[Hetalia] Don't mess with the British Empire

Jun 10, 2013 12:34

Titolo: Don't mess with  the British Empire
Fandom: Axis Powers Hetalia
Rating: rosso
Personaggi: Arthur Kirkland (Inghilterra), Alfred F. Jones (America)
Pairings: America/Inghilterra, Inghilterra/America
Riassunto: "«Sai con chi stai parlando, stupido ragazzino?! » sbottò. «Come osi dare del debole a me? Io sono il potente Impero Britannico, la nazione che un tempo dominava il mondo! Faresti bene a rendertene conto! »"
Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya.
Note: Scritta in occasione della seconda settimana delle Badwrong Weeks @ maridichallenge
Beta: mystofthestars
Word count: 4379 (fdp)



Alfred sbuffò sonoramente: quella volta la sua pazienza aveva davvero raggiunto il limite. Era da dieci minuti buoni che Arthur gli stava brontolando dietro e la sua sopportazione era in rapido esaurimento. Dopotutto cos’aveva fatto di male questa volta? Davvero non lo capiva.
Al termine del meeting di quel giorno, in cui come sempre aveva messo in luce le sue doti di eroe, aveva pensato che sarebbe stato carino invitare Inghilterra fuori a cena. Si vedevano di rado e spesso l’inglese si lamentava della sua scarsa sensibilità e del suo romanticismo inesistente, quindi questa volta aveva voluto fare le cose per bene, scegliendo addirittura un ristorante con vista panoramica. Non era colpa sua se, alla fine della cena, si era accorto che la sua carta di credito era scaduta, costringendo così Arthur a pagare il conto. Inghilterra non l’aveva presa bene. America aveva tentato di blandirlo invitandolo a casa sua e mettendo in atto tutte quelle romanticherie melense che sapeva apprezzate da Arthur (anche se non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura). Purtroppo, Alfred non aveva una grande resistenza e il passo tra un bacio o una carezza e la camera da letto era stato breve. Da lì le proteste di Arthur che, dopo un primo rapporto appassionato e coinvolgente, aveva iniziato a dire di essere stanco. Inconcepibile. Alfred aveva insistito sfruttando alcune delle avances che gli aveva insegnato Francia, ma il risultato era stato disastroso: Inghilterra lo aveva abbandonato sul letto, portandosi via il lenzuolo per coprirsi, iniziando a camminare furiosamente per la stanza inveendo contro di lui.
«Qual è il tuo problema?! Non capisci il significato della parola “stanco”? Ho fatto un volo di otto ore per partecipare al tuo stupido meeting, mi sono dovuto sorbire per altrettanto tempo le tue chiacchiere, ho pagato la cena e soddisfatto le tue voglie. Che altro pretendi? Non mi è concesso avere sonno?! »
Alfred sospirò spazientito mentre tornava ad infilarsi jeans e maglietta, giusto perché discutere nudo non lo entusiasmava.
«Solo un vecchio come te può considerare queste attività stancanti. In aereo si può dormire, i miei discorsi sono molto interessanti, per la cena mi sono già scusato e poco fa mi sembrava che fossimo in due a spassarcela. »
Inghilterra però non sembrava affatto d’accordo con quelle affermazioni.
«Non m’importa un accidente di quello che tu consideri o meno stancante. Il punto è che non hai un minimo di attenzione per chi ti sta attorno, pensi solo a te stesso e al tuo tornaconto! »
La risata di America giunse puntuale quanto inopportuna.
«Oh, no! Il punto è che sei diventato deboluccio e non reggi più certi ritmi. Povero Arthie! Non pensavo che la vecchiaia ti facesse questo effetto! »
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Inghilterra si voltò verso di lui con espressione furente e gli puntò contro un dito minaccioso.
«Sai con chi stai parlando, stupido ragazzino?! » sbottò. «Come osi dare del debole a me? Io sono il potente Impero Britannico, la nazione che un tempo dominava il mondo! Faresti bene a rendertene conto! »
Un improvviso lampo di luce accecò America e dal nulla vide comparire un oggetto che, di solito, aveva sempre schernito ma che in quel momento, tuttavia, trovò stranamente inquietante: la bacchetta magica di Inghilterra.
«Tu hai sempre visto il lato gentile della tua madrepatria, eri troppo piccolo per conoscere il vero pirata terrore dei mari, ma ora ne avrai un assaggio! »
La bacchetta si levò, sprigionando bagliori e scintille che ben presto riempirono l’intera stanza impedendogli la visuale. Alfred si coprì gli occhi d’istinto e, solo quando la luce si affievolì, si azzardò ad aprire di nuovo gli occhi.
Sulle prime pensò che quel lampo avesse in qualche modo danneggiato la sua vista, ma quando si riabituò alla luce più scarsa si rese conto che quello che vedeva non era affatto un’illusione. L’appartamento di New York sembrava essersi dissolto e al suo posto si levavano pareti di legno scuro che delimitavano uno stretto corridoio. America si guardò attorno perplesso, chiedendosi cosa fosse successo e se quella fosse una delle solite diavolerie di Inghilterra. C’era qualcosa di strano, quel posto gli appariva bizzarramente instabile, come se il pavimento stesso ondeggiasse sotto i suoi piedi. La luce era scarsa, alla parete era affissa una torcia che riempiva il corridoio di fumo grigiastro che gli faceva lacrimare gli occhi. Non ricordava di essere mai stato in un luogo tanto inquietante. L’istinto gli diceva di percorrere quel corridoio per scoprire dove fosse finito, ma qualcosa lo bloccava sul posto, forse il semplice orgoglio di mostrare ad Inghilterra che non sarebbe caduto in uno dei suoi soliti giochetti. Sarebbe rimasto lì, seduto a terra senza fare niente, finché l’altro non si fosse stancato di quell’assurdità: se voleva spaventarlo e ridere alle sue spalle, non gli avrebbe dato nessuna soddisfazione.
Si era appena appoggiato alla parete, pronto a lasciarsi cadere a gambe incrociate sul pavimento, quando accadde qualcosa che mandò all’aria all’istante i suoi propositi: un grido lacerò l’aria, carico di una tale angoscia e sofferenza che Alfred non poté ignorarlo neanche volendo. Balzò in piedi di scatto, voltandosi prima a destra poi a sinistra per capire da dove proveniva il rumore e, una volta individuato, si precipitò in quella direzione. Era un eroe, non poteva permettere che a qualcuno venisse fatto del male impunemente, che si trattasse di un giochino di Arthur o meno. Quando la sua corsa venne interrotta da una scala ancora più buia del corridoio in cui si trovava, la scese senza esitazione per giungere in un ambiente angusto e permeato da un fetore nauseabondo: odore di marcio, come se qualcosa fosse rimasto troppo in acqua, misto a quello della salsedine e a quello più pungente e ferroso del sangue. Una grata dall’aspetto arrugginito divideva la scala da quella che sembrava una piccola cella e proprio lì si trovavano due persone. Una vestita di tutto punto con abiti chiaramente d’epoca, anche se scarsamente identificabili nella fioca luce dell’ennesima torcia, e l’altra incatenata alla parete, con la schiena scoperta segnata da orribili ferite. Il pavimento stesso era scuro di sangue rappreso e vi spiccavano alcune macchie rosse chiaramente più recenti. La prima figura, che impugnava una frusta, non si poneva problemi a far schioccare quest’ultima alternativamente ai lati del corpo e sulla schiena del prigioniero, ghignando ferocemente.
America era inorridito: sebbene fosse una nazione giovane aveva già assistito alla sua buona parte di orrori, ma tutta quella violenza e quella crudeltà all’apparenza gratuita non poteva tollerarle. Stava già muovendo un passo verso i due, quando il volto stravolto della vittima si voltò nella sua direzione, bloccandolo sul posto a causa dell’improvviso riconoscimento.
Spagna?! Se quello era Spagna, allora l’altro era…?
«Guarda, guarda, cos’abbiamo qui! Un topolino. »
Alfred fece appena in tempo a voltarsi e a rendersi conto che un tipaccio grosso il doppio di lui era arrivato alle sue spalle senza che nemmeno lo sentisse, che quello lo afferrò per le braccia, piegandogliele malamente dietro la schiena, e lo spinse nella cella.
«Capitano, perdonate l’interruzione, ma a quanto pare avevate uno spettatore fin troppo interessato.» grugnì.
L’uomo con la frusta abbandonò per un istante il suo macabro divertimento e si voltò verso di loro, confermando le peggiori ipotesi di Alfred e lasciandolo pressoché gelato sul posto.
«Inghilterra…» iniziò.
Ora che era più vicino poteva distinguere l’abbigliamento sfacciatamente piratesco, la giacca ricca di ricami dorati, la sciabola che pendeva dal suo fianco e i mille fili di perline intrecciati tra la bandana che gli copriva la fronte e i capelli biondi inaspettatamente lunghi. L’estremità della frusta grondava sangue: se era uno scherzo, non era affatto divertente.
«È un gioco? Una stupida ripicca? » continuò. «Ok, ho capito, sono un idiota e mi dispiace. Adesso smettila con questa messinscena. »
Lo sguardo glaciale che ricevette in risposta non prometteva niente di buono e l’energumeno alle sue spalle lo scosse brutalmente.
«Ehi, tu, inutile feccia! Come osi rivolgerti con quel tono al capitano? »
Per quanto Alfred non si fosse mai considerato una cima quanto ad acume e intuito, gli stava diventando sempre più chiaro il fatto che non si trattasse per nulla di uno scherzo o di un gioco.
Arthur si avvicinò alzandogli il mento con il manico della frusta, in modo da poter incrociare il suo sguardo.
«Un clandestino. » mormorò con voce che grondava disprezzo. «Un clandestino che conosce la mia identità e osa rivolgersi a me con tanta disinvoltura. Nessuno si è mai spinto a tanto sulla mia nave.»
Si rivolse quindi all’uomo.
«Tu! Portalo in coperta! Voglio vedere la faccia tosta di questo topo di fogna alla luce del sole. »
«Cos… No! Inghilterra! Arthur! Non mi riconosci? Andiamo, sono io! Sono America, non… non puoi esserti dimenticato di me! »
L’ansia iniziava ad attanagliarlo davvero: la situazione in cui si trovava era assurda, quella non poteva essere una vera nave pirata, avrebbe significato un salto nel passato di almeno cinque secoli e se fosse stato davvero così…
Venne trascinato su per le ripide scale e per i corridoi fumosi, fino ad una porta massiccia che l’omone aprì senza il minimo sforzo, per poi gettarlo sul ponte di umide assi di legno. La luce del sole, improvvisa dopo tutta quell’oscurità, lo accecò, costringendolo a ripararsi gli occhi e il riverbero sull’acqua gli confermò il luogo in cui si trovava. Era davvero su una nave in mezzo al mare!
Una dozzina di uomini si raccolse attorno a loro, con aria malconcia e feroce, ma il sopraggiungere di Arthur sembrò scoraggiarli da qualunque azione. L’inglese aveva abbandonato le torture a Spagna per potersi occupare di lui e Alfred non sapeva se provare sollievo per Antonio o timore per sé stesso.
«Allora! » esclamò Inghilterra estraendo la sciabola e piantandola con forza nelle tavole del ponte, un’espressione di sadica aspettativa sul volto. Il tricorno piumato, recuperato da chissà dove, gli ombreggiava lo sguardo, rendendolo ancora più inquietante. «Nella mia lunga carriera per mare i clandestini sulla mia nave si possono contare sulle dita di una mano e nessuno ha avuto il privilegio di raccontarlo. Non ho intenzione di perdere tempo a chiederti il motivo della tua presenza, oggi è un giorno glorioso per la grande Britannia ed ho prigionieri ben più interessanti di un topo di cui occuparmi. Mettetelo ai ceppi e appendetelo all’albero. »
Un ordine secco e perentorio che gettò Alfred nel panico.
«NO! » esclamò d’impulso gettandosi in avanti, ma venne trattenuto da alcuni uomini.
Se quella era la data della sconfitta dell’Invencible Armada spagnola da parte della flotta britannica, significava che era l’anno 1588 e che le tredici colonie americane erano ancora lungi dall’essere fondate. Poteva essere il motivo per cui Inghilterra si rifiutava di riconoscerlo.
«Aspetta! Ascolta! Non sono un clandestino! Conosco la tua natura perché sono come te! Io sono…»
Gli costava uno sforzo immenso dire una cosa del genere, ma ne andava della pelle e, anche se era una nazione immortale, non aveva idea di come funzionasse la cosa in un passato in cui lui stesso ancora non esisteva come tale.
«Sono una tua colonia! »
Quelle parole sembrarono attirare l’attenzione de capitano che, per lo meno, tornò a voltarsi e a studiare il suo volto, appoggiandosi alla sciabola e sporgendosi verso di lui.
«Sei uno sporco bugiardo. Conosco a menadito tutte le mie colonie, d’Africa e d’Asia, e tu non assomigli a nessuna di loro. »
«Perché sono America! Sai, le Indie Occidentali o come diavolo le chiamate voi. »
Se avesse aggiunto che veniva dal futuro, pronosticando qualche avvenimento non ancora accaduto, come minimo quell’Arthur lo avrebbe passato da parte a parte con la spada, quindi preferì tacere sulla storica relazione che li legava.
Inghilterra sputò sul ponte.
«Quei territori sono ancora parzialmente inesplorati, non ho possedimenti laggiù, non ancora almeno. In ogni caso questo non spiega né giustifica la tua presenza. Per me resti un clandestino. »
Tornò a rivolgersi agli uomini che scalpitavano, impazienti probabilmente dello spettacolo di un’esecuzione, e fece un rapido gesto della mano che li zittì.
«Portatelo nella mia cabina e assicuratevi che i ceppi e le catene siano robusti. Voglio approfondire questa faccenda. »
Alfred non ebbe nemmeno la possibilità di ribattere che venne trascinato via da quella marmaglia, mentre Arthur spariva di nuovo sottocoperta, probabilmente a portare a termine quello che aveva interrotto.
La cabina sorgeva a poppa della nave ed era arredata con uno sfarzo che Alfred non si sarebbe mai immaginato su una nave di quei tempi, se non fossero stati in mare aperto avrebbe tranquillamente creduto di trovarsi in qualche salotto d’epoca inglese, anche se mancava quel tocco di finezza per rendere l’illusione plausibile. Qua e là, sotto le stoffe preziose e i mobili pregiati, erano ben evidenti i segni della crudeltà del suo proprietario: sciabole, spade lunghe, pistole, pugnali, catene e strumenti ferruginosi di cui non voleva conoscere lo scopo. Tutto a portata di mano per essere afferrato al volo prima di gettarsi in battaglia o all’arrembaggio.
Fu lo stesso energumeno che lo aveva sorpreso nella stiva a spingerlo all’interno, tenendo alla larga gli altri marinai con modi bruschi e spicci.
«Fuori dai piedi, marmaglia, questa è merce del capitano! »
Afferrò un paio di pesanti ceppi di ferro che giacevano sul pavimento collegati ad una lunga catena e gli bloccò i polsi nonostante Alfred tentasse in tutti i modi di divincolarsi. Quei dannati affari pesavano una tonnellata e gli rendevano difficoltosi i movimenti, il tutto venne peggiorato dalla grossa catena che il pirata fissò ad un anello che porgeva dal muro e che permetteva solo pochi passi.
«Ehi, senti, io sono davvero una conoscenza di Art… del capitano! » esclamò Alfred in un ultimo tentativo. «Non sono un clandestino! Non so nemmeno perché sono qui! La magia di Inghilterra la conoscete tutti, no? Ecco…»
Quello però si limitò a rifilargli un violento scrollone che per poco non lo gettò a terra e ad andarsene chiudendosi al porta alle spalle, senza ascoltare una parola di quella bizzarra giustificazione.
Alfred crollò a sedere sul pavimento. Non sapeva cosa fare: aveva avuto varie esperienze di situazioni d’emergenza ed aveva anche un buon addestramento su come cavarsela in zone di guerra, ma non avrebbe mai immaginato di trovarsi disarmato su una nave pirata cinquecentesca, piena di gente che voleva fargli la pelle. Inoltre, ricordando le parole di Arthur, il vero Arthur, doveva ammettere che davvero non conosceva quel lato del suo carattere e della sua storia se non attraverso i libri, e trovarsi di fronte quell’uomo spietato, così diverso dal suo compagno dei tempi presenti, lo spiazzava e, sì, lo spaventava anche. Tentò più volte di rompere quella catena o spezzare i ceppi che lo imprigionavano, con la sua abituale forza avrebbe dovuto essere un gioco da ragazzi, ma non vi fu verso. O erano troppo robusti o c’era qualcosa in lui che non andava. Non si sentiva fisicamente più debole del solito, ma per qualche strano motivo non riusciva ad esercitare la sua consueta energia. Non poteva fare altro che aspettare il ritorno di Arthur e sperare che questa volta lui gli desse ascolto.
L’attesa non si rivelò lunga, infatti poco dopo la porta sbatté e il capitano pirata fece il suo ingresso portandosi dietro un inquietante scia di odore di sangue.
«Veniamo a noi. » esordì gettando la frusta in un angolo e pulendosi le mani su un drappo di stoffa.
Le macchie che vi rimasero erano indubbiamente scarlatte.
Avvicinandosi ad America, lo afferrò per la maglietta e lo costrinse ad alzare lo sguardo nella sua direzione.
«Golden hair and beautiful blue eyes... Se fossi stato davvero una mia colonia, non mi sarei certo scordato di te. » commentò, con un tono che fece rabbrividire Alfred.
Non poteva fare altro che tentare ancora di convincere Arthur a parole, anche se l’altro non sembrava affatto propenso ad ascoltarlo.
«Forse non mi ricordi perché… perché… mi conosci con un aspetto diverso! Ma non sono tuo nemico. Possiamo andare d’accordo, non è necessaria questa violenza. Andiamo, Arthie, non voglio farti del male! »
«Arthie?! » inorridì il suo interlocutore con un’espressione terribile. «Ti prendi gioco di me? Come se tu fossi nelle condizioni di farmi del male! »
La presa sulla stoffa si fece più salda, fino quasi a sollevarlo di peso e a trascinarlo attraverso la stanza.
Quando Alfred si sentì spingere sul letto si chiese da dove venisse tutta quella forza. L’Arthur che conosceva lui non era mai stato così vigoroso, non al punto da riuscire ad impedire i suoi movimenti, almeno. Era davvero strano eppure questo Arthur riusciva a tenerlo fermo semplicemente premendo una mano sulla sua nuca, in modo da bloccarlo a faccia in giù, e al resto pensavano i pesanti ceppi di ferro che si trovava attorno ai polsi. Nella mente confusa e allarmata di Alfred si affacciò una sola ipotesi: a quel tempo l’Inghilterra era la maggiore potenza mondiale, la sua flotta era impareggiabile, la sua autorità militare senza eguali, ed era molto probabile che tutto questo si riflettesse sulla forza fisica del suo rappresentate. Al contrario l’America era solo una piccola colonia, anzi, ancora nemmeno quello, non avrebbe mai potuto tenere testa alla madrepatria.
Se solo Arthur gli avesse dato ascolto, se solo gli avesse creduto, non avrebbe mai fatto del male alla sua piccola e amata America. Ma la realtà era ben diversa ed Alfred capì che presto l’avrebbe sperimentata sulla sua pelle. Davanti agli occhi gli scorsero le immagini delle torture inflitte a Spagna e si chiese se anche lui avrebbe dovuto subire quel tipo di violenze o se, come sembrava dalle intenzioni del capitano, ad attenderlo erano ben altro genere di sevizie.
«Quei pochi che hanno osato mettere piede sulla mia nave come clandestini, hanno penzolato dall’albero maestro per giorni. » iniziò l’inglese in tono tutt’altro che rassicurante. «Ma suppongo che tu lo sappia visto che sostieni di conoscermi. Quindi saprai anche che se c’è una cosa che detesto più dei clandestini, e degli spagnoli, of course, sono i bugiardi. Tuttavia non ho ferri roventi o corde da sprecare per te, ne abbiamo utilizzati troppi nell’ultimo arrembaggio, quindi dovrai attendere fino al prossimo rifornimento. Nel frattempo, poiché sostieni di essere un mio possedimento, vedrò di possederti come si deve. »
Alfred sgranò gli occhi mentre Arthur armeggiava con la chiusura dei suoi pantaloni, sempre tenendolo bloccato contro il materasso.
«Che razza di dannata stoffa è mai questa? » lo sentì ringhiare mentre incontrava la resistenza dei jeans.
Quando finalmente ne vinse la robustezza, li abbassò con un solo gesto secco insieme alla biancheria. Alfred avrebbe voluto gridargli di smetterla di comportarsi da idiota dominatore, che non era il suo ruolo e che stava iniziando a fargli paura, ma la faccia premuta contro il lenzuolo gli consentiva a malapena di respirare.
«Niente male davvero…» lo sentì mormorare con una certa lascivia, mentre la mano libera si posava senza pudore su una sua natica.
Un brivido gli corse lungo la schiena, dal punto in cui lo aveva toccato fino alla nuca. Ah, dannazione, andava male, molto male. Non che Alfred non sapesse come gestire la situazione ma, in tutta sincerità, avrebbe preferito di gran lunga un’inversione delle parti perché… Oh, non scherziamo, la verità era che non era mai stato quello sottomesso, nemmeno nei giochetti più perversi che il suo compagno riusciva a inventare, e questo lo terrorizzava.
Ebbe chiaro che Inghilterra, il grande Impero Britannico, non scherzava affatto nel momento in cui lo vide sporgersi verso un mobiletto accanto al letto, aprire un piccolo scomparto ed estrarne una bottiglietta apparentemente d’olio.
«Anche se ti ritengo un bugiardo patentato, non intendo correre il rischio di danneggiare un mio territorio. » sentenziò, e Alfred avrebbe riso se la situazione fosse stata meno drammatica.
Immobilizzato a causa della catena che gli bloccava i polsi alla testiera del letto, del tutto succube delle mani dell’inglese che lo costrinsero a sollevare il bacino e allargare le gambe, si morse un labbro per non lasciarsi sfuggire un’alta esclamazione quando sentì il primo dito farsi strada dentro di lui, irrigidendo istintivamente tutto il corpo. No, non si sarebbe lamentato, non avrebbe dato quella soddisfazione a quel vecchio pervertito.
«Così è peggio. » sentì mormorare da Arthur direttamente al suo orecchio. «Rilassati o finirai per farti più male del dovuto. »
Certo, era facile parlare per lui, non aveva un dito infilato…
Alfred si bloccò a metà pensiero, realizzando che, al contrario, quella era esattamente la situazione in cui Arthur si trovava ogni volta che andavano a letto insieme e lui stesso, spesso e volentieri, aveva avuto di che lamentarsi, definendolo noioso e poco collaborativo. Era stato un idiota. Un idiota pretenzioso, che non aveva tenuto conto dei sentimenti e dei limiti fisici del suo compagno. Non appena avesse rivisto Arthur, il vero Arthur, quello del suo tempo, si sarebbe scusato e gli avrebbe giurato che non avrebbe mai più insistito con le sue pretese.
Nel frattempo un secondo dito si unì al primo, agevolato dall’olio che lo ricopriva, e, percependone i movimenti, Alfred iniziò ad avvertire un nodo di calore nel basso ventre. Era assurdo come il suo respiro si fosse appesantito, come le guance fossero in fiamme e la sua eccitazione sempre più evidente. Dal canto suo Arthur ne sembrava soddisfatto e ghignò mentre si chinava sul suo orecchio sussurrando con voce roca: «Non trovi che sia un padrone premuroso a permettere alle mie colonie di godere dei privilegi della madrepatria? »
«Privilegi, un corno! » avrebbe voluto gridare America, ignorando il doppio senso, più che consapevole di cosa aveva portato alla sua ribellione, ma non ne ebbe modo.
La sua voce si spezzò nel momento in cui le dita dentro di lui vennero sostituite da qualcosa di decisamente più consistente che si spinse in profondità nella sua carne, strappandogli un grido di dolore nonostante il lubrificante e i propositi di dignità. Propositi che finirono bellamente in fumo nel momento in cui Arthur iniziò a muoversi trasformando lentamente, molto lentamente, il dolore in piacere. Piccole lacrime erano spuntate agli angoli dei suoi occhi, mentre i gemiti, impossibili ormai da trattenere, riempivano la cabina accompagnati dagli ansiti rochi del capitano. Era Arthur, si ripeteva Alfred in ogni singolo istante di lucidità, era Arthur quello che lo stava possedendo con tanta passione mascherata da brutalità, il suo Arthur, e la consapevolezza era sconvolgente per più motivi di quanti credesse possibile.
Preso dalla foga di quel rapporto trascinante quasi non si rese conto della piccola chiave che era spuntata nelle mani dell’inglese per far scattare la serratura delle manette. Lo realizzò solo quando si trovò le mani libere e Arthur lo indusse a girarsi, in modo che si trovassero faccia a faccia. Alfred sentì le guance andare a fuoco non appena incontrò lo sguardo smeraldino dell’inglese e si trovò a sollevare le braccia per circondargli istintivamente il collo e nascondere il volto nell’incavo della sua spalla: non voleva che lo vedesse, non in quello stato, anche se era stato lui a provocarlo. Dal canto suo Inghilterra gli permise di stringerlo quanto voleva, non lesinando gli affondi finché non ebbe la soddisfazione di sentir trasformato ogni movimento in un’invocazione del suo nome.
Alfred giunse all’apice poco prima che l’inglese uscisse da lui, lasciandolo ansimante e accasciato materasso, completamente esausto. Si sforzò di guardare nella direzione del suo aguzzino e scoprì che anche Inghilterra aveva le guance arrossate per lo sforzo e un’espressione di puro piacere sul volto mentre ricomponeva il proprio abbigliamento.
«Niente male davvero. » lo sentì ripetere tra sé, a conferma del giudizio precedente. «Non ho ancora idea se tu sia davvero una mia colonia, ma è chiaro che il tuo territorio offre piaceri che mi riserverò di sperimentare nuovamente. Questa sera. »
Detto questo si diresse verso la porta e lasciò la stanza. Solo quando il rimbombo dei suoi stivali sulle assi di legno si affievolì, Alfred osò muoversi, tentando di riportare ad una parvenza di decenza i suoi vestiti. Con le mani ancora incerte per l’eccesso di adrenalina appena sperimentato fu un’impresa recuperare i jeans rimasi aggrovigliati attorno ad una caviglia, soprattutto perché il tremito non accennava a lasciarlo. Era stato spaventoso vedere Inghilterra in quelle vesti ma, in un modo che lo lasciava quasi inorridito, era stato anche oltremodo eccitante. E doloroso. E pazzesco. E terribile. Ed incredibile. Un mix di emozioni che lo lasciava stordito. Non era certo di volerlo verificare tanto presto, non quella sera almeno, ma non era nemmeno sicuro di aver odiato quell’esperienza, tutt’altro. Tutto ciò che scatenava la sua adrenalina, era degno di essere apprezzato.
Questo però non lo aveva distolto dal suo obiettivo di tornare nel presente: non poteva rimanere lì, troppa gente aveva bisogno di lui, senza contare che doveva scusarsi con Arthur.
Mentre ragionava su quanti modi esistessero per fuggire da una nave in mare aperto, ebbe l’impressione che la sua vista si sfuocasse. Si strofinò gli occhi un paio di volte ma lo strano effetto permase finché tutto non fu avvolto dalla nebbia. Com’era accaduto all’inizio, una luce inattesa lo colpì poi, all’improvviso, qualcosa di pesante gli precipitò addosso facendogli sbattere la testa sul pavimento.
«Alfreeeed! »
Quando America aprì gli occhi, si trovò Inghilterra, avvolto in un semplice lenzuolo, letteralmente seduto in braccio che lo stringeva e lo ricopriva di baci e carezze all’apparenza disperate.
«Stai bene? Ti hanno ferito? Ti hanno fatto del male? Oh, mi dispiace! Non volevo! Non era quello che intendevo! Ero fuori di me! »
Solo quando America riuscì a calmarlo rassicurandolo sul fatto che era tutto intero, l’inglese gli spiegò che c’era stato un errore nell’incantesimo che, invece di evocare una copia di Arthur pirata, aveva spedito Alfred su una nave cinquecentesca. Resosene conto e ben consapevole di cosa questo significasse, Inghilterra era impazzito per la preoccupazione fino a quando non aveva trovato un contro incantesimo adatto.
Di nuovo ci volle un bel po’ per scansare le domande insistenti su cosa fosse successo a bordo, ma questa volta America stupì l’altra nazione scusandosi come si era prefissato.
«Cosa sia accaduto non ha importanza e non te ne devi preoccupare, però mi ha fatto capire dove sbagliavo e cosa intendevi quando hai detto che pensavo solo a me stesso. Quindi ti chiedo scusa, perché quando gli eroi sbagliano devono essere in grado di riconoscere il loro torto. »
Per lo meno ebbe la soddisfazione di vedere l’espressione stupita e incredula di Inghilterra, anche se, in effetti, loro due avevano un conto in sospeso.
«Ehi, Arthie, a proposito! Non è che hai ancora da qualche parte la tua vecchia giacca da pirata e il tricorno piumato? » si ritrovò a chiedere con aria forse troppo compiaciuta.
«Si può sapere cosa diavolo è successo su quella dannata nave?! » sbottò Inghilterra di rimando, iniziando a sentirsi, per assurdo, geloso di sé stesso.

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