Titolo: La cosa più importante
Fandom: Axis Powers Hetalia
Rating: giallo
Personaggi: Arthur Kirkland (Inghilterra), Alfred F. Jones (America), comparse: Matthew (Canada), Francis (Francia), Kiku (Giappone)
Pairings: America/Inghilterra
Riassunto: "«Quando ho visto Alfred a terra e tutto quel sangue… non ho capito più niente… ho pensato che sarei morto anch’io… Non ha importanza cosa succederà, se passerò dei guai o no, desidero solo che Alfred stia bene. Oh, Francis, ti prego, dimmi che sta bene! »"
Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya.
Note: Hetalia F.R.I.E.N.D.S Project UsUk version. Diciamo che si tratta del "what if..." di una scena dell'AU Friends in origine destinata a trattare la FrUk e l'Ameripan. Capriccio dell'autrice che rivoleva insieme Al e Arthie. In pratica è un'AU dell'AU. XD
Beta:
mystofthestarsWord count: 3092 (fdp)
Se quella mattina, alzandosi, Arthur avesse immaginato che la giornata che stava per iniziare avrebbe di nuovo stravolto la sua vita pacifica, probabilmente sarebbe rimasto a letto.
O forse no.
La cosa più fastidiosa che può accadere nella mattina di un giorno di ferie, in cui ci si alza e si fa colazione con tutta calma, è accorgersi di aver appena usato l’ultimo cucchiaio di foglie di tè della propria miscela preferita. Se fosse stato nella sua cara e vecchia Londra, Arthur non si sarebbe posto molti problemi a scendere nel suo negozio di fiducia, all’angolo, e fare un po’ di scorta. Purtroppo lì, a New York, trovare una rivendita di tè sfusi era un’impresa e l’unica alternativa era il piccolo minimarket ad un paio di isolati di distanza. Certo, non era il massimo, ma era sempre meglio degli enormi centri commerciali pieni di gente, e poi aveva il suo Twinings preferito, Lady Grey.
Si trovò quindi a vagare tra gli scaffali tentando di fare mente locale su cos’altro potesse mancargli in casa. Ecco, forse era meglio prendere anche lo zucchero, ricordava il barattolo a metà, e un po’ di frutta, così avrebbe potuto aggiungerla all’impasto dei prossimi scones che avrebbe preparato. Era intento a scegliere quale tipo di biscotti si sarebbe abbinato meglio al suo tè quando venne interrotto dal suono di una risata a lui fin troppo nota. L’avrebbe saputa riconoscere tra mille perché era in grado, anche ora a mesi di distanza, di farlo sobbalzare e aumentare i battiti del suo cuore.
«Ma guarda chi c’è! Arthur! Che sorpresa! »
Quando alla risata si unì anche la voce, l’inglese provò la forte tentazione di nascondersi dietro uno scaffale. Invece si costrinse a rimanere dov’era e a voltarsi lentamente, come se fosse una cosa del tutto casuale.
«Oh, Alfred. Una sorpresa davvero. Che ci fai qui? »
Parole che uscirono forzate e innaturali dalle sue labbra che, al contrario, avrebbero voluto intimare all’americano di andarsene. Dopo essere stato lasciato da lui in modo brusco e shockante, aveva fatto di tutto per archiviare quella storia che gli aveva spezzato il cuore: aveva ceduto alle insistenze di Francis, alla sua corte serrata eppure mai eccessiva, aveva anche accettato di frequentarlo facendolo indubbiamente felice. All’inizio era stato doloroso, poi, piano piano, tutto era sfumato in una sorta di malinconia di fondo. Francis era estremamente paziente con lui ed incredibilmente gentile e romantico, Arthur non poteva fare a meno di apprezzarlo, anche se a volte alcune sue attenzioni lo mettevano in imbarazzo. Eppure non avrebbe potuto fingere in eterno che andasse tutto bene, sentiva di non essere felice e sapeva esattamente cosa gli mancava: tutto poteva essere semplicemente riassunto in quella risata.
«Sono venuto a cercare qualcosa di buono per la seconda colazione. » rispose Alfred allegramente, ignorando il tumulto emotivo che la sua presenza aveva scatenato. «Noi uomini d’azione abbiamo bisogno di molte calorie, sai? Matt mi sta aspettando fuori con la volante, poi continueremo il nostro giro. »
Arthur annuì, consapevole che l’americano stesse scrutando il suo cestino con la confezione di Lady Grey in foglie e il pacco di zucchero, e reprimendo l’istinto di allontanarlo dal suo sguardo: non aveva niente da nascondere in fondo.
«Vedo che le tue abitudini non sono cambiate. » commentò Alfred con un sorriso che sapeva di nostalgia.
Oppure era solo un’impressione di Arthur e l’altro lo stava semplicemente prendendo in giro.
«Sono passati solo sei mesi…» si limitò a rispondere.
“Solo sei mesi” non rendeva affatto l’idea. Sei mesi erano stati un sacco di tempo senza di lui, senza vederlo praticamente mai, senza nemmeno permettersi di pensarci, con il rischio di ricascarci in pieno e mandare al diavolo tutto quello per cui si era impegnato finora.
«Già, solo sei mesi…» commentò Alfred. «Però mi sembra che tu stia bene, mi fa piacere. Francis ti tratta bene, eh? Lo sapevo che era la persona giusta. »
Forse fu solo Arthur a cogliere un sottofondo di amarezza in quelle parole. Forse aveva solo troppa fantasia.
«Sì, sto bene. » mentì spudoratamente, afferrando un pacco di biscotti a caso e avviandosi lungo la corsia. «Sembra che anche tu te la stia spassando con Kiku…»
Alfred, che teneva tra le braccia una confezione di ciambelle glassate, lo seguì.
«Oh, sì, ci divertiamo un sacco! » rispose, forse troppo velocemente.
Arthur non aveva nessuna voglia di ascoltare, voleva solo che l’altro se ne andasse, che lo lasciasse alla sua nostalgia e ai suoi ricordi, dove ancora non c’era nessun giapponese giocatore di videogiochi che glielo aveva portato via.
Un improvviso urlo soffocato lo strappò da quelle fantasie e l’inglese, incuriosito e anche un po’ allarmato, si affacciò oltre l’angolo della corsia. Quello che vide lo fece gelare sul posto: un uomo armato di pistola e con il volto coperto stava minacciando la cassiera, intimandole di consegnargli l’incasso e le chiavi della cassaforte. La ragazza tremava, terrorizzata, mentre gli passava i soldi pregandolo di non farle del male.
Arthur si voltò verso Alfred, ma non ebbe il tempo di dire niente perché quello era già partito alla carica.
«Fermo! Polizia! » esclamò balzando fuori da dietro l’angolo, pistola d’ordinanza alla mano.
Quello che accadde negli istanti successivi si svolse come al rallentatore sotto gli occhi di Arthur: il malvivente sussultò, spaventato dall’esclamazione di Alfred, e si voltò nella loro direzione. Nello stesso momento il rimbombo assordante di uno sparo riempì l’aria e il corpo dell’americano si accasciò a terra. Arthur vide con orrore una macchia rossa allargarsi sulla divisa del giovane e provò l’istinto di urlare. Nel vedere la persona che più amava al mondo riversa al suolo, qualcosa si spezzò dentro di lui, qualcosa di folle e pericoloso. Con mano tremante raccolse l’arma di Alfred e la puntò contro il rapinatore.
«Butta la pistola! » urlò con voce che tradiva una nota d’isteria. «Buttala o ti ammazzo come un cane! »
Un colpo esplose all’improvviso, mandando in mille pezzi una vetrina del minimarket, la gente iniziò a strillare in preda al panico e l’intera scena precipitò nel caos.
Di quello che era successo dopo, Arthur non aveva che vaghi flash di scene confuse: gente che gridava, il suono delle sirene, il tonfo della pistola che cadeva a terra e le sue stesse ginocchia che cedevano. Un poliziotto lo aveva riempito di domande, ma lui non era riuscito a rispondere altro che: «Salvate Alfred! Vi prego, salvate Alfred! È la cosa più importante che ho! »
Ora si trovava in ospedale, gli avevano fatto degli esami, gli avevano dato dei sedativi. Matthew gli aveva spiegato che il rapinatore era stato preso, era stato lui stesso a chiamare i rinforzi, messo in allerta dalla confusione. L’uomo si era dato alla fuga spaventato dalla reazione inconsulta di Arthur, reazione che, di certo, gli avrebbe portato qualche grana. Dopotutto aveva maneggiato l’arma di un pubblico ufficiale.
Il timido poliziotto, più abituato al lavoro d’ufficio che a quelle scene d’azione e quindi ancora piuttosto scosso dall’accaduto, aveva aggiunto che suo fratello era stato sottoposto immediatamente ad un intervento di cui presto avrebbero conosciuto gli esiti. L’aveva addirittura ringraziato, sostenendo che gli avesse salvato la vita.
Arthur si era sentito salire le lacrime agli occhi quando Matthew lo aveva abbracciato e non aveva saputo cosa rispondere: non gli importava del rapinatore, dei guai o dei ringraziamenti, pregava solo che Alfred stesse bene. Dei pochi ricordi che aveva, uno in particolare continuava a tornargli alla mente con una lucidità dolorosa: il pacchetto di ciambelle abbandonato sul pavimento, la confezione dai colori vivaci brutalmente macchiata di rosso. Non aveva importanza se Alfred non lo voleva, se gli preferiva Kiku o chiunque altro, avrebbe accettato qualunque cosa purché si salvasse.
L’infermiera venuta a controllare le sue condizioni aveva detto che avrebbe dovuto riposare perché era reduce da uno shock e che, se non voleva stare solo, avrebbe potuto chiamare un parente: l’ospedale avrebbe tollerato la presenza di una persona fuori dall’orario delle visite proprio perché il suo era un caso speciale. Arthur sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere occhio e non aveva parenti a New York da poter chiamare. L’unica persona disponibile era probabilmente anche l’ultima che avrebbe dovuto essere lì in quel momento. Dopo una lunga riflessione che lo rese consapevole di quanto, in quel modo, avrebbe fatto del male sia a sé stesso che all’altro, capitolò e chiamò Francis.
Nonostante le sue spiegazioni confuse, anzi, forse proprio per quello, il francese lo raggiunse in brevissimo tempo, più allarmato di quanto credesse possibile.
«Oh, Arthùr, grazie al cielo stai bene! » esclamò irrompendo nella stanza pallido come un cencio.
S’inginocchiò accanto al letto dove l’inglese era sdraiato e gli prese le mani.
«Quando hai parlato di sparatoria ho creduto che mi si fermasse il cuore. » continuò posandovi piccoli baci sul dorso.
Arthur abbassò gli occhi, consapevole solo a metà di quello che stava dicendo.
«Quando ho visto Alfred a terra e tutto quel sangue… non ho capito più niente… ho pensato che sarei morto anch’io…»
Non notò lo sguardo di Francis che da preoccupato si faceva rassegnato, mentre continuava: «Non ha importanza cosa succederà, se passerò dei guai o no, desidero solo che Alfred stia bene. Oh, Francis, ti prego, dimmi che sta bene! »
C’era una tale angoscia nella sua voce che il francese non poté far altro che rispondere.
«Mentre ti cercavo ho parlato con un’infermiera e mi ha detto che l’intervento è andato bene. Presto lo riporteranno in camera. »
A quelle parole Arthur chinò il capo per nascondere gli occhi lucidi, sentendosi immensamente sollevato e, per la prima volta, anche un po’ in colpa.
Francis se n’era andato, Arthur non era riuscito a trattenerlo dopo avergli detto ciò che sentiva. Poteva capirlo, era giusto così, ma faceva anche male, soprattutto perché lui quel tipo di dolore lo conosceva bene. Ne era stato spesso vittima e provocarlo gli dava un senso di malessere che difficilmente riusciva a scacciare.
Rimasto solo, aveva tentato di dormire, ma le immagini che perseguitavano la sua mente gli avevano reso impossibile qualunque tipo di riposo, quindi si era risolto a mettere di nuovo a dura prova la pazienza delle infermiere e a chiedere di poter passare un po’ di tempo nella stanza di Alfred, come se quello potesse alleggerire un po’ il suo senso di colpa.
Restare seduto nella stanza silenziosa e in penombra, ad osservare l’americano privo di conoscenza, i capelli biondi sparsi sul cuscino e il petto che si alzava e si abbassava lentamente, in realtà non faceva che aumentare la sua stretta allo stomaco. I ricordi che si susseguivano nella sua memoria, indissolubilmente legata alla sua figura, erano sempre tinteggiati di emozioni forti, fossero esse di gioia o di sofferenza. Il grigiore con Alfred non esisteva.
Ancora nitido nella sua mente era il loro primo incontro, la corsa su quel marciapiede all’inseguimento del borseggiatore che lo aveva scippato, l’incontro con quel poliziotto dall’espressione gioviale e il sorriso luminoso che da quel giorno aveva rischiarato le sue giornate. Non si era reso conto di esserne diventato dipendente finché il vedersene privato non lo aveva fatto risprofondare nel buio, quella tremenda sera, mentre lacrime bollenti s’infrangevano sul pavimento gelido del pianerottolo. Sensazioni intense, che si ripresentavano ogni volta che, per errore, posava lo sguardo su qualcosa che gli ricordava lui: la sciarpa che gli stava facendo a maglia, una camicia che gli sarebbe piaciuta, i suoi amati hamburger…
Sospirando, Arthur allungò una mano e scostò i ciuffi biondi che ricadevano, ribelli, sulla fronte dell’americano, permettendo a sé stesso di indugiare alcuni secondi in quel gesto tenero: erano mesi che non lo toccava, che non lo sfiorava nemmeno per sbaglio. Ogni volta che gli capitava d’incontrarlo nell’atrio del condominio dove abitava, faceva di tutto per evitarlo: avere sotto gli occhi la sua serenità, l’allegria che mostrava al fianco di Kiku, non faceva che accrescere la sua angoscia, mettendo a dura prova la determinazione di allontanarsi da lui e dimenticarlo.
Ora, in quella stanza d’ospedale, silenziosa e quieta, dove non c’era nessun altro che loro due, aveva l’impressione di essere arrivato ad una sorta di epilogo: poteva essere la fine, e sarebbe stata la fine definitiva, o un nuovo inizio, ma gli appariva talmente utopico da essere irreale. Alfred era un tipo testardo, difficilmente cambiava idea e Arthur sapeva che non sarebbe tornato sui suoi passi, ma non aveva importanza. Gli sarebbe bastato rivedere il suo sorriso, incrociare un’ultima volta il suo sguardo luminoso, vivo, e si sarebbe imposto di metterci definitivamente una pietra sopra.
La mano che stava ancora accarezzando i suoi capelli, scese per posarsi sulla sua guancia, sfiorandola delicatamente e poi rimanendovi posata, mentre sulle sue labbra si dipingeva un sorriso triste.
Solo quando vide le ciglia abbassate tremare, sul punto di schiudersi, la ritirò repentinamente, sedendosi più composto e rigido sulla sedia accanto al letto, sviando lo sguardo verso il pavimento.
Quando Alfred riprese conoscenza, la prima cosa che percepì fu il bianco asettico attorno a sé. Aprire gli occhi gli costò una certa fatica e trovarsi a fissare il soffitto di una stanza estranea lo sconcertò un poco.
«Ciao… Sei ancora vivo…» mormorò al suo fianco una voce nota, molto nota.
Alfred si voltò lentamente.
«Arthur…»
«Sì. »
«Siamo in ospedale? »
«Già. »
Sembrava che Arthur non riuscisse a pronunciare altro che monosillabi e Alfred si sforzò di fare mente locale per ricordare cosa li avesse condotti lì. Sentiva l’intero corpo pesante e la mente ancora intorpidita dall’anestesia, inoltre il braccio e la spalla destra erano fastidiosamente insensibili, bloccati da una stretta fasciatura.
Ah, sì, quel tipo al minimarket aveva una pistola e…
Si voltò verso Arthur, sgranando gli occhi.
«Hai sparato al rapinatore?! »
«Cos… No! »
Vide Arthur abbassare gli occhi, come nel tentativo di decidere cosa fosse meglio dire.
«Non so bene cos’ho fatto o perché, quando ho capito che ti aveva colpito sono andato nel panico.»
Già, era stato più o meno così, ma c’era anche dell’altro, qualcosa che Alfred aveva sentito prima di perdere i sensi definitivamente.
«L’hai minacciato di morte e… hai detto ai ragazzi del pronto soccorso che ero la cosa più importante che avevi. »
Era certo di non esserselo immaginato e che non fosse un delirio causato dalla ferita. A confermare quell’ipotesi giunse anche il rossore di Arthur, che si alzò velocemente dalla sedia dove era seduto.
«Come ti ho detto, ero sconvolto. Ora è meglio che vada, di certo preferirai vedere Kiku piuttosto che…»
«No! »
Alfred lo interruppe bruscamente tentando di alzarsi, nonostante i postumi dell’anestesia lo lasciassero stordito e vagamente nauseato.
«Non voglio vedere nessun altro. » continuò. «Solo colui per cui sono la cosa più importante. »
L’espressione di Arthur si sarebbe tranquillamente potuta definire inorridita, ma Alfred non si diede per vinto.
«Non posso credere che tu l’abbia detto a caso. O forse, proprio perché non ci stavi riflettendo, è la cosa più vera. Dimmelo, Arthur. Lo pensi veramente? »
L’inglese tornò sui suoi passi costringendolo a sdraiarsi di nuovo, ma evitando il suo sguardo. E dire che Alfred avrebbe pagato oro per incrociare quegli smeraldi trasparenti, attraverso i quali poteva quasi vedere la sua anima.
«Arthur. » incalzò.
«E va bene. »
L’inglese strinse i pugni mentre la sua voce tremava leggermente.
«Sì, è così. Questo però non significa che abbia intenzione di rendermi ridicolo di nuovo. »
Alfred ricordava bene quanto Arthur lo avesse pregato di tornare sui suoi passi, quella lontana sera di ormai sei mesi prima, e ricordava anche con quanta freddezza avesse ignorato quelle preghiere, divorato dalla gelosia e dall’esasperazione. Non ci era voluto molto perché capisse di aver fatto una sciocchezza, ma l’orgoglio era stato troppo forte per permettergli di ritrattare. E poi c’erano Kiku e Francis. Ma adesso sembrava che tutte quelle cose non avessero più importanza.
«Allora potrei essere io a farlo, così tu mi potrai sgridare e dirmi “te l’avevo detto”. » mormorò accennando un sorrisetto.
Il fatto che Arthur avesse ammesso di provare ancora qualcosa per lui lo incoraggiava in quel salto nel vuoto. Infatti l’espressione dell’inglese mutò radicalmente alle sue parole: le guance si colorarono di rosa, gli occhi si spalancarono e si fecero lucidi. Mosse un passo in avanti, ma poi si bloccò.
«C’mon, Arthie, so che muori dalla voglia di abbracciarmi! » esclamò Alfred, ricevendo in risposta un secco: «No way! » eppure ritrovandosi un istante dopo le braccia dell’inglese attorno al collo.
Ecco, sì, era esattamente questo che gli era mancato in tutti quei mesi, che aveva desiderato pur rifiutandosi di ammetterlo.
«Sono stato uno stupido. » mormorò all’orecchio di Arthur, che si era appoggiato alla sua spalla sana e sembrava non avere alcuna intenzione di staccarsi. «Ero geloso marcio di Francis e ho perso la testa. Perdonami. I love you, Arthie. I love…»
Sentì le spalle del giovane tremare e per, un orribile momento, temette che stesse piangendo, ma poi una risatina giunse alle sue orecchie.
«Se ti porta a queste conclusioni, dovresti rischiare la pelle più spesso. »
«Ma senti da che pulpito! Quello che è impazzito dallo spavento! »
Poter prendere in giro Arthur in quel modo, senza traccia di cattiveria o ripicca, gli trasmetteva un senso di serenità che credeva di aver dimenticato, un’idea di completezza che si era quasi rassegnato a mettere da parte. Forse per la prima volta da quando aveva intrapreso il lavoro di poliziotto, aveva capito quanto poco potesse bastare perché la fine lo colpisse all’improvviso. Lui che si era sempre considerato praticamente invincibile, in quel momento aveva avuto paura e tutti gli stupidi giochini con cui aveva perso tempo finora gli erano apparsi privi di senso. In momenti del genere l’orgoglio aveva davvero poca ragione di essere e c’era una sola persona che aveva desiderato accanto. Il fatto che anche per Arthur fosse lo stesso, ai suoi occhi rasentava l’incredibile.
Ora rimaneva un solo problema, anche se certo non di facile soluzione.
Arthur si era seduto sul letto, raggomitolandosi contro la sua spalla, e Alfred avrebbe voluto riuscire a muovere il braccio per accarezzargli i capelli.
«Dovremo parlare con Francis e Kiku. » disse invece.
«Io l’ho già fatto. » rispose Arthur inaspettatamente.
L’americano gli lanciò un’occhiata perplessa: possibile che Arthur avesse calcolato tutto?
«Se stai pensando male di me, smettila immediatamente. » fu invece la replica, accompagnata da un broncio seccato, che poco dopo si distese in un’espressione pensosa. «Mai come in questo momento sono stato consapevole della realtà e dei miei… sentimenti. »
Sembrava particolarmente concentrato sulle venature delle piastrelle e nell’evitare di guardarlo.
«Francis è una brava persona, mi è stato molto vicino, non meritava di essere illuso. Piuttosto che continuare con questo assurdo gioco, sarei rimasto solo. »
Alfred annuì, comprendendo i sottintesi delle sue parole: dopotutto Arthur era sempre stato una persona molto corretta.
«Ehi! » esclamò ad un tratto facendo sobbalzare l’inglese. «Insomma, non ti sembra di aver dimenticato la cosa più importante? Te ne stai qui a chiacchierare di sentimenti e non mi hai ancora dato un bacio! »
E Arthur, reprimendo una risatina divertita, decise che in fondo poteva anche concederglielo.