[Original] Il Giorno Dell'Abbandono

May 09, 2009 13:22

Titolo: Il Giorno Dell'Abbandono
Fandom: Originale
Rating: PG
Conteggio Parole: 1.289
Beta-reader:fiorediloto e mihok
Note: scritta per la prima settimana del Fluffathlon di fanfic_italia, fluff quanto basta ma non troppo, tanto da richiedere un senato consulto prima della sua pubblicazione, indi per cui ringrazio defenderxl  per l'approvazione XD


“Restale accanto.”
Così mi disse Carlo uscendo di casa, in una mano la giacca a vento e nell’altra una sigaretta, proprio come in un film.
“Stronzo!” Gli urlò contro lei, lanciandogli contro un libro (Guerra e Pace?). “Stronzo…” mormorò, affondando una mano nei ricci. “Stronzo!” urlò di nuovo contro di me lanciandomi un altro libro ed io mi schermai con un braccio.
“Be’, ma io che c’entro?”
“Avresti dovuto fermarlo!”
Abbassai un attimo gli occhi e non seppi più che dirle.

“E non solo mi ha lasciata dicendo quelle stupidaggini e credendo che io non sospettassi nulla dell’altra - sembra un film di serie B, vero? - ma mi ha mollato anche questo peso morto in casa.”
Così diceva Irene alle sue migliori amiche, mentre affondavano i cucchiai nella vaschetta di gelato, fissando me.

Ho continuato a vivere con Irene, anche se Carlo se n’è andato dicendo di aver bisogno di riconquistare se stesso, i suoi spazi, la sua vita. Nessuno aveva messo in guardia Irene, nessuno le aveva detto che Carlo è una donna capricciosa e viziata, lunatico come se avesse il ciclo mestruale trenta giorni su trenta.
Dopo un anno di convivenza e un mese di matrimonio l’aveva lasciata e aveva pensato bene di farlo mentre io ero lì - spiantato, indebitato fino al midollo, senza casa e con la macchina sequestrata.
“Be’, e ora che faccio?” Ogni tanto diceva così Irene, fissandomi con i suoi occhi castani e mordendosi le labbra sottili.
“Che fai… Lo cerchi?”
“No, non lo cerco, questa è l’unica cosa che non farò.”
Novella sposina, rigirava con impazienza l’anello nuziale tra le dita.
“E tu? Tu che fai?” Mi chiedeva burbera e incerta, senza avere cuore di buttarmi fuori di casa.
“Io? Cerco un lavoro e poi me ne vado.”
“Poi…” Lo diceva con uno sbuffo ma dal tono non sembrava mai davvero troppo seccata, e allora pensavo che forse un po’ di piacere nell’avermi lì con lei lo provava. Forse si sentiva meno sola.

Asfissiante, morbosa e sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Così vedevo Irene quando verso la fine dell’estate mi ero trasferito in casa sua. Avrei dovuto capire che Carlo sarebbe scappato, nel momento stesso in cui aveva accettato di ospitarmi da lui, ad appena un mese dalle nozze. E in realtà, appena messo piede in casa, avevo intuito che qualcosa tra loro non andava dal modo in cui Irene si comportava con lui. Era minuta e non stava mai ferma, si muoveva a scatti e sembrava tremare perennemente, come mossa dal vento. Forse Carlo aveva scelto di lasciare me con lei perché sapeva che l’avrei amata.

In casa di Carlo e Irene dormivo sul divano, perché non avevano una camera per gli ospiti. E da quel giorno - Il Giorno Dell’Abbandono - mi sdraiavo in modo tale da poter vedere Irene stesa sul letto della sua camera. Quando Carlo viveva ancora lì con noi, mi stringevo in un angolo del divano, mi rannicchiavo quasi a rendermi invisibile e stando attento a dare le spalle alla porta della loro camera. Non volevo sembrare troppo invadente. Ma da quando Carlo se n’era andato avevo cambiato posizione per stare attento a ogni mossa di Irene. Inizialmente credevo si sarebbe buttata dalla finestra, durante la notte, avvolta nella sua camicia bianca smanicata, come un’eroina tragica. Mi sembrava che un comportamento simile fosse perfettamente coerente con l’immagine che Irene voleva dare di sé. Ma col passare dei giorni mi resi conto che Irene non era affatto in quel modo e che quelle erano solo mie fantasie (forse nate dai racconti di Carlo, che dipingeva Irene in maniera così pittoresca…).
Non mi riusciva mai di addormentarmi prima di lei o almeno prima che lei avesse chiuso gli occhi. Allora, quando mi sembrava di essere finalmente l’unica persona cosciente dentro casa, potevo finalmente rilassarmi. Smettevo di fingere di dormire, ad occhi malamente socchiusi, oppure di leggere un libro, e iniziavo a fissarla. Era così piccola su quell’enorme letto a due piazze. Non dormiva mai nella stessa posizione, e dopo tante notti avevo deciso che la mia preferita era quella spalmata sul letto, mezza avvolta nel lenzuolo e mezza no.
Una di quelle sere aveva spalancato gli occhi all’improvviso, puntandoli dritti dentro i miei.
“Da quanto tempo fai così?”
“Così cosa?”
“Da quanto tempo fai il guardone di notte?”
Non riuscivo a rispondere; sono un tipo timido, io.
“Mi guardavi anche quando c’era Carlo?”
“No!” Lei tirò mezzo sorrisino ironico, almeno così mi sembrò nella penombra della casa.
“Meglio così” si girò dall’altra parte e ricominciò a dormire. E per quella sera feci lo stesso anch’io.

Ogni mattina l’accompagnavo in ufficio. I primi tempi lei mi urlava contro, dicendo di non aver bisogno della balia.
“Be’, sei un amico fedele, fai tutto quello che ti dice Carlo!” mi disse una mattina dandomi una cartellata sul petto e correndo via da me. Allora le corsi dietro e l’afferrai per un braccio.
“Ma non lo faccio per Carlo.”
“E per chi allora?”
“Be’, penso per te…”
Si bloccò un istante e poi proseguì per la sua strada in silenzio. Dopo quella mattina non mi rimproverò più.

“E tu un lavoro quando te lo cerchI?”
“Presto” le rispondevo ogni volta, ma in realtà un lavoro non volevo. Volevo passare le giornate solo con lei.

Una sera eravamo seduti sul divano, lei leggeva cose di lavoro, io giocavo con il cubo di Rubik. In realtà la osservavo con la coda dell’occhio, analizzando ogni particolare. I ricci erano tirati dietro la nuca, attorcigliati intorno a una matita, portava gli occhiali, stranamente, e teneva una penna tra le labbra. Arricciava spesso il naso, come se fosse infastidita da ciò che leggeva. Poi si voltò all’improvviso verso di me ed io colto di sorpresa girai subito la testa, tornando a fissare il cubo.
“Ho voglia di uscire, è da tanto che non esco.”
“Ok… però non posso pagarti la cena.”
“Non importa, mi offrirai un gelato.”
Con uno scatto era scesa dal divano ed entrata nella sua camera. Aveva lasciato la porta socchiusa e potevo intravederla mentre si cambiava. Guardavo, distoglievo lo sguardo, tornavo a guardare rosso dalla vergogna e incerto. Poi uscì dalla stanza, più carina e graziosa del solito e vedendola mi sentii diviso tra il desiderio di baciarla e quello di lasciarla andare. Non potevo offrirle neanche una cena. Il giorno dopo andai a cercare lavoro.

“Forza! Stappa, stappa!”
Il tappo dello spumante fece un volo e andò a sbattere contro un quadro, la schiuma uscì impazzita dalla bocca della bottiglia e lei mi porse subito i bicchieri.
“E ora un brindisi al tuo nuovo lavoro!” Fece tintinnare le coppe una contro l’altra e qualche goccia cadde fuori dal bordo di cristallo.
“Così finalmente divideremo le spese di casa.”
“È un invito a restare?”
“Perché, dove altro vorresti andare?” Bevve un sorso, poi bagnò il dito col lo spumante e se lo passò dietro un orecchio.
“Porta fortuna” disse sorridendo.
“Lo so, ma pensavo si facesse solo a Capodanno”
“Be’, è lo stesso, no?” Questa volta rise di gusto. Poi, con le labbra sottili arricciate e divertite, mi si avvicinò e tese una mano verso la mia nuca.
“Anche a te.” Mi accarezzò il collo con le dita umide e sentii il suo profumo misto all’odore dello spumante investirmi di colpo e senza accorgermene l’avevo baciata. Sentendomi avvolto dalle sue braccia magre, aumentai la pressione contro il suo corpo e contro le sue labbra, spingendola fino a buttarci giù sul divano. Le fissai il volto, mai visto così da vicino, e le accarezzai la guancia. Fermò la mia mano e appoggiò la sua fronte contro la mia.
“La mano, ti trema.”
“No.”
“E sei rosso come un peperone.”
“…”
“Allora mi ami?”
“… sì.”

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