Titolo: My Infinite Variety (A Case of Identity)
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson
Rating: R
Conteggio parole: 41.410 (W)
Parte: 4/5
Warning: Slash, what if, qualcos'altro che ora non mi viene in mente
Note: What if su EMPT.
Scritta per:
bigbangitalia, seconda edizione.
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5 Fu così che, alle nove e mezza, mi ritrovai con Richard Woodley all’ingresso del Cavendish club. Woodley era membro, e mi presentò come suo amico, usando il nome falso che avevamo concordato. Trovavo improbabile che Moran potesse insospettirsi sulla sola base del mio nome, ma la fama di Sherlock Holmes aveva rapidamente fatto il giro della città e tutti ci eravamo trovati d’accordo che non vi era ragione di rischiare.
La sala era moderatamente affollata, e l’arrivo di Woodley scatenò una piccola agitazione. La notizia della sua aggressione era nota a tutti, ovviamente, e tutti volevano saperne qualcosa di più. Mentre un folto capannello di gentiluomini circondava Woodley, e me indirettamente, intravidi Moran in procinto di alzarsi da un tavolo in fondo alla sala.
Non l’avevo mai incontrato personalmente, ma Holmes me l’aveva descritto. Era un uomo impressionante, in tutte le maniere più sbagliate. All’apparenza era un gentiluomo dei più distinti, ma il suo volto tradiva parecchio della malvagità che risiedeva all’interno. Era un volto tremendamente virile e al tempo stesso sinistro. Con la fronte di un filosofo e la bocca di un lascivo, doveva aver cominciato la sua vita con immense possibilità di fare ugualmente il bene o il male. Ma non era possibile guardare quei crudeli occhi azzurri, con le palpebre pesanti e ciniche, o quel naso aggressivo e feroce, o la fronte minacciosa e segnata, senza leggervi i più chiari segnali di pericolo, messi apposta da Madre Natura.
Quest’uomo terribile si alzò dunque dalla sedia e levò i suoi occhi glaciali sul mio compagno. In quel momento la sorte volle che anche Woodley distogliesse lo sguardo dal gentiluomo a cui stava parlando e incrociasse quello di Moran. L’effetto fu elettrico. Gli occhi di Moran si fecero cupi, le sue guance si riempirono di ombre. Fissò Woodley con un’espressione in cui odio e sorpresa erano ugualmente mescolati.
Il giovane era stato fino a quel momento calmo e saldo, ma quando si portò il fiammifero alla sigaretta vidi che le mani gli tremavano, e la cosa non passò inosservata. Gli battei un colpetto sulla spalla. “Non è nulla,” dissi a voce alta. “Un piccolo effetto collaterale della ferita. È stato sfiorato un nervo,” improvvisai, e se qualcuno aveva le nozioni mediche utili a correggermi, dovette pensare che volevo risparmiare a Woodley la vergogna di far sapere a tutti che era ancora profondamente scosso.
Quando Moran si avvicinò, i gentiluomini erano quasi tutti tornati ai propri tavoli. Woodley gli strinse la mano con decisione disperata. Io, per conto mio, mi sentii attentamente soppesato e tenuto ai margini, sotto controllo. Moran era come un predatore che resta consapevole di tutti i possibili nemici nel suo raggio d’azione anche quando si concentra su uno solo di essi.
“Richard,” disse con un pesante sollievo nella voce, come un grosso sospiro. “Ma che mi combini? Mi è quasi preso un colpo, stamattina, quando ho aperto il giornale.” Gli appoggiò la mano libera sul braccio, con una familiarità che mi parve eccessiva, ma non ingiustificata se i due avevano davvero dei trascorsi.
“Ne sono sicuro,” rispose Woodley, abbozzando un sorriso tirato. “Ma non è così facile farmi fuori, colonnello.”
Era ovvio, tremendamente ovvio. I denti di Woodley erano tanto serrati che mi parve di sentirli scricchiolare. Discretamente, gli appoggiai una mano sul polso e lo strinsi per comunicargli di rilassarsi.
“Colonnello,” disse Woodley, “posso presentarle il dottor Roxborough? È un amico di famiglia. Gli hanno affidato l’ingrato compito di farmi da balia, casomai qualche pazzo dovesse di nuovo tentare di entrare nella mia camera da letto e bruciarmi le cervella.”
“Oh, andiamo, Woodley,” replicai, con tutto il buon umore che riuscii a tirar fuori, “le cose non stanno affatto così.” Gli poggiai una mano sulla spalla. “Il ragazzo è ancora debole,” dissi a Moran, come parlando in confidenza. “I suoi parenti si sentivano più sicuri sapendo che lo accompagnava un dottore.”
“Lei è stato militare,” osservò Moran, guardandomi appena. Non era una domanda.
“Afghanistan. Come faceva a saperlo?”
“Guardandola. Si può smettere di essere medico, o pittore, o primo ministro. Soldato, lo si è tutta la vita.”
Risi. “Ha proprio ragione.”
“Qualche progresso nelle indagini?” chiese Moran. “Qualche sospetto?”
“Uno, sì,” rispose Woodley, con voce che grondava veleno. “È certo, ormai. Ci sono tutte le prove. Mi è stato assicurato che avremo un’impiccagione entro la fine dell’estate.”
Questa non era, tecnicamente, una bugia. Avevo sentito io stesso Holmes fare una stima del genere di fronte al ragazzo.
Le labbra di Moran sembravano come risucchiate all’interno della bocca. “Che splendida notizia,” disse lentamente, come assaporando un cibo cattivo.
“Allora,” dissi, “dal momento che ha tanto insistito per venire a giocare, Woodley, perché non cominciare? Colonnello?”
Cominciammo con una partita di whist - Moran faceva coppia con un certo Mr. Vaughan - e giocammo pressoché senza sosta fino alle undici passate. Sono un giocatore discreto, e tutto sommato credo che avrei potuto apprezzare la serata, forse perfino divertirmi, non fosse stato per la presenza opprimente di Moran al tavolo. Woodley se la cavava in maniera ammirevole, ma il povero ragazzo era terrorizzato. Non sembrava escludere del tutto la possibilità che Moran traesse il revolver dalla tasca e gli sparasse lì sul posto, di fronte a tutto il Cavendish.
Alle undici e mezza lasciammo il club. Una carrozza attendeva di fronte alla porta, e mi ero aspettato che Holmes si trovasse già all’interno, ma di lui non vi era traccia. La cosa mi allarmò leggermente, anche se lo tenni per me. Woodley, invece, si agitò inquieto al mio fianco.
“Aveva detto che ci avrebbe raggiunto fuori dal club, non è così?” mormorò. “L’ha sentito anche lei, vero, dottore?”
“Sì,” ammisi. “Ma non si preoccupi. Holmes sa quello che fa.”
“Lo chiama sempre così?” domandò Woodley, lasciando da parte l’apprensione per un momento. “Quando siete soli? Voglio dire, in pubblico lo capisco, l’immagine. Ma in privato…?”
Mi domandai per un attimo di cosa stesse parlando, prima di rammentare che ‘Sherlock Holmes’ era per tutti uno pseudonimo. “Oh, no. Certamente no.”
“E come…?”
“Temo di non poterglielo dire. Mi scusi.”
“Oh, no, no. Lei scusi me. Non volevo essere invadente.” Si massaggiò una mano con l’altra, nervoso. “Avrei voluto conoscerla in un’altra occasione, dottore. Mi perdoni se non gliel’ho detto prima, ma sono un grande ammiratore delle sue storie. La lega dei capelli rossi, credo sia il mio preferito in assoluto.”
Sorrisi. “È anche il mio.”
“Davvero? Sa, io in realtà lo sospettavo di già. C’erano alcune frasi, alcune espressioni… È stato Ronnie a farmi conoscere i suoi racconti, e lui ne era certissimo. Io non ero così convinto, ma quando vi ho visto insieme, ho pensato: ‘Ecco, non c’è dubbio, è proprio così. Holmes e Watson. Era ovvio, a pensarci’. Sono molto contento di averla conosciuta, dottore, di avervi conosciuti entrambi. Capisce cosa voglio dire?”
Il mio sorriso si era pietrificato. “No, temo di no.”
“No, no,” si affrettò ad aggiungere Woodley, fraintendendo. “Non si preoccupi. Sono certo che non è evidente per nessun altro. Per nessuno che potrebbe darvi noie.”
“Mr. Woodley, sono certo che lei ha le migliori intenzioni, ma le assicuro che si sbaglia.”
“Va bene,” disse, leggermente deluso. “Mi scusi. Ma non ha nulla da temere da me. Ho detto delle cose, a lei e a Mr. Holmes… cose che non sa nessun altro. Di Ronnie e me. Mi può credere, non ha nulla da temere.”
“Mr. Woodley…”
“È solo che prima, a casa, ho visto come lo guardava. E ho ripensato… No, mi perdoni davvero. Starò zitto.” Si coprì la bocca con una mano, appoggiandosi al fianco della carrozza.
“Sono addolorato per la morte del suo compagno,” gli dissi lentamente, in poco più che un sussurro. “Posso capire. Mia moglie è morta tre anni fa. E mi creda, non la giudico. Ognuno di noi è come Dio l’ha fatto. Ma le dico che si sbaglia riguardo a me e Holmes.”
Woodley mi guardò, la sorpresa scintillante negli occhi umidi. “Ma lui la ama, certamente,” mormorò.
Scossi la testa, turbato. “Non lo so.”
Non parlammo più. I cancelli della villa degli Adair si stagliavano già in fondo al viale, e fu cosa di un momento raggiungerli e smontare dalla carrozza.
Quando sollevai il braccio per dare al vetturino il suo compenso, questi - invece di prendere il denaro - mi afferrò il polso, e con la mano libera sollevò il cappello dagli occhi. Era Sherlock Holmes.
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Mi sembrò di ritrovarmi in uno dei miei racconti quando, lasciato Woodley a casa, mi ritrovai spalla a spalla con Holmes per le vie notturne di Londra, il revolver in tasca e il brivido dell’avventura nel cuore. Holmes era freddo e grave e silenzioso. Quando il luccichio dei lampioni brillava sui suoi lineamenti austeri, potevo vedere che le sue sopracciglia erano contratte in meditazione e le labbra sottili compresse in una linea.
Non avevo idea di dove stessimo andando, ma non aveva alcuna importanza. Osservai Holmes mentre si guardava con estrema circospezione a destra e a sinistra, e a ogni angolo si accertava col massimo scrupolo di non essere seguito. La sua conoscenza delle viuzze di Londra era straordinaria, e in questa occasione egli passò rapidamente e con passo sicuro attraverso una rete di stalle e scuderie di cui fino a quel momento avevo ignorato l’esistenza. Emergemmo infine in una stradina orlata di vecchie case dall’aria tetra, dove Holmes svoltò decisamente giù per uno stretto vicolo, attraversò un cancello di legno che dava in un cortile deserto, e poi aprì con una chiave la porta sul retro di una casa. Entrammo insieme, ed egli la chiuse alle nostre spalle.
Il posto era completamente al buio, ma mi risultò evidente che si trattava di una casa disabitata. I nostri passi scricchiolavano e crepitavano sulle assi nude, e la mia mano tesa toccò un muro dal quale la tappezzeria pendeva in grossi riccioli. Le dita fredde e sottili di Holmes si chiusero intorno al mio polso e mi guidarono per un lungo corridoio, finché non scorsi a fatica la torbida lama di luce oltre una porta. Qui Holmes voltò improvvisamente sulla destra, e ci trovammo in un’ampia stanza quadrata, vuota, con profonde ombre negli angoli, ma debolmente rischiarata al centro dalle luci della strada dabbasso. Non c’erano lampade vicine, e la finestra era ricoperta di polvere spessa, cosicché potevamo solo distinguere le rispettive figure.
Il mio compagno mi appoggiò una mano sulla spalla e le labbra vicino all’orecchio. Il calore del suo fiato, completamente inaspettato, mi fece quasi trasalire, ma non mi mossi.
“Sa dove siamo?” sussurrò.
“Park Lane,” risposi, sporgendo appena il mento per guardare fuori dalla finestra opaca - e per cercare una minima salvezza dalla sua vicinanza.
“Esattamente. Siamo di fronte alla villa degli Adair.”
“Ma perché siamo qui?”
“Perché permette una visuale eccellente. Posso chiederle, mio caro, di avvicinarsi un poco alla finestra, stando attentissimo a non farsi vedere, e dare un’occhiata alla prima finestra al secondo piano? È l’unica illuminata.”
Feci un passo avanti e guardai nella direzione indicata. Le tende erano tirate, e una forte luce brillava nella stanza. L’ombra di un uomo seduto in poltrona era proiettata in una rigida sagoma scura sullo schermo luminoso della finestra. Non era possibile confondere la posa della testa, la larghezza delle spalle, la regolarità mascolina dei lineamenti. Era Richard Woodley, o - mi sovvenne - piuttosto la sua fedele riproduzione.
In quella, vidi l’ombra muoversi. “Holmes,” mormorai con improvvisa apprensione. “È Woodley? Perché sta alla finestra, quando lei gli ha detto…?”
“Non è Woodley.”
“Ma si è mosso.”
“Certo che si è mosso,” rispose Holmes, con una certa impazienza. “Le sembro un idiota da operetta? Potrei mettere lì un manichino e aspettarmi che uno degli uomini più intelligenti d’Europa ci caschi? Westwood ha l’incarico di ruotare il busto ogni quarto d’ora.”
Il mio corpo parve ricordarsi in quell’istante che ero immerso in una pozza di oscurità, privo del contatto di un altro essere umano, e mi comunicò il suo disagio con un brivido. Istintivamente, tesi una mano indietro per accertarmi che Holmes fosse ancora vicino a me. Incontrai il suo stomaco, ed egli si avvicinò, appoggiandomi cinque dita leggere sul braccio.
Il buio sembrava esigere con voce gentile confessioni sussurrate. Sospirai. Holmes era vicinissimo. Sentii i suoi capelli sfiorarmi la tempia, pesanti e compatti, profumati di brillantina.
“Il giovane Woodley sembra credere che i nostri rapporti siano come quelli che egli aveva col suo amico,” mormorai.
Holmes rimase perfettamente immobile.
“Ritiene che sia già tutto nei miei racconti.”
“E c’è?”
“Non lo so. Se c’è, non ricordo di avercelo messo. Potrei averlo fatto e non saperlo?”
“Non sono un esperto di letteratura.”
“Ma lo crede possibile?”
“Perché ha tanta importanza? Sono solo racconti.”
“Sì. Sì, lo erano, una volta. Ma ora è tutto cambiato. E se lei è tutto ciò che è Sherlock Holmes, se ha la sua intelligenza e le sue conoscenze e le abitudini e i vizi, io mi domando…”
“Non lo faccia.”
“Mi domando, me lo direbbe?”
Holmes tacque. Nel completo silenzio, lo sentii deglutire con sorprendente chiarezza.
“Se me lo chiedessi,” bisbigliò, “non c’è niente che non ti direi.”
Mi voltai. La luce sporca della strada gli illuminava a malapena la fronte e gli zigomi, lasciando in ombra tutto il resto, compresi quei formidabili occhi che tanto mi avevano impressionato al nostro primo incontro, e che ancora non cessavano di avere un profondo effetto su di me. All’interno del bianco della cornea, a malapena distinguibile, potevo immaginarli come due silenziose fornaci invisibili.
Le sue dita mi sfiorarono la gola. Dato che la luce proveniva dalle mie spalle, il mio volto doveva apparirgli completamente in ombra. Sentii il pollice tracciare, con estrema delicatezza, il rilievo del mio zigomo.
Per quello che era, per quello che Sherlock Holmes rappresentava, per l’incredibile energia dei suoi modi e l’autorità della sua figura, il bacio sarebbe potuto provenire da un’altra persona. Avrebbero potuto scambiarsi nel buio, Holmes e l’altro, e credo che non l’avrei trovato più assurdo di quello sfiorarmi appena delle sue labbra, di quella carezza disperatamente gentile. Mi sentii intrappolato nella presenza familiare di Holmes, nell’aroma pungente del suo tabacco e in quello dolciastro della sua brillantina, e forse furono gli istinti di soldato, forse l’agonia di quel bacio che restava ostinatamente ai margini di qualsiasi sensazione, ma levai una mano e la affondai di prepotenza tra i suoi capelli, costringendolo più vicino. D’un tratto Holmes era ovunque potessi sentire, nella mia bocca e nelle mie narici, contro le mie ginocchia, intorno al mio corpo. Emise un suono debolissimo sulle mie labbra, meno di un gemito, meno di un sospiro, meno di un soffio, che mi colmò di tenerezza, e per un tempo lunghissimo rifiutai di lasciarlo andare.
Quando ci separammo, fu lento. Nessuno dei due aveva voglia di parlare, ma sentivo che avrei dovuto dire qualcosa - qualcosa per dare una dimensione all’accaduto, per renderlo anche in minima parte misurabile, comprensibile. Sentivo che la realtà andava sfuggendomi, e dovevo afferrarla prima che fosse troppo tardi.
Ma Holmes mi appoggiò le dita sulla bocca in una carezza reverente, e tutt’a un tratto la carezza divenne una morsa. Sentii l’intera mano coprirmi la bocca in una presa d’acciaio. L’altro braccio di Holmes corse intorno alle mie spalle, ed egli mi tirò nell’angolo più oscuro della stanza, facilmente, poiché la sorpresa aveva annullato l’istinto di reagire.
Finalmente mi accorsi di ciò che i suoi sensi più acuti avevano già colto. Un rumore leggero e furtivo mi giunse alle orecchie, non dalla parte di Park Lane, ma dal retro della casa in cui ci nascondevamo. Una porta si aprì e chiuse. Un attimo dopo, passi lenti procedettero lungo il corridoio - passi che avrebbero voluto essere silenziosi, ma riecheggiavano aspramente per la casa vuota. Holmes si acquattò di nuovo contro il muro ed io feci lo stesso, stringendo la mano intorno all’impugnatura del mio revolver.
Sforzandomi di vedere attraverso la penombra, scorsi la sagoma vaga di un uomo, un po’ più scura dell’oscurità della porta aperta. Era a meno di tre iarde da noi, e mi ero preparato a respingere il suo assalto, quando mi resi conto che non aveva idea della nostra presenza. Ci passò vicino, si accostò alla finestra, e la aprì di pochi centimetri senza fare rumore. Sembrava fuori di sé per l’eccitazione, e pure nel buio non ebbi difficoltà a riconoscere il naso adunco, la barbetta brizzolata, i lineamenti feroci e scuri segnati da linee profonde. Aveva in mano quello che sembrava un bastone, ma quando lo poggiò sul pavimento l’oggetto emise un clangore metallico. Poi estrasse un oggetto voluminoso dalla tasca del soprabito e compì una qualche operazione che risultò in uno scatto netto e rumoroso, come un chiavistello che si incastri al suo posto. Si tirò su e vidi che stringeva nella mano una specie di fucile dal fondo curiosamente deforme. Aprì l’arma, vi inserì qualcosa e la serrò con uno scatto. Poi, tornando in ginocchio, appoggiò l’estremità della canna sul davanzale della finestra aperta e il dito si chiuse intorno al grilletto.
Ci fu uno strano sibilo sonoro e, distante, un tintinnio cristallino di vetri rotti. In quel momento Holmes saltò come una tigre alle spalle del tiratore, e lo spinse a faccia in giù sul pavimento. L’altro fu in piedi in un momento, e con forza violenta lo afferrò alla gola, ma io lo colpii sulla testa col calcio del revolver, e l’uomo ricadde sul pavimento. Mi precipitai su di lui, e mentre lo tenevo il mio compagno soffiò una nota acuta in un fischietto che non l’avevo mai visto portare. Ci fu un chiasso di passi affrettati sul pavimento, e due poliziotti in uniforme e un detective in borghese entrarono nella stanza.
“Brooks?” domandò Holmes, riprendendo fiato.
“Va bene. Va bene, signore, può lasciarlo, ci pensiamo noi,” mi stavano dicendo i due poliziotti, ma mi occorse qualche istante perché i miei muscoli mollassero la presa. Tutta la scena aveva un che di irreale, e quando Holmes tirò le tende per evitare lo sguardo dei curiosi che andavano affollandosi sotto la finestra, l’effetto fu ancora peggiore.
“Chi diavolo è lei?” ansimò il nostro prigioniero, dibattendosi come una fiera in gabbia, ma i due agenti lo tenevano stretto. “Chi diavolo siete? Come vi permettete?”
“Sinceramente, colonnello,” disse Holmes freddamente, “non ero certo che uno stratagemma così semplice potesse bastare contro il miglior cacciatore dell’Impero. Temo che la vita cittadina abbia annacquato i suoi istinti. O forse sono state le carte?”
“Lei!” ringhiò Moran, riconoscendomi. “Lei è il bastardo che accompagnava quella puttanella di Woodley! Avrò cura di rovinarla, dottore, avrò cura di rovinarvi entrambi!”
Contro ogni ragione, poiché Moran fuori di sé era uno spettacolo terrificante a vedersi, sentii le mie labbra distendersi in un sorriso.
“Ed io avrò cura di non mancare all’appuntamento,” risposi.
Frattanto, Holmes aveva raccolto la carabina dal pavimento e ne stava studiando il meccanismo. “Un’arma mirabile, unica,” mormorò. “Van Herder, non è così? Non ho mai avuto l’opportunità di vederne una da vicino. E i proiettili…” Aprì la canna, lasciandosi cadere il proiettile inutilizzato nel palmo. Era un comunissimo semiblindato di piccolo calibro. “Faccia attenzione al suo uomo, ispettore, perché è lo stesso che avete cercato invano per mesi, l’assassino di Ronald Adair. Con quest’arma e la testimonianza di Mr. Woodley non sarà troppo difficile provarlo.”
In men che non si dica ci ritrovammo soli nella casa vuota, proprio come se Moran non ne avesse mai disturbato la quiete spettrale. Quando anche l’ultimo passo si fu esaurito in fondo al corridoio, Holmes emise un profondo sospiro e si afflosciò contro il muro, portandosi una mano al viso.
“Holmes?” esclamai, inginocchiandomi di fronte a lui. “Holmes, è ferito?”
“Sono stato un pazzo,” mormorò, la voce soffocata dal palmo che gli copriva la bocca. “Un pazzo. Non avrei mai dovuto portarti con me. Mio Dio, per un attimo ho pensato che mi avrebbe spezzato il collo. E tu saresti stato il prossimo. Credevo che avrebbe colpito dalla strada, che idiota, tutta Scotland Yard appostata sotto e noi qua sopra morti. Che idiota!” Tirò un pugno tremendo contro il muro alle sue spalle, che rimbombò cupamente.
“Holmes,” mormorai, affrettandomi a prendergli la mano per evitare che ripetesse il gesto. “Non siamo morti.”
“Per poco, e ad ogni modo non per merito mio.”
Sorrisi debolmente. “Ti risulterà difficile crederlo, ma sono un ottimo tiratore. Non credo che ci avrebbe ucciso.”
Holmes mi guardò con aria stravolta. Aveva passato le dita tra i capelli, con rabbia, e non appena le ritirò i ciuffi strappati alla brillantina gli ricaddero sugli occhi, restituendogli dieci anni. Strinsi la sua mano tra le mie, accarezzandone il lato scorticato dal muro, e Holmes parve interdetto per un momento. Poi mi tirò in un abbraccio disperato, soffocante.
“Non vado da nessuna parte,” mormorai, e “Ce l’abbiamo fatta”, e “Ce l’hai fatta”, e “Andiamo a casa”. “Andiamo a casa,” ripetei, sfiorandogli l’orecchio con le labbra, e in tutta onestà intendevo un’altra cosa, ma tra la stanchezza, il terrore che avevo provato nel vederlo con le mani di Moran alla gola, e il sollievo che mi scorreva nelle vene in scariche intossicanti, non riuscii a costringermi a pronunciare le parole.
“Andiamo a casa,” ripetei.
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Ma prima dovemmo visitare gli Adair e rassicurarli che tutto era andato secondo i piani - soprattutto rassicurare Lady Constance e la figlia, che dei piani non sapevano nulla ed erano state destate dal rumore del vetro rotto. Nella camera da letto che era stata di Ronald Adair e poi aveva ospitato Richard Woodley, stava il busto di cera di quest’ultimo, con un foro rotondo in mezzo agli occhi. La pallottola aveva attraversato la cera e si era conficcata nel muro, scavando un piccolo buco nella tappezzeria. Dalle spalle del manichino pendeva una vestaglia di Woodley che questi, profondamente scosso, strappò dalla sua riproduzione e diede ordine di bruciare all’istante.
Erano così le due passate quando facemmo ritorno a Kensington. Holmes aveva smesso di parlare da quando avevamo lasciato Park Lane, ma neppure una volta tentai di forzarlo. Il suo volto parlava di pensieri gravi e profonda stanchezza, e anch’io per parte mia ero esausto.
Salimmo le scale in silenzio e ancora una volta nel buio completo, i passi perfettamente coordinati. Venendo dalle scale, la mia porta era la più vicina, e lì mi fermai. Holmes esitò. Non avevamo parlato di nulla e di certo sarebbe stato il momento di farlo, ma era così terribilmente tardi e non c’era un muscolo del mio corpo che non anelasse il riposo. Aprii la porta ed entrammo, semplicemente, e la richiusi con un giro di chiave.
Accesi la lampada muovendomi tranquillo nel buio familiare della mia stanza. La poltrona nell’angolo vicino alla finestra scricchiolò dolcemente sotto il peso di Holmes. Richiusi lo schermo della lampada e tirai le tende con decisione.
Holmes mi studiava attentamente, come se potesse divinare chissà quali segreti dal modo in cui mi sfilavo la giacca e la appendevo nell’armadio.
“Allora,” dissi infine sedendo sull’angolo del letto, il più vicino alla poltrona. “Dimmi.”
“Non è semplice,” rispose.
“Non ho fretta.” Slacciai il cravattino e lo gettai via, assaporando l’aria fresca sulla gola. La stanchezza non era svanita, ma mi sentivo stranamente in pace col creato. Puntai le mani indietro sul materasso e vi scaricai il peso del busto, rilassandomi con un sospiro.
“Non stai rendendo le cose più facili,” osservò, sorridendo debolmente.
“Non credevo di doverlo fare,” replicai.
Holmes si chinò in avanti, gomiti sulle ginocchia, quasi a voler controbilanciare la mia posizione.
“Tu odi Sherlock Holmes,” mormorò. “Ed io non so, davvero non so come potrò sopravvivere al momento in cui ti accorgerai che siamo uguali.”
“Non siete…”
“Siamo uguali,” ripeté. “Sono io quel mostro, quel manipolatore, quell’egoista. Gioisco più per la soluzione di un puzzle che per la salvezza di una vita. Oh, sei stato troppo buono, se l’enigma è all’altezza neanche quattro o cinque vite si avvicinano. Se servisse ai miei scopi, ti lascerei credere per tre anni che sono morto. Lo farei. L’ho fatto. E tornerei, dopo tre anni o sette o dieci, e pretenderei che tu fossi ancora qui ad aspettarmi.”
“Hai in progetto di morire una seconda volta?” domandai, pacato.
“No. Ho in progetto di vivere ancora a lungo, e tra dieci o quindici anni ritirarmi e comprare una casa nel Sussex per viverci insieme il più a lungo possibile. E morire per primo a un’età ridicolmente avanzata, settanta od ottant’anni, quando la tua faccia sarà l’unica cosa che mi farà desiderare di restare su questa terra un giorno di più. Ma non è questo il punto.”
Mi misi a sedere più dritto. Holmes era mortalmente serio - pallido, perfino.
“Sai cosa mi hai appena chiesto?”
“Sì, e non te l’ho chiesto. È proprio questo il punto. Watson…” Si passò una mano sulla faccia. “Dio mi aiuti, non posso. Non sopravvivrei.”
“Non intendo andare da nessuna parte.”
“Lo farai. Mi odierai e lo farai. O peggio, mi odierai e non lo farai. Non riesco neanche a cominciare a spiegarti quanto…”
“No.”
“Watson.”
“No. Ascoltami. Mi dispiace di aver detto quelle cose, ma non sono mai state riferite a te. No, lasciami parlare. Odiavo Sherlock Holmes, e - stiamo parlando del personaggio dello Strand - lo odio ancora. Ma non siete la stessa persona, perché Sherlock Holmes non è una persona.”
“Lo è,” rispose, cupo. “Sono io.”
Scossi la testa. “No, è solo la superficie. Forse, se mi limitassi a guardarti a distanza, senza avere cognizione di tutto ciò che si agita sotto la pelle, se mi limitassi a leggere il racconto dei tuoi modi più eccentrici, dei tuoi vizi più insopportabili e poco altro, forse in quel caso potrei detestarti. Ci vorrebbe molta distanza, ma è possibile.”
“Watson, davvero, tu non sai di cosa stai parlando.”
“Lo so perfettamente. Non credo che ci sia una goccia di egoismo in te. Sei crudele, quando vuoi, ma mai in modo gratuito. C’è sempre uno scopo, e di solito è tremendamente nobile, per quanto capirlo richieda del tempo. E se il mio servizio è utile a uno scopo, sono qui: usami. Ti offro tutto. Non riesco a concepire un singolo tuo gesto che sia deliberatamente irriguardoso, o infame, o umiliante. Credo di conoscerti abbastanza per saperlo.”
Holmes tacque.
“Sappi che non ho l’abitudine di cambiare opinione sulle persone che amo. C’è della ristrettezza borghese in questo - non dico di no. Ma d’altro canto sono solo un medico generico. Non puoi aspettarti troppa finezza.”
La transizione fu troppo veloce perché ne serbassi precisa memoria, ma so che un attimo dopo non ero più solo sul letto, avevo le mani e la bocca piene di Sherlock Holmes, e le sue dita scavavano sentieri squisiti nella mia schiena. Eravamo entrambi esausti dalla giornata, egli non meno di me, se il sorriso leggermente frustrato che mi riservò un momento dopo provava qualcosa.
“Andiamo a letto,” mormorai sulla sua spalla, come qualche ora prima avevo detto: “Andiamo a casa”, e intendendo la medesima cosa. Qualche minuto dopo, spegnemmo le luci.
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Ci svegliò Beth alla solita ora, bussando alla mia porta per annunciare che la colazione era servita. Risposi senza pensarci, ma un istante dopo una lunga serie di implicazioni si fece strada nella mia mente rallentata dal sopore. C’erano entrambi i nostri soprabiti nell’atrio, ragionai, ma la camera di Holmes era aperta e vuota, il letto inutilizzato, e allora Mr. Holmes dove poteva aver dormito? Saltai a sedere, preso da un brivido di terrore.
“Uscirò dalla finestra come un amante,” borbottò l’interessato al mio fianco, indovinando i miei pensieri. Portò la mano alla mia schiena in una lunga carezza. “E rientrerò dalla porta.”
Sorrisi, irresistibilmente, ributtandomi tra i cuscini. Holmes strisciò la guancia sulla mia spalla, quella sana, ed io allargai il braccio per fargli posto. Gli sfiorai le ciocche spettinate con le dita.
Non avrei avuto obiezioni all’idea di restare così, in una pace perfetta, e recuperare un’altra ora o due di sonno. Ricordavo vagamente di non avere visite fino a tarda mattinata; quanto a Holmes, i suoi clienti spuntavano alle ore più strane, spesso senza appuntamento, e dunque non sarebbe stato un crimine lasciarli per una volta fuori dalla porta.
Ma Holmes era di umore eccellente, e in momenti del genere la quiete non gli si addiceva.
“Per la partenza, pensavo al mese prossimo,” disse contro la mia cassa toracica. “O a quello dopo, magari.”
“Partire? Parti? Per dove?” replicai, mentre il mio cuore accelerava assurdamente il battito, proprio come aveva fatto momenti prima.
Holmes alzò il capo. “Partiamo. Ragazzo mio, non credere che non apprezzi la tua reazione, ma mi sembri confuso. Non ti ho promesso che ti avrei portato a Parigi questa estate? O in qualsiasi altro posto, se è per questo.”
Sospirai. “Non pensavo che dicessi sul serio.”
“Mi offendi. Ti sembro forse uno di quei millantatori che promettono Parigi alle ragazze inesperte per avere più facile accesso ai loro letti?”
“Ti sembro una ragazza inesperta?”
“Oh, no,” mormorò, sollevandosi su un gomito. “Ma guardiamo ai fatti, dottore: questo è il tuo letto.”
“È vero,” ammisi, piano. “Un’eccellente deduzione.”
Era il mio letto, davvero, e adesso che il sonno era stato scacciato potevo apprezzare meglio il fatto che vi giacessimo insieme, a malapena coperti dalle lenzuola, così come il modo squisito in cui il debole chiarore attenuava tutte le asperità sul volto di Holmes. La lama bianca di luce pura tra le tende gli segnava il torace dalla spalla al fianco opposto, immergendosi poi completamente nel biancore delle lenzuola.
Vidi le sue dita raggiungermi pigramente la cicatrice alla clavicola e sfiorarla con reverenza. Era una brutta cicatrice, ma gli anni ne avevano attenuato il rilievo e schiarito il colore. Socchiusi gli occhi, piegando il capo per assecondare la lenta ascesa delle sue dita lungo la curva del collo.
“La colazione si fredderà,” osservai pigramente.
“È inevitabile,” concordò Holmes. Si fermò, ispirato. “Ricordo una volta, a Baker Street. Mrs. Hudson dovette scaldarla due volte, e alla fine la mangiammo comunque fredda. Ti eri rifiutato di chiedere che la scaldasse di nuovo - uno scrupolo insensato, se mi permetti. Sapevamo entrambi che l’avrebbe fatto, se gliel’avessi chiesto tu.”
“Non è questo il punto,” ribattei, come se avessi davvero fatto ciò di cui parlava. Era diventata un’altra abitudine. A volte Holmes parlava per ore di cose che avevo detto e fatto prima del ’91. I primi tempi lo correggevo gentilmente, ed egli, spazientito, consentiva ad aggiungere: “… nei miei ricordi”, o altre simili clausole. Ma avevo smesso da tempo, e ormai mi riusciva perfino naturale intervenire e difendere il mio operato come se davvero vi fossi stato.
“Il punto è,” replicò Holmes, sfiorandomi la gola, “al diavolo la colazione.”
“Oh, sì,” mormorai. Fermai la sua mano, il suo tocco così gentile da risultare inconsistente, tremendamente piacevole e al tempo stesso una tortura per i nervi. Gli eventi dell’ultimo mese dovevano avermi cambiato profondamente, perché guardai la mia mano tirare la sua sotto le lenzuola come se appartenesse a un altro.
Holmes sorrise, rimodellando la sua intera posizione per accomodare lo spostamento. La sua gamba destra scavalcò la mia sinistra, e il suo gomito si puntò sul materasso accanto alla mia spalla. Così vicino, Holmes si chinò a baciarmi. L’effetto fu di squisita perfezione estetica. Sotto le coperte gli sfiorai l’addome col dorso delle dita e l’interno della coscia, prima di raccogliere gentilmente la sua virilità nel palmo. Holmes emise un sospiro leggero, tendendosi nella mia direzione.
“Mi domando,” mormorai quando la parola mi fu restituita. C’era non tanto dell’esitazione, perché eravamo certi l’uno dell’altro, quanto il desiderio di procedere con tutta la calma possibile, di centellinare la passione fino all’ultima goccia, fino a trasformarla in una piacevole, vertiginosa esasperazione. Tra le mie ciglia socchiuse, Holmes si passò lentamente la lingua sulle labbra.
“Cosa?”
“Com’era prima. Tra te e, credo potremmo dire, la persona che sono nei tuoi ricordi.” Lasciai riemergere la mano da sotto le lenzuola, accarezzandogli distrattamente il torace. “È stupido da parte mia, ma non posso fare a meno di pensare che ci saranno… dei confronti, suppongo. Non sono preoccupato,” mi affrettai ad aggiungere, vedendo la sua strana espressione. “Ma vorrei sentirmi un minimo preparato.” Gli riportai una ciocca troppo lunga dietro l’orecchio. “Capisci cosa voglio dire?”
“Sì,” rispose. “Ma non hai ragione di dartene pensiero. Non c’è nulla di cui parlare.”
“In che senso?”
“Nel più letterale dei sensi. Non ho nulla da raccontarti.”
Ora appariva imbarazzato, ma la notizia mi riuscì così sorprendente che mi tirai a sedere per affrontarla in tutte le sue implicazioni. “Sono certo di averti udito dire che…”
“Ne dubito.”
“Prima. Parlavamo di Mrs. Hudson… della colazione fredda.”
“Sì,” rispose Holmes. “Quella volta lavorammo tutta la notte e gran parte della mattina sulle colonne scandalistiche degli ultimi tre mesi, alla ricerca di un appiglio per un caso. Mrs. Hudson ebbe un attacco isterico quando vide in che stato era il salotto.”
Non trovai nulla da dire per una manciata di secondi.
“Perché non me l’hai detto?” chiesi alla fine.
“Cosa? Che non abbiamo mai avuto una relazione carnale? Mi dicono che cose del genere tendono a darsi per scontate.”
“No. No, prima. Prima - d’accordo, non riesco a porla in una maniera che non suoni folle, ma - prima del ’91. Perché non mi hai detto che mi amavi.”
“Perché in tutta la mia vita non sono mai riuscito a trarre una sola deduzione decente sul tuo conto che non riguardasse lo stato dei tuoi stivali o le tue preferenze in tema di investimenti bancari,” rispose appoggiando la testa sul mio cuscino.
“Questa è certamente una bugia.”
“È la verità. Ero terrorizzato. Avrei preferito morire piuttosto che vederti alla porta con le valigie in mano. E poi,” fece un gesto, “c’è stato il matrimonio.” Volse il capo a guardarmi. “Quindi vedi, ragazzo mio, che non c’è confronto possibile,” concluse piano. “Ma col tuo permesso, vorrei stabilire un precedente sul quale misurare tutte le volte future. Dovesse il mondo decidere di impazzire di nuovo, quantomeno avrei aneddoti più interessanti da raccontarti.”
“Non succederà,” mormorai, strisciando più vicino. “Ma se dovesse accadere, hai la mia parola che stavolta sarò dalla parte giusta.”
Avvertii un leggero senso di vertigine e insieme un semplice brivido di freddo quando Holmes fece volare le coperte lontano. Il suo sguardo misurò il mio corpo da capo a piedi e tornò al mio viso, un centimetro di labbra prigioniero tra gli incisivi perfetti. Lo liberai con una leggera pressione del pollice, ripagato per la mia piccola premura da una lunga serie di baci sulle dita e sul palmo.
Mi sembrò che il peso di infiniti anni e due universi separati si concentrasse sul mio letto, con la pressione insostenibile che immaginavo precedesse di pochi istanti l’esplosione di una stella. Poi Holmes mi baciò fino a succhiarmi il respiro e ovattarmi le orecchie, e rammentai che egli era vivo e reale non meno di me, vivi entrambi, e non c’era nulla al mondo di cui dovessi preoccuparmi.
Lo rivoltai disteso, prendendogli il volto tra le mani. Le sue mi scalarono le cosce fino a posarsi, tranquille e autoritarie, alla base della mia schiena.
“Spero non avessi programmi per i prossimi dieci o quindici anni,” mormorò, una minima traccia di affanno nella voce. “E per i dieci o venti dopo di quelli.”
Chiusi gli occhi. Il mondo aveva smesso di ruotare, perlomeno nelle mie dirette vicinanze. Baciai Holmes - bizzarro a dirsi, la cosa più concreta e stabile cui riuscissi a pensare - nel caso la vertigine tornasse.
Non tornò.
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A luglio ricevetti una lettera di Percy Trevelyan, e ad agosto mi scrisse una persona che disse di essere la sorella di Holmes.
Alla lettera del mio amico reagii, ne sono certo, in maniera infinitamente meno sensata di come avrei dovuto.
Si era ai primi di luglio, l’eco dell’arresto di Moran non si era ancora dissolto del tutto, e la parte di Holmes nella vicenda - per quanto tenuta fuori dalle pagine ufficiali - aveva già fatto il giro di Londra. Vi aveva contribuito in buona parte il giovane Richard Woodley, le cui frequentazioni altolocate gli avevano offerto un pubblico vario e continuo da intrattenere con la sua storia (nella quale a Scotland Yard, nel migliore dei casi, era concesso di fare una piccola comparsata). A questa ondata di celebrità si accompagnò per il mio amico un’ondata di lavoro senza precedenti: sembrava che tutta Londra, improvvisamente, avesse rispolverato le sue malefatte peggiori per sottoporle al grande detective. Si trattava perlopiù di casi indegni del mio amico, che egli accettava con l’animo rassegnato e metodico dell’impiegato, solo perché pagavano bene e nella peggiore ipotesi non richiedevano più di una mezza giornata di indagini. Ma c’erano anche casi più promettenti, di quelli che gli facevano brillare gli occhi e nei quali si gettava anima e corpo, e in questi talvolta lo accompagnavo, prendendo appunti per il suo archivio.
Questa svolta, coincisa con l’altra ben più radicale nei nostri rapporti, non mi impensieriva; era, dopotutto, nient’altro che un consolidarsi di una routine già stabilitasi nell’ultimo mese. E Holmes era felice. C’era un equilibrio assurdo ma nondimeno funzionale nella mia vita, ed egli ne era il fulcro.
Non erano passate tre settimane dalla prima notte che Holmes aveva trascorso nel mio letto - prima di una lunga serie, interrotta solo da quelle più sporadiche in cui ero io a visitarlo nella sua camera - quando arrivò la lettera di Trevelyan.
La rottura della tazzina fu di per sé una reazione eccessiva. La tenevo in mano, il foglio nell’altra, e stavo per portarla alle labbra quando, raggiunta l’ultima riga, l’intero quadro mi si era chiarito nella mente, e ne avevo finalmente capito il senso: Trevelyan voleva incontrare Holmes. Il pensiero era così orribile che il mio corpo si disinteressò all’istante di qualsiasi altra cosa. La tazzina crollò sul tavolo con uno schianto, versando il tè sulla tovaglia, e da lì rotolò verso il bordo e si frantumò indisturbata sul pavimento.
“Watson! Che cosa c’è?” domandò Holmes, allarmato.
In un’altra occasione avrei tentato di fingere indifferenza, ma la tazzina rotta stava tra noi come un vessillo, una prova tangibile della mia preoccupazione. Gli passai la lettera senza parlare. In essa, Trevelyan si scusava per non aver potuto dare seguito alla mia richiesta di qualche tempo prima, perché la convalescenza prima e il lavoro dopo l’avevano occupato costantemente, ma si diceva a mia completa disposizione da quel momento in poi. Esprimeva inoltre, se possibile, il desiderio amichevole di incontrare questo strabiliante detective che avevo tenuto nascosto al mondo per così a lungo, giacché, scherzava, ‘avendo già condiviso lo spazio di un racconto, mi pare indispensabile che noi si riesca a incontrarsi anche nella realtà’.
Holmes alzò gli occhi. “Non c’è collegamento tra le due cose,” osservò. “Dunque il tuo amico non sa…?”
“No, no.” Ora che l’orrore era passato, mi vergognavo del mio attimo di defaillance. “Al tempo non gli spiegai nulla. Non era cosa di cui si potesse parlare per telegramma.”
“Dunque perché sei così agitato?”
“Non lo sono,” risposi onestamente. “È stato solo un momento.”
Holmes ripiegò il foglio con metodo e lo appoggiò sul tavolo, precisamente a metà strada. Poi si accese una sigaretta. Era pensieroso e lo vedevo bene.
“C’è qualcosa che non so?” domandò alla fine, la guancia sul palmo.
“No. Certo che no.”
“Allora non capisco. Non è senso di colpa, non stai evitando il mio sguardo. E se Trevelyan non sa di me non hai ragione di preoccuparti, perché non lo scoprirà. Che cos’è?”
Mi coprii la bocca con la mano. Era una sensazione indefinibile, un miscuglio di paura e repulsione, e alla fine fu Holmes a nominarla per me.
“Ah,” mormorò. “Credi ancora che dovrei farmi visitare?” Lo domandò in tono calmo e garbato, ma io sentii la stessa repulsione nascondersi dietro l’acciaio della sua voce, lo stesso infinito disgusto che io provavo in quel momento.
“No!” Allungai una mano a coprire la sua che riposava sul tavolo. “Non intendo - oh, al diavolo la cavalleria. Non sono un santo, e non intendo fare nulla che possa portarti lontano da me. Sono l’ultimo stadio del processo di evoluzione umana verso il più abietto egoismo, e questo è già stato appurato.”
A questo Holmes sorrise, e si chinò per baciarmi le dita. Il fatto che egli si piegasse quasi all’altezza del tavolo invece di portarsi la mia mano alla bocca mi suscitò immagini e pensieri del tutto inadatti all’ora e al luogo.
“Tuttavia,” mormorai, sentendo rimontare la nausea, “non posso fare a meno di domandarmi se il mio non sia un comportamento indegno.”
“Indegno di cosa? Della tua professione? Del tuo senso dell’onore? Di me?”
“Di tutte queste cose e altre, sì,” risposi. “Non è la prima volta che lo penso. Holmes, ti prego di non fraintendermi, non desidero che cambi alcunché tra noi, ma mi chiedo se non sia il mio egoismo a impedirti di… di…”
“Guarire?” suggerì, freddamente.
Annuii, incapace di costringermi a dirlo.
Holmes appuntò lo sguardo fuori dalla finestra, fumando distrattamente. Io per parte mia avevo del tutto perso l’appetito, e lasciai cadere la forchetta nel piatto con malagrazia, tirandomi in piedi. Gettando uno sguardo in strada, immaginai la carrozza di un sanatorio ferma di fronte alla mia porta, nera e anonima ma al tempo stesso perfettamente riconoscibile, e Holmes salirvi spontaneamente col suo solito passo regale, guardato a destra e a sinistra da due robusti inservienti. Non resistetti all’immagine, e tirai la tenda di scatto come potesse coprire qualcosa che era solo nella mia mente.
“Il tuo senso di colpa è illogico,” disse Holmes vicino al mio orecchio. Mi posò un bacio sul collo. “Dici che potrei guarire. Ne dubito, ma consideriamo la possibilità. A cosa mi consegnerebbe la guarigione? Una tediosa normalità, il grigiore dell’esistenza comune, senza l’ombra di una sfida, di un ostacolo. Senza enigmi da risolvere. Senza nulla per allenare la mente. Forse tu non immagini che luogo è la mia mente quando la noia prende il sopravvento. Non tenterò di descriverlo, perché non voglio che tu lo sappia. Ma prendimi in parola, e sai che non parlo alla leggera, quando ti dico che salirei più volentieri sulla forca. Quanto potrei resistere? Un mese? Un anno? E dopo, che cosa?” Mi strinse le braccia intorno e appoggiò il mento sulla mia spalla, com’io fossi l’unico relitto cui aggrapparsi nella tempesta.
“Holmes, potrebbe entrare…”
“Ti ho detto che avresti potuto decidere cosa fare di me. La decisione è ancora tua, lo è sempre stata.”
Chiusi gli occhi. “Non ho alcuna decisione da prendere,” bisbigliai. “Anche se fosse la cosa migliore per te, sarei troppo vigliacco per dire di sì.” Lo allontanai, perché provavo troppo disgusto per me stesso per sopportare che mi stesse vicino, ma la sua espressione me ne fece pentire. “Perdonami. È quasi ora di visite,” dissi senza guardarlo. Raccolsi la lettera e mi rifugiai nel mio studio.
L’incontro con Percy si rivelò del tutto inoffensivo, piacevole perfino, ma l’eco di quella conversazione era ancora sepolto nella mia mente quando, un mese dopo, tornammo da Parigi.