua disquisizione, Harry si sedette all’angolo del tavolo, mettendosi in muto ascolto delle decisioni. Quella era sì la famiglia che sentiva come sua, ma non era suo diritto intervenire in questioni di tale entità, e questo lo sapeva bene.
“E poi c’è la questione del negozio,” fece Ron, in ultima battuta. “È rimasto chiuso per quasi due mesi, ormai, e Percy ha continuato a pagare l’affitto, ma non so a questo punto che senso abbia tenerlo. Voglio dire… Siamo realistici, George non riuscirà mai a tornare a lavorarci, finchè è in queste condizioni, e io non credo di essere in grado di gestire un affare simile.”
Calò un pesante silenzio sulla cucina. I presenti si guardavano l’un l’altro, ben consci della grandezza dell’argomento di discussione, e poi tornavano a fissarsi le mani, nascondendo così l’apprensione. A Harry si chiuse lo stomaco nel vedere gli occhi della signora Weasley gonfiarsi di lacrime; era evidente che per lei ogni provvedimento rappresentava un’ulteriore presa di coscienza della perdita di suo figlio, una realtà che ancora non aveva accettato.
“Credo che tu abbia ragione, Ron,” mormorò infine il signor Weasley, prendendo la parola. “In famiglia nessuno può portare avanti il negozio, e George in questo momento ha ben altro a cui pensare.”
“Ma Arthur!” intervenne la signora Weasley, guardando il marito con occhi sbarrati. “Fred…”
“Molly,” la interruppe il marito, prendendole la mano, “so bene quanto quel negozio fosse importante per Fred, così come lo era per George, ma dobbiamo farci una ragione del fatto che quel sogno, così come l’avevano realizzato, non potrà più essere portato avanti.” Fece una pausa, durante la quale la donna abbassò gli occhi con fare sconfitto. “Sarà terribile venderlo a un estraneo, ma va fatto.”
La signora Weasley non disse niente e Harry pensò con dispiacere che, se fosse stato un po’ meno desideroso di inseguire i propri sogni, avrebbe potuto offrirsi lui stesso di prendere in gestione il negozio di scherzi. In fondo era stato socio dei gemelli e li aveva finanziati dall’inizio nel loro progetto, quindi un po’ quel negozio gli apparteneva.
“Forse potremmo chiedere a qualcuno che conosciamo,” ipotizzò Percy. “Lee, magari, o…”
“Il negozio non si vende.”
Tutti si voltarono a fissare la porta della cucina che dava sul salotto, dalla quale, silenziosamente, era entrato George. Si era vestito e sembrava quasi normale, se non fosse stato per le profonde occhiaie che gli segnavano il viso e l’espressione vacua e un po’ stralunata. Teneva gli occhi puntati a mezz’aria, evitando così i loro sguardi, ma la voce era suonata decisa, sebbene affievolita dal mancato uso recente. Sembrava di vedere il pallido fantasma del ragazzo che era stato ripresentarsi all’improvviso.
“George!” esclamò la signora Weasley, alzandosi per andargli incontro, ma si fermò quando il giovane ricominciò a parlare.
“Quel negozio l’abbiamo aperto io e Fred e solo io e Fred possiamo decidere cosa farne. Se Fred non dice di venderlo non si vende.”
A Harry si gelò il sangue nelle vene. Il discorso di George era comprensibile e ragionevole da un punto di vista emotivo, ma il modo in cui aveva espresso la propria volontà aveva qualcosa di raccapricciante.
Il signor Weasley sorrise con tenerezza al figlio, raggiungendolo e mettendogli una mano sulla spalla.
“Io so che sei molto legato a quel negozio e capisco che tu lo voglia tenere, perché così ti sembra di mantenere viva una parte di Fred, ma non c’è nessuno che se ne possa occupare e non può rimanere chiuso per troppo tempo.”
“Me ne occuperò io,” ribattè calmo ma sicuro George.
Il signor Weasley sospirò.
“Sei sicuro di farcela?”
“Il negozio è mio e di Fred, papà,” ribadì il ragazzo, alzando finalmente gli occhi sul genitore. Harry notò che le labbra gli tremavano leggermente, “e deve riaprire.”
“Ma come farai da solo?” domandò la signora Weasley, dai cui occhi avevano cominciato a scendere le prime grosse lacrime.
“Posso aiutarlo io,” disse Ron. “Se vuoi,” ridimensionò il tono poi, rivolgendosi direttamente a George, “posso darti una mano io. Possiamo rimetterlo in piedi insieme.”
“Ron, tu devi finire la scuola,” obiettò suo padre pacatamente.
“Sciocchezze,” replicò lui, scuotendo la testa. Harry lo fissò con rinnovato interesse, stupito da quanto sentiva. “In realtà ci avevo già pensato. Io… Non credo che abbia senso che io frequenti il settimo anno. Non ho più voglia di perdere tempo, e poi non c’è molto che mi possano insegnare che io non abbia imparato in quest’ultimo anno. Preferirei di gran lunga poter stare accanto a mio fratello. Se ti va bene, naturalmente,” concluse, rivolgendosi nuovamente a George.
Questi serrò le labbra, ma alla fine annuì convinto.
“Perfetto, allora,” mormorò il signor Weasley, con il tono di chi, però, sapeva che di perfetto in tutta quella situazione c’era ben poco. “Se è questo ciò che vuoi…”
Harry si sentì uno strano peso sullo stomaco. Aveva creduto che lui e Ron avrebbero finito la scuola insieme, e che insieme sarebbero entrati all’Accademia per diventare Auror. Ora invece gli si profilava un prossimo futuro di cui il suo migliore amico non avrebbe fatto parte e questo lo spiazzava e lo faceva sentire solo, in un certo senso.
Ginny gli mise una mano sul braccio, riportandolo coi piedi per terra. Harry si voltò a guardarla e le sorrise, prendendole la mano e stringendola piano. Lei gli sorrise a sua volta, poi poggiò la testa sulla sua spalla e sospirò. Harry capì il messaggio forte e chiaro: non sarebbe comunque rimasto solo, quell’anno, a Hogwarts. Con lui ci sarebbe stata lei.
Naturalmente ci sarebbe stata anche Hermione. Com’era prevedibile non prese particolarmente bene la notizia della decisione di Ron e cercò con qualche blanda opposizione di fargli rivedere le proprie scelte, ma fu chiaro fin dall’inizio che non intendeva insistere più di tanto. Hermione era una ragazza di un’intelligenza superiore e aveva sempre saputo che Ron avrebbe finito la scuola solo per rendere orgogliosi i suoi genitori e stare insieme a lei e Harry, più che per reali ambizioni personali. Anche Harry lo sapeva, e nella rassegnazione con cui Hermione prese atto la sua decisione, dopotutto, egli vide la maturità dell’accettare che il compagno facesse un proprio percorso e indirizzasse il proprio futuro come meglio credeva. Harry immaginò che per lei fosse anche più difficile che per lui, rassegnarsi al fatto che Ron non sarebbe stato con loro, perché da quando si erano messi insieme avevano avuto ben pochi momenti da condividere, e un intero anno scolastico a distanza sarebbe stato lungo e malinconico. Harry si sentì fortunato, per la prima volta in un sacco di anni.
Dunque Harry doveva parte della propria serenità alle certezze che il futuro gli riservava e all’affetto che gli amici e la famiglia Weasley gli donavano incondizionatamente. E poi c’era Ginny.
Harry non era mai stato tanto felice di tornare a casa, perché a ben vedere non aveva mai sentito la parola casa così intimamente. Ginny era bellissima, più bella di quanto la ricordasse, forte, carica di un ottimismo incrollabile e, soprattutto, innamorata. Harry si sentiva avvolto dall’affetto che gli portava come una coperta, calda e confortevole; non aveva mai provato l’esperienza di essere pienamente ricambiato nei propri sentimenti, e vivere una storia d’amore vera, senza altre preoccupazioni per la testa, per la prima volta, lo faceva sentire potente, realizzato e, in alcuni momenti più che in altri, in paradiso. Vivendo sotto lo stesso tetto avevano infiniti momenti al giorno da condividere, molti dei quali parecchio intimi. Grazie al cielo avevano imparato a chiudere la porta a chiave, dopo l’anno precedente.
Avevano anche un sacco di tempo da recuperare. Ginny era sempre attorno a lui, ventiquattro ore al giorno o quasi, e, complice la mancanza di controllo che la signora Weasley avrebbe esercitato su di loro in condizioni normali, condividevano ogni cosa. Era bello, era…familiare. Privato. Due settimane dopo la fine della guerra e la sua risoluzione di trasferirsi stabilmente alla Tana avevano fatto l’amore per la prima volta. Harry aveva sempre pensato che sarebbe stato nervosissimo e impacciato, quando fosse successo, ma nel momento in cui si era trovato là, con Ginny sotto di sé e le sue braccia attorno, tutto aveva assunto una nuova dimensione: gli anni di guerra, l’attesa, l’ansia di arrivare a questo momento e la paura di affrontarlo. Era stato il momento più intenso della sua vita, a dispetto di Voldemort e di tutto il tempo che gli aveva rubato. Stretto a Ginny, coi suoi seni piccoli e duri sotto le mani, a Harry era sembrato di poter respirare liberamente per la prima volta in tutta la sua vita. Non avrebbe mai potuto essere più felice di così.
Quando varcò la soglia di Hogwarts per l’ultima volta, il primo di settembre, Harry si sentiva una persona nuova, più forte e serena che mai. Cominciava una nuova epoca di felicità per tutti, di cui lui non sarebbe stato il protagonista, ma il fautore. Era una sensazione bellissima. Entrò nel salone principale stringendo la mano a Ginny, Hermione al suo fianco, preceduto da Neville, che sfoggiava con orgoglio la spilla argentata di Caposcuola sul petto. C’erano tutti i suoi amici, ad aspettarlo, e la scuola era perfetta, come se non fosse mai stata combattuta alcuna battaglia al suo interno. Tutto era perfetto. Sarebbe stato un anno perfetto.