Titolo: Conversazioni notturne
Fandom: Originale
Rating: PG
Conteggio parole: 1465 (W)
Scritta per: L'
Original Fest di
fanfic_italiaPrompt: Surreale - [Armadio, Quattro sedie, Tavolo, Vaso da notte] - Conversazioni notturne
Ringraziamenti: A
juliettesaito, senza la quale questo racconto non sarebbe mai stato scritto, a
defenderxl per aver proposto il prompt galeotto, a
eryslash per aver betato il mio romanesco e a
enfasi così la finisce di rompere (mau).
L’armadio, un vecchio Luigi XVI a due ante con le tarsie smangiucchiate dai tarli, si svegliava sempre per primo. Gli anni ormai pesavano anche per lui, e nonostante la sua forte fibra di mogano resistesse strenuamente alle offese del tempo, non riusciva più a indulgere nel pacifico sonno della sua gioventù. In quegli anni felici in cui marchese e principesse facevano a gara per affidargli i loro vestimenti, Luigi era in grado di dormire anche per un mese difilato, senza sentire il bisogno di svegliarsi né di socializzare col resto dell’arredamento. Al tempo non aveva ancora compreso gli insegnamenti del suo maestro, un anziano comodino Luigi XIV con i pomelli in oro lucidati a specchio, che gli parlava con malinconia e stanchezza di irrequietudini notturne e di un incredibile, impensabile bisogno di sgranchirsi i cassetti. Era giovane, Luigi, e non conosceva ancora la tremenda maledizione dei cardini arrugginiti.
Ben piantato sui piedini rotondi, Luigi girò pianino la chiave con la nappina impolverata e aprì le ante in un fragoroso sbadiglio. La sedia Liberty rabbrividì dalla cima dello schienale all’imbottitura rimpinzata del sedile a fiori.
«Ma signor Luigi, mi scusi, lei ha un alito tremendo!» squittì tutta compunta, agitandosi sulle flessuose gambe di noce. Zampettò in punta di piedi uno o due passi più in là, verso l’aristocratico tavolo Rococò.
«Pardonnez moi» proferì Luigi con voce cavernosa. «Stamani monsieur le propriétarie mi ha asperso di un certo unguento contro i parassiti. Alla mia età, purtroppo… vous comprenez…»
«Non mi sembra un buon motivo per alitare antitarlo di fronte a tre signore» ribatté Liberty, piccata.
«Quattro signore» osò puntualizzare Zabuton, un largo cuscino quadrato posato sul tavolo Rococò perché non si sporcasse. (A Rococò, detto Rocco, non dava fastidio, ma Liberty fremeva al pensiero che il suo adorato fosse costretto a una tale intimità con “quella”.)
«Ah-ah» fece Liberty. «Riprovaci quando avrai le gambe, culona.»
Zabu sollevò un angolino stretto a pugno, ma Frau intervenne prontamente. Era un’altezzosa signora tedesca, una grassa poltrona rosso ceralacca dall’aria materna e l’imbottitura di piombo. Frau sosteneva che fosse dovuto alla sua purissima origine germanica e che solo pochi grandi uomini potessero accomodarsi agevolmente su di lei, ma si malignava che il suo sedile così duro avesse triturato, in gioventù, perfino le natiche d’acciaio di Herr Führer.
«Fräuleins, non litigate» le ammonì col suo pesante accento continentale. «Non diamo spettacolo di fronte a Herr Ludwig e Herr Rockocko.»
«E io chi sono, il parente povero?» si lamentò una voce offesa in mezzo alle gambe del tavolo.
Frau arricciò le impunture della fodera, ma per amor di pace rispose con tirata cortesia: «E di fronte a Herr Nachttöpf, naturalmente».
«Ben detto. Proprio ben detto, oh sì sì!» esclamò costui, mettendosi faticosamente su un fianco e rotolando fuori dall’ombra di Rocco fino a lasciarsi cadere trionfale tra Liberty e la sdegnata Frau. «Io, mie care signore, sono stato per anni il più fedele servitore della regina Maria Antonietta! Ella non cercò mai i servigi d’altri che non fossi io! Proprio così, mademoiselle Formosa, proprio così! Il vostro Pot De Chambre non dice bugie!»
Luigi, alle spalle del gruppetto, si limitò a sorridere e non disse nulla. L’anziano armadio sapeva bene che vasi da notte di ben altra levatura si erano incaricati delle reali deiezioni di Sua Maestà, ma le vanterie di Pot erano innocue e non c’era motivo di sbugiardarlo di fronte alle signore.
«È proprio una bella storia, signor Pot» disse Formosa, come faceva sempre, quando Pot De Chambre ebbe finito di raccontare l’avventurosa vicenda di Maria Antonietta e della perla inghiottita per errore.
Formosa era una signorina di buon cuore e Pot le era simpatico. Era la più giovane del gruppo, un’agile e scattante sedia da ufficio con l’imbottitura in feltro e le rotelle e un curioso difetto di pronuncia (che Liberty definiva “così chic”) che le allisciava tutte le erre in altrettante elle. Con grande umiltà Formosa aveva ammesso che potesse trattarsi di un errore di fabbrica, ma le altre si erano subito opposte all’idea. Una signorina sedia così ammodo, con due braccioli così ben modellati! Certamente doveva trattarsi d’altro, forse di un piccolo incidente occorso durante il trasporto, chi poteva mai saperlo? I proprietari a volte erano così noncuranti…!
In realtà, fin dal giorno del suo arrivo Formosa nascondeva un terribile segreto. Benché ufficialmente di origine anglosassone, la sedia da ufficio era stata modellata e assemblata in un’isola asiatica, come rivelava il minuscolo marchio di fabbrica impresso sotto il suo sedile. Se Liberty e Frau l’avessero scoperto, europee purosangue com’erano, eredi di troni e poltrone presidenziali, non le avrebbero più rivolto la parola. Per fortuna nessuna di loro, né tanto meno Rocco o il vecchio Luigi, era in grado di piegarsi per sbirciare così in basso, e Zabu stava sempre appollaiata da qualche parte a stiracchiarsi gli angolini e litigare con Liberty. L’unico che avrebbe mai potuto sbugiardarla era Pot, con quella sua mania di rotolare sotto le gambe degli altri, ma Pot era piuttosto miope e, detto tra noi, non sapeva neppure leggere granché bene.
«Roccocchino…» cinguettò Liberty, sfiorando sensualmente una delle gambe del tavolo con il piedino sottile. «Ti piace il mio cappellino?»
Nel pomeriggio una cliente aveva dimenticato un largo cappello Panama sullo spigolo dello schienale di Liberty; era un bel modello con una fascia di raso fucsia, che si intonava perfettamente ai fiori del suo sedile.
«Caruccio, tesò» assentì l’interpellato.
«E hai visto che mi hanno dato la cera, ciocchettino? Ora sono tutta lucida lucida come piaccio a te» lo incalzò Liberty, zuccherosa.
«Come sei caruccia, amò» confermò il tavolino.
«Peccato per quel problemino imbarazzante…» mormorò Zabu tra sé e sé.
Liberty si irrigidì e si protese accusatrice verso il cuscino, tanto che il cappello le tremò in bilico sullo spigolo. «Ti hanno imbottito la stoffa col polistirolo, nana?»
Zabu si grattò con sussiego il bordo rivolto verso Liberty. «Dicevo, peccato per quel problemino» ripeté a voce alta. «Non è elegante perdere aria in quel modo così rumoroso e volgare ogni volta che qualcuno si siede…»
Rocco scoppiò a ridere fragorosamente, Pot De Chambre prese a rotolarsi avanti e indietro per la stanza e perfino Formosa accennò una breve risatina che convertì all’istante in un colpo di tosse. Liberty, riscaldandosi fino alla cima dello schienale, si guardò pateticamente intorno gridando al culmine dell’imbarazzo: «Non è vero! Non è vero! Io non perdo… io non le faccio quelle cose!». Poi il legno di noce tornò del solito colorito, anzi ancora più scuro, e Liberty si voltò verso Zabuton e disse: «Tu! Brutta piattona anemica! Piadina lercia col culo di poliestere! Quelle come te le sprimacciano con la piallatrice, straccetto!»
«Brutta anoressica pacchiana coi chiodi sporgenti!»
«Straccio per pavimenti!»
«Vai a farti raddrizzare le gambe!»
«Vai a ficcarti in una lavatrice!»
«Culo scucito!»
«Elefante!»
Il litigio continuò sotto lo sguardo scandalizzato di Frau e quello paziente di Luigi, e le due litiganti sarebbero certamente venute alle mani se avessero avuto le mani e se qualcuno non le avesse fermate. Fu per quello che sopra gli stridii legnosi di Liberty e il puffettare di Zabu si levò infine, forte e chiaro come lo spezzarsi di un asse, un sonoro
«AHÒ!»
che fece ammutolire la stanza.
Era stato Rocco. Liberty distolse lo sguardo, imbarazzata, e Zabu sembrò rattrappirsi di vergogna sul piano del tavolo. Nel silenzio ristabilito, si udì solo lo scodellare metallico di Pot De Chambre che si lasciava cadere dritto.
«Scusa, pioppettino» borbottò Liberty.
«Non so che mi sia preso» concordò Zabuton, contrita.
«Me so’ scocciato de vedevve che state sempre a litigà, vabbene? M’avete fatto na testa così, m’avete fatto. N’omo de notte se deve de re-las-sà, mica co’ sto cicicì e ciuciuciù nelle recchie tutt’ar tempo. Ggiusto, a Luì?» L’armadio scrollò impercettibilmente le ante. «Ggiusto, a Pò?» La vocina eccitata di Pot, che raramente veniva chiamato in causa, si dichiarò pienamente d’accordo; d’altra parte, Sua Maestà il re si era spesso lamentato con lui di un problema simile… «E allora», Rocco concluse la sua arringa, «mo’ fate la pace.»
(Come si sarà intuito, Rocco non era un vero tavolo Rococò. L’imitazione era riuscita piuttosto bene, ma non per niente la classe non è acqua. Solo quella svampita di Liberty poteva crederci a occhi chiusi.)
Liberty e Zabu obbedirono controvoglia, mugugnando e borbottando. Quando pace fu fatta, Rocco esalò un sospirone che fece tremare il suo cassettino intarsiato con foglie d’acanto.
«Di quale parte della Francia è lei esattamente, monsieur Roccò?» s’informò cortesemente Luigi. «Non ho riconosciuto l’accento.»
«Oh, sa» rispose l’interpellato, con un tono da grand seigneur. «Un po’ de qquà e un po’ dellà. So’ ‘n po’ na specie de come se dice, de puppurrì.»
«Interessante» osservò Frau, scettica.
«Oh, che bella cosa» sospirò Formosa.
Il vecchio Luigi XVI sorrise e non disse niente.