Titolo: The Memory of Trees
Fandom: Heroes
Personaggi: Nathan/Peter
Rating: NC-17
Conteggio Parole: 5.534 (W)
Warning: Avete visto il pairing, sì? E pure underage.
Note: Ispirata da una frase di una delle scene tagliate della S2, in cui Nathan parla di
una casa sull'albero che lui e Peter avevano costruito insieme e nella quale Nathan "got Peter drunk first time". Il titolo è preso da una canzone di Enya.
L’hai perso di vista in qualche momento tra il brindisi e il dolce.
Era seduto accanto a te mentre tuo padre faceva il discorsetto di rito, qualcosa sulla gioia di avere tanta gente intorno e l’importanza di celebrare lo scorrere del tempo con gli amici più cari, come se la vacanza di famiglia non cadesse sempre intorno al giorno del suo compleanno proprio per evitare gli amici e i parenti di New York. Come se non fosse tua madre a organizzare la festa ogni anno, e tuo padre non si limitasse a lasciarla fare.
Prima di questo, ricordi di averlo visto versarsi un altro bicchiere di champagne mentre gli occhi disapprovanti di tua madre si fissavano su di te. L’hai visto sorridere verso di lei, con quel sorriso aperto da sedicenne che nelle sue mani non è altro che una squisita, raffinata arma psicologica. Aveva le guance leggermente arrossate e gli occhi che cominciavano a perdere fuoco - solo vagamente, però; potrebbe anche essere stata una tua impressione.
“È per il brindisi, Ma” ha risposto con scioltezza al rimprovero inespresso.
Angela ha sorriso appena. “Ma certo.”
Se si ubriaca sarà colpa tua. Credi che lo sarebbe anche se fossi rimasto a New York. Tua madre ti telefonerebbe domattina e alla fine, dopo averti chiesto come va all’ufficio e se pensi di fare un salto per gli ultimi due giorni, ti direbbe con la massima calma: “Ieri tuo fratello si è ubriacato”. E tu sapresti che ti ritiene direttamente responsabile per qualsiasi imbarazzo Peter possa averle causato.
Aspetti che sia lei a chiederti dov’è tuo fratello. Ti asciughi un angolo della bocca con il tovagliolo e ti volti verso la sedia di Peter, come se non ti fossi accorto da almeno cinque minuti che è vuota. Con una leggera scrollata di spalle, ti scusi e ti alzi da tavola.
Appena fuori, in giardino, ti accendi una sigaretta e ti prendi qualche minuto per goderti la serata estiva. L’aria fresca sul volto e sulle mani ti ricorda che la tua colonia non ti piace più come un tempo; sarebbe l’ora di cambiarla. Il fumo invece è un vizio recente, probabilmente destinato a passare. Peter, ora nel suo periodo salutista-vegetariano, si diverte un mondo a disapprovarlo, con tutte le occhiatacce e le disgustose informazioni pseudo-scientifiche del caso (qualcosa sul modo in cui i tuoi polmoni si riempiranno di grumi nerastri di catrame e ti esploderanno nel petto come due seppie gonfie d’inchiostro). Tu lo trovi relativamente innocente. Fai una vita sana, corri cinque miglia ogni mattina, hai smesso di bere quando ti sei arruolato in Marina. Nella graduatoria dei vizi, sei una delle persone più noiose che tu abbia mai conosciuto. E poi Peter non ha bisogno di sapere che è un periodo del cazzo, tra il nuovo ufficio e il nuovo procuratore e altre cose. Peter non ha bisogno di sapere tutto.
Appoggi la schiena contro il tronco dell’albero, aspirando pigramente. Non hai richiamato Susan. Non credi che lo farai.
“Stai lì a guardare le stelle ancora per molto? Mi sto annoiando.” La voce di Peter è quasi normale, solo un po’ più strascicata del solito. Non alzi lo sguardo.
“Non ho intenzione di sporcarmi i pantaloni.”
“Togliteli.”
Aspiri un po’ più a fondo, cercando di finire rapidamente la sigaretta. Tra qualche secondo Peter diventerà una lagna, comincerà a pestare i piedi e minaccerà di scendere per trascinarti su di peso, o qualcosa del genere.
“Stai fumando” osserva la voce di Peter sopra la tua testa, vagamente accusatoria.
“No.” Schiacci la cicca sotto la scarpa. Contempli la scala per qualche istante, chiedendoti se dall’anno scorso qualche asse non sia marcita e non cederà sotto il tuo peso, poi ti ricordi che Peter è già salito prima di te. Anche se Peter è nel suo periodo salutista-vegetariano ed è più magro del solito, con le costole quasi in vista, le scale che hanno retto lui dovrebbero farcela a reggere anche te. Raggiungi la porticina sbilenca in cima alla scala facendo attenzione a non sfiorare i corrimani laterali con l’orlo delle maniche o con le ginocchia.
La casa sull’albero è piccola e non certo un capolavoro di ingegneria, ma tu e Peter ne eravate molto fieri quando l’avete finita, dopo tre mesi di fatica, sudore e martellate sulle mani. Peter ha insistito perché legaste un nastro da un corrimano all’altro in cima alla scala e lo tagliaste insieme, come se steste inaugurando un auditorium o un museo. Sfortunatamente non c’era nastro in casa, così avete ripiegato sullo scotch da pacchi, quello largo e marrone. Solo dopo aver svolto e fissato l’intero rotolo da un capo all’altro vi siete resi conto che in casa non c’era neppure un paio di forbici. Per quella volta avete fatto a pezzi il nastro adesivo con un cacciavite, e non vi è importato neanche quando una delle finestrelle si è staccata dall’intelaiatura meno di un’ora dopo, e vi siete resi conto che non avevate più scotch per fissarla. Peter ha insistito perché dormiste lì quella notte, eccitato e felice come un bambino. Mai vista una notte così fredda a fine agosto. Avete rimediato una branda arrugginita dalla cantina e vi siete seppelliti sotto una montagna di coperte fuori stagione, stretti l’uno all’altro senza riuscire a chiudere occhio, tra scricchiolii, sospiri e colpi di tosse. Peter aveva dodici anni.
Peter è seduto sul pavimento, vicino al tavolo con le due sedie impagliate, e saresti tentato di chiederti perché non ne abbia usata una se non le sapessi le due sedie più scomode del mondo. La luce entra offuscata dalle due finestrelle chiuse e impolverate, e azzurra e tagliente dal buco quadrato nella parete, in corrispondenza della terza finestra che non avete più riattaccato. Peter si è tolto la giacca, che pende inerte dallo schienale di una sedia.
“Cos’è quello?”
Peter solleva la bottiglia, strizzando leggermente gli occhi per leggere l’etichetta nella penombra.
“Ballantine.”
“Quante volte…”, avanzi tra lo scricchiolio delle assi, “Peter, quante volte ti ho detto di non rubare lo scotch di papà?”
“Neanche una.”
“Bugiardo.”
“Almeno io non mi sono fatto beccare.”
Serri la mascella al pensiero che Peter si ricordi ancora di quella volta in cui tuo padre ti ha trovato con le mani nella sua vetrina degli alcolici. Peter non doveva avere più di cinque o sei anni, e in casa non se n’è più parlato. Ma quello che ti irrita davvero, nel profondo, è che Peter possa aver imparato da te. Vorresti che i tuoi vizi, passati o presenti che siano, restassero solo i tuoi.
“Dammi quella bottiglia.” Tendi la mano verso di lui. Ha le guance arrossate e la nuca appoggiata contro la parete. Ti studia con diffidenza.
“Vai a prendertene una per te.”
“Non te la berrai mai tutta. Neanche ti piace.”
“È una scommessa?”
“No. Non voglio che questo posto puzzi di vomito per il resto della mia vita.” Allontani una sedia dal tavolo, sedendoti con cautela. Sei abbastanza vicino a Peter per spostargli i capelli dalla faccia, se solo ti allunghi un po’. “Dai qua.”
Peter sembra valutare per un attimo la possibilità che tu intenda rubargli la bottiglia e portartela via per impedirgli di bere. Te la porge lentamente, lo sguardo sospettoso.
Togliergli quello che vuole non è il modo giusto di trattare con Peter; darglielo in piccole dosi, quello è il tuo metodo. Mandi giù un sorso generoso, lavando via il retrogusto della sigaretta.
Peter ha la camicia aperta fino al secondo bottone e i calzini sporchi di terra. “Come sta Susan?”
“Bene, credo.”
“Credi?”
“Non la sento da prima di partire.”
“Perché?”
Scrolli le spalle. Non c’è niente che non vada in lei; credi solo di averla incontrata nel momento sbagliato. Peter ti guarda con attenzione. In qualche modo, sembra ricordare sempre i nomi delle tue ragazze, e tutta una serie di dettagli inutili che le riguardano.
“Diverse priorità” rispondi, prendendo un altro sorso. Ti sembra che Peter mediti attentamente sulla tua risposta. Quando gli ripassi la bottiglia, le sue labbra esitano sull’imboccatura come se qualcosa l’avesse bloccato in quella posizione, o come se stesse - di nuovo quei pensieri - trattenendo il tuo sapore prima di lavarlo via con lo scotch.
“Quello era l’ultimo, Peter” lo avvisi quando hai di nuovo la bottiglia.
“Oh, andiamo. Tu avevi la mia età quando…”
“Io guidavo. E sapevo tenere la bocca chiusa.”
“Come no” sbuffa Peter, allungando la mano verso di te. “Avanti, dammela.”
“Che significa, ‘Come no’?”
“Quello che ho detto.”
Gli lasci la bottiglia. Le sue dita sono sudate sopra le tue. “Questo è l’ultimo, Peter.”
“Allora fammelo godere, okay?” Passa leggermente la punta della lingua sulla bocca della bottiglia, come a raccogliere una gocciolina invisibile, poi la inclina con un scatto e manda giù due sorsi feroci, uno dopo l’altro, e finisce a tossire piegato in due.
“Ehi, Pete. Ehi. Vacci piano. Non è acqua tonica.”
Aspetti che gli passi la tosse ma sembra durare più del previsto, e allora ti alzi e ti accovacci sui talloni accanto a lui, battendogli qualche colpetto sulla schiena.
“Sai cos’è?” tossicchia Peter, alzando due occhi lucidi e arrossati su di te. “È che hanno sempre voluto più bene a te che a me. Ecco cos’è.”
“Per favore, Pete.”
“Niente ‘Per favore, Pete’. Papà ti ha beccato a rubargli lo scotch? Uno schiaffetto sulle mani. Sai che succederebbe se beccasse me? Lo vuoi scoprire?”
“Darebbe la colpa a me per non averti tenuto d’occhio.”
Sei convinto che Peter si farebbe scoprire solo per assistere alla scena.
“Non ci provare.”
“A fare che?” Gli togli la bottiglia dalle dita allentate, ma non sposti la mano dalla sua schiena. Peter non sembra davvero infelice; incazzato, più che altro. Ma Peter è incazzato per la gran parte del tempo.
“A rigirare la frittata come fai sempre. A ricominciare con la cazzata del ‘non sai quant’è difficile essere il più vecchio’. Tu non lo sai quant’è difficile per me.” Si passa il dorso della mano sotto il naso, tirando su rumorosamente. “Tu hai sempre avuto tutto facile.”
“Peter, sei ubriaco.”
“Non cambiare discorso.”
“Quale discorso? Sei più ubriaco di un irlandese a Capodanno.”
“Sei uno stronzo.”
“Ti amo anch’io.”
Peter ti guarda dritto negli occhi; uno sguardo fermo, assorto, e per un secondo giureresti, per niente ubriaco. È lo sguardo dei Pensieri Profondi, quando gli occhi di Peter sembrano più grandi e più giovani che mai, quando qualcosa lo turba e non vuole dirtelo. Ma si dilegua in un istante, lasciando il posto a un velo di ubriachezza. Forse te lo sei immaginato.
Peter solleva una mano dal palmo sudaticcio e te la appoggia sul lato del collo, lentamente, muovendo il pollice avanti e indietro lungo la linea della tua mascella. Senti lo strofinio leggero del polpastrello contro la guancia rasata, i suoi occhi che ti bruciano la faccia. Si lecca le labbra.
Gli sposti la mano. (Ubriaco. È ubriaco.)
“Davvero?”
“Davvero cosa?”
Appoggia la nuca contro la parete, chiudendo gli occhi per qualche secondo. Quando li riapre sembra un po’ più sobrio. “Siediti” dice appoggiando la mano sul pavimento alla sua sinistra. Probabilmente ha lasciato l’impronta del palmo nella coperta di polvere.
“Sto bene così.”
“Stai scomodo.”
“No, sto bene.”
Ti scricchiolano le caviglie, ma lo ignori. La bottiglia è ancora nella tua mano, vuota per metà, e non credi di aver bevuto così tanto. Speri che Peter non abbia bevuto tutto il resto. Inclini la bottiglia e mandi giù altri due sorsi, lentamente, sentendoli bruciare in gola. Ottimo scotch davvero.
Peter non ha smesso di fissarti per tutto il tempo.
Con un sospiro, ti sfili la giacca e la appendi alla sedia accanto alla sua; poi ti siedi sul pavimento accanto a lui. Lo scotch si agita dentro la bottiglia con uno sciacquio leggero, e quando Peter allunga la mano per prenderla tu esiti.
“Avanti. Tanto sono già ubriaco.”
“Se lo ammetti vuol dire che non lo sei abbastanza.”
“Giusto. Rimediamo?”
Ti sorride con quella faccetta da schiaffi che in tempi normali ti limiteresti a ignorare, mentre stavolta, per qualche motivo, ti riesce immensamente difficile. “È l’ultimo.”
“L’ultimo” acconsente Peter. Dopo aver bevuto ti restituisce obbedientemente la bottiglia e inclina leggermente il capo di lato, quanto basta perché la sua tempia riposi sulla tua spalla.
Ti godi per qualche secondo il silenzio pacifico dentro la casa, spezzato solo dal respiro di Peter e dal tuo. Quando allunghi un braccio per passarlo intorno alle sue spalle, Peter si fa ancora più vicino.
“Che c’è che non va?”
Peter ha gli occhi chiusi e il respiro regolare, tanto che per un momento ti viene il sospetto che si sia addormentato in bilico contro la tua spalla. Peter è capace di dormire ovunque, di prendere sonno nel tempo che la gente normale dedica a rilassare la mente pensando a grandi spazi aperti e voli ad alta quota. L’hai visto addormentarsi in non più di un minuto, due al massimo, sul sedile della tua macchina, di ritorno da una cena insieme e una volta da scuola, in pieno pomeriggio. Quella volta ti sei sorpreso a fissarlo così a lungo, dalla mezzaluna appena dischiusa delle labbra alla mano mollemente appoggiata sulla coscia, che solo per un riflesso ben allenato non hai tamponato la macchina che ti precedeva. Quando Peter si è svegliato di soprassalto, rimbalzando contro il sedile bloccato dalla cintura, il cuore ti martellava nelle orecchie così forte che hai temuto che anche lui potesse sentirlo, e capire.
Quella è stata la prima volta.
“Niente.” Il tono basso, vagamente imbronciato.
“Ehi, per te sto rovinando un paio di pantaloni che mi sono costati due settimane di paga. Mettimi alla prova.” In qualche punto in mezzo alla frase pensi di esserti mangiato un paio di parole, ma non importa, Peter sembra aver afferrato. Alza gli occhi verso di te ed esita, leccandosi le labbra.
“Non so. Ho la bocca secca.”
“Si era detto l’ultimo, Peter.”
“Il penultimo.”
“Peter.”
“Questo è l’ultimo davvero. Giuro, Nathan. L’ultimo ultimo.” Allunga un braccio molle sopra la tua vita, verso la bottiglia appoggiata sul pavimento con la tua mano stretta intorno al collo. Il suo braccio ondeggia, le dita ti sfiorano la pancia, poi vi si appoggiano incerte, muovendo verso il fianco. Peter ti respira sul collo un fiato pesante e alcolico e impossibilmente caldo. Le labbra sulla gola devi essertele solo immaginate. “Eddai” sussurra Peter con voce assolutamente priva d’urgenza, la mano che annaspa alla cieca nell’aria, le sue labbra intorno al tuo orecchio.
Liberi il braccio destro e afferri la mano di Peter prima che decida di vagabondare oltre. Questo non era previsto, pensi. Peter si stringe contro il tuo fianco, strofinando la punta del naso contro la fossetta sotto il lobo del tuo orecchio. Questa reazione non era assolutamente prevista.
“Va bene, Peter. L’ultimo.” Gli spingi la bottiglia nella mano, grato che la penombra ti nasconda in parte alla vista - grato che Peter sia troppo andato per rendersi conto di tutto quello che ti passa dentro. Socchiudi gli occhi mentre le dita sudate di Peter si chiudono intorno alle tue e lasci andare la bottiglia alla sua presa. Quando Peter allontana il volto dal tuo orecchio, l’aria ti passa fredda sul collo e ti sembra improvvisamente che ti manchi qualcosa.
La faccia di Peter sembra contrariata, ma non così tanto.
“È che…”, Peter gesticola con la mano libera, gli occhi fissi da qualche parte verso la porticina della casa, “fanculo.” Si porta la bottiglia alla bocca, poi ci ripensa e la rimette giù senza bere. Si solleva sulle ginocchia, guardandoti. “Tu non mi prendi mai sul serio.”
Sbatti le palpebre, il tuo collo ancora accaldato. Stasera fai più fatica del solito a seguire i suoi voli pindarici. “Ora di che stai parlando?”
“Tu pensi che io sia stupido. Tutti lo pensate. Ma io non sono stupido. Io ho delle cose per la testa. Tante cose. Voi non avete idea di quante cose ho per la testa per ora.”
“Io non penso che tu sia stupido” replichi pacato.
“Ma non mi appoggi mai. Non l’hai mai fatto.”
“Ti ho appoggiato quando sei voluto andare alla scuola pubblica.”
“Solo perché era la tua.”
“Il corso di fotografia?”
“Mamma aveva già detto di sì.”
“La vacanza di due settimane in Italia?”
“Ero con te. Mi lascerebbero fare tutto con te.”
Alzi gli occhi al cielo. “Va bene, Peter. Che cos’è che vuoi?”
Tutta la baldanza sembra prosciugarsi rapidamente dai suoi occhi, ma Peter resiste tenacemente sotto il tuo sguardo. Si rimette a sedere con la schiena contro la parete e quando parla lo fa in tono casuale, come se non fosse niente d’importante.
“C’è una cosa. Un corteo di Greenpeace la settimana prossima. A Washington. Contro il nucleare. Contro le armi nucleari. La guerra nucleare. Quella roba lì.”
Sopprimi un lamento. “Non di nuovo, Peter.”
“Ecco, lo vedi?” scatta lui, puntandoti un dito contro. “Lo sapevo che avresti fatto così.”
“Bloccare il traffico con un cartello ‘MAKE LOVE NOT WAR’ è la tua massima idea di eroismo, vero?”
Peter ti guarda aggrottando la fronte, l’espressione compunta. “La guerra nucleare è una cosa seria, Nathan.”
“Anche ubriacarsi prima dei ventun anni” replichi agitando eloquentemente la bottiglia di scotch.
“Allora, mi accompagni?”
Scuoti la testa, bevendo ancora un sorso. “Devo lavorare.”
“È sabato. Sabato è il tuo giorno libero.”
“Non…”
“E visto che hai mollato Sarah e non devi più portarla a vedere Riccardo III, puoi venire con me a Washington.”
Come diavolo fa a saperlo?, ti domandi, ma hai qualche difficoltà a collegare i pensieri in un discorso coerente. La risposta c’è, ma al momento ti sfugge. “Non se ne parla. No. Toglitelo dalla testa. Ho di meglio da fare che passare cinque ore in macchina e altre cinque sventolando striscioni idioti. E comunque,” appoggi la bottiglia sul pavimento, trovandola stranamente leggera, “si chiama Susan.”
Per qualche motivo, Peter non insiste. Incrocia le braccia al petto e ti guarda di sbieco, una smorfia scocciata sulla bocca. “Repubblicano” borbotta tra i denti.
Ha mollato la presa così facilmente che credi che abbia inventato la storia del corteo solo per vedere cosa gli avresti risposto. “Posso portare te a vedere Riccardo III. Così impari qualcosa.”
“Vaffanculo a Riccardo III. Come minimo devi portarmi a cena fuori. E dormo da te. A Mamma lo dici tu.”
Tu sorridi. Gli passi le dita tra i capelli, scoprendogli gli occhi, che sono accesi e vagamente imbronciati. “Non mi farai aspettare un’ora sotto casa perché devi farti la permanente, vero?”
“Non me li lavo neppure, i capelli.”
“Allora è una cosa di una notte. E io che speravo in una storia seria.”
“Dipende. Se il sesso è buono…”
È solo una parola, e molto comune peraltro. Ma sulla sua bocca ti fa un effetto strano.
“Se?”
“Non mi fido delle voci.”
“Quali voci?”
“Be’.” Peter alza gli occhi al soffitto, contando sulle dita. “Abbey, Doris, Brenda, Valerie… perché ti metti sempre con ragazze che hanno nomi da telefilm?”
Corrughi la fronte. Doris non te la ricordi. “E che dicono?”
Peter ti sorride nella sua miglior imitazione di uno Stronzo. “Non te lo dirò mai.”
Questo discorso ti ha messo a disagio. È un disagio quasi piacevole, una specie di formicolio alle estremità e un calore radiante che si diparte dallo stomaco, ma c’è anche quella difficoltà sempre più pronunciata di organizzare le idee, e i contorni del tuo campo visivo si vanno sfocando e restringendo sul viso di Peter, che continua a guardarti. Tu cerchi di scacciare i cattivi pensieri, ma trovi sempre più arduo distinguerli da quelli buoni.
È ancora più difficile quando Peter appoggia di nuovo la guancia sulla tua spalla, come prima, accompagnando però il gesto con una mano che si posa sulla tua coscia un po’ sopra il ginocchio e la stringe vagamente attraverso la gamba dei pantaloni. Il respiro di Peter ti assale di nuovo l’orecchio e questa volta non è la tua immaginazione: una serie di rapidi tocchi delle sue labbra disegna una linea dal lato del tuo collo alla gola, dove il tuo pomo d’Adamo deglutisce con immensa fatica sotto la sua bocca.
“Peter?” La mano sulla coscia si apre d’istinto, come spaventata, ma poi si richiude un po’ più in alto, un po’ più sicura. Le dita accarezzano lentamente la cucitura intera del pantalone. “Che stai facendo?”
“Mmm. Non posso aspettare fino a sabato prossimo.” Alza il volto per guardarti, un sorriso lento e complice sulle labbra. “Un piccolo anticipo. Piccolo piccolo.”
“No. Peter.” Con fatica la tua mano si stacca dal pavimento e afferra la sua, bloccandola. “Sei ubriaco.”
“Anche tu. Domani ci siamo dimenticati tutto. Dio, voglio che mi tocchi.” La mano di Peter scivola libera dalla tua presa e ti stringe l’erezione, mentre il suo sorriso si allarga e si addolcisce.
“Io non… Peter!” Lo fermi di nuovo, stavolta con più forza. “Sei impazzito?”
“Non gridare” mormora Peter, baciandoti l’angolo della bocca. Ha le labbra calde e umide e l’alito gli puzza di alcool. “Ci sentono.”
Ti concentri per un attimo sull’esterno piuttosto che sul respiro irregolare di Peter, e quello che ti raggiunge è un vociare sommesso e distante, che sembra tacere e riprendere a scatti. Cerchi di capire se tra le voci ci siano quelle di tua madre o di tuo padre che vi cercano, ma non riesci a cogliere più di un brusio indistinto.
“Peter, smettila. Me ne sto andando.”
Peter ti guarda come se non ti avesse sentito. Quando allontani le sue mani e ti tiri in piedi di scatto, con l’intenzione di girare sui tacchi e lasciarlo solo con la sua sbronza, il mondo prende a girarti intorno per qualche istante, e devi appoggiarti alla parete in attesa che passi.
Non puoi essere già ubriaco. Non hai bevuto così tanto.
“Ora ce ne andiamo a letto, okay? Tutti e due.”
Lo senti tirarsi in piedi alle tue spalle, e inaspettatamente passarti le braccia intorno alla vita e appoggiarti il petto contro la schiena. Per un attimo temi che si aggrappi a te e che cadrete entrambi, ma Peter è fermo sulle sue gambe. “Quando vuoi” mormora. Si solleva sulle punte per bisbigliartelo all’orecchio, e la sua erezione preme contro di te, impossibile da ignorare.
Ti volti troppo rapidamente, incerto se tirargli uno schiaffo o dirgli di andare a letto, subito, ma non fai nessuna delle due cose. Peter inclina il volto e appoggia le labbra sulle tue, sfiorandole appena ma con prepotenza, se è possibile. Quando tu non reagisci, Peter ti bacia con più decisione, dischiude le labbra per accarezzare e stringere le tue e ricoprirle di baci casuali da un angolo all’altro. Ha le labbra ammorbidite dall’alcool, l’asimmetria impercettibile contro la tua bocca.
Gli prendi la faccia tra le mani. È una pessima idea, lo sai. Le voci fuori sembrano tacere all’improvviso solo per voi, solo per permettere alla voce di Peter di suonare ridicolmente forte quando ti dice:
“Non ti sei incazzato, vero?” La sicurezza gli si asciuga un po’ dalla faccia, come se cominciasse a rendersi conto di quel che ha fatto. Ti afferra le mani, spostandosele dal volto. “Vero, Nathan?” Appoggia la guancia contro la tua, aspettando che lo abbracci, e quando lo fai il suo odore - sudore, shampoo, un deodorante troppo dolce - ti entra nelle narici come un virus. L’erezione di Peter strofina contro la tua, che non si è mai calmata.
“Peter” mormori, sperando di dare un tono calmo e deciso alla tua voce, ma ti sembra di biascicare parole senza senso. “Sei ubriaco.”
“Non sono ubriaco” mormora Peter, leccandoti la piccola cicatrice bianca sulla mascella.
“Io sì. Fermati.”
“Se lo ammetti vuol dire che non lo sei.”
Poi c’è il muro contro la tua schiena e Peter ti sta baciando di nuovo, questa volta con le mani che ti toccano e sgualciscono la camicia, con la bocca aperta e i denti che sbattono contro i tuoi. Senza sapere come ti ritrovi una mano sulla sua nuca, gli scavi con le dita tra i capelli. La sua lingua è nella tua bocca, e le voci fuori tacciono in un silenzio ronzante simile a un sottofondo di scariche radio.
“Non voglio smettere, okay? Non posso. Non posso, Nathan” mormora Peter concitato, e tu vorresti fermare le sue mani e invece le lasci vagare liberamente sopra il tuo corpo. Chiudi gli occhi, cercando di ricordarti i dieci buoni motivi per cui questa è una pessima idea, ma Peter ti bacia di nuovo e non riesci ad andare oltre il primo.
“Ti amo.”
“Sta’ zitto. Okay, Pete? Stai zitto e basta.” Gli appoggi una mano sul fianco e trovi la sua pelle nuda sotto la falda della camicia strappata fuori dai pantaloni. Peter ti comincia a sbottonare la camicia ma tu lo fermi, le sue dita già dentro la stoffa, sopra il tuo cuore.
Non dovrebbe essere così - una sveltina in piedi contro il muro nella casa dei giochi della sua infanzia. Dovresti portarlo in un posto comodo, accogliente; spogliarlo con tutta l’attenzione del mondo; guardarlo mentre si agita e contorce per il piacere sotto di te, e berti ogni secondo della transizione da fratello a qualcos’altro a fratello di nuovo. Se lo merita. È il minimo che gli devi.
Ma richiederebbe una premeditazione che non vuoi metterci; sarebbe perfetto, ma dopo la perfezione ti presenterebbe il conto, e per la prima volta nella vita non sapresti come pagarlo. Allora è meglio così - questa la conclusione a cui giungi confusamente, senza saperlo ancora; domani ci penserai - meglio così, in piedi tra la polvere, senza potervi spogliare, mordendovi le labbra per fare silenzio, col terrore che vi scoprano da un momento all’altro. Le voci fuori tacciono da un’eternità, ma come fai a essere sicuro che se ne siano andati? Forse aspettano di trovarti con le mani nelle mutande di tuo fratello.
Copri la bocca di Peter col palmo della mano prima di tirargli giù la cerniera dei pantaloni.
Carcere. Papà. Carriera. Peter ti legge l’esitazione nel battito del cuore e ti bacia l’interno delle dita, premendo la sua mano sulla tua per spingerla dentro i suoi boxer. Mamma. Delusione. Vergogna. Manda un sospiro tremulo e si stringe contro di te, contro le tue dita e il tuo corpo inchiodato alla parete, finché la tua erezione non preme contro la sua coscia e lasci andare la mano dalla sua bocca per baciarlo un’altra volta.
Potresti restare fermo e lasciare che venga nella tua mano, solo spingendo i fianchi e il bacino verso di te. Probabilmente per Peter sarebbe lo stesso; probabilmente è troppo ubriaco per notare la differenza. Invece lo stringi nel pugno, solo vagamente a disagio per via del diverso angolo, e lo accarezzi lentamente su e giù.
Peter ti sospira rumorosamente all’orecchio e balbetta qualcosa che non comprendi ma che suona caldo e urgente come se stesse già per venire. La sua mano scivola giù lungo il tuo corpo e ti afferra l’inguine attraverso la stoffa dei pantaloni, massaggiandolo goffamente col palmo mentre cerca di seguire il tuo ritmo.
“Ti piace? Dimmi che ti piace.” La voce di Peter suona eccitata e supplichevole al tempo stesso. “Per favore, Nathan, dimmi che ti piace. Non provare a dire che non ti piace. Non provare a dire che non sta succedendo, che non è niente, che…”
Alle tue orecchie sembra che stia gridando, e d’istinto gli giri il volto e lo baci per farlo stare zitto. Sotto il tuo ritmo è diventato frenetico, Peter si inarca e geme e sospira e tu lo guardi negli occhi mentre gli dici - pianissimo, così piano che per tutta la vita si chiederà se non se l’è solo sognato - che vuoi scopartelo. Che lo ami e vuoi scopartelo, perché è tuo fratello, perché ti appartiene, perché è roba tua.
Peter viene imbrattandoti la mano.
All’improvviso tutto è fermo; la tua mente è ancora intorpidita e non risponde bene, ma le orecchie non ti ronzano più e la vista si è schiarita. Con difficoltà ti togli Peter di dosso e incespichi verso la tua giacca ancora appesa alla sedia, tirando fuori il fazzoletto dal taschino. Ti ripulisci lentamente la mano, strofinando con forza eccessiva il palmo e tra le dita finché la pelle non comincia a formicolare. Domani lo brucerai. Ti bruceresti la mano, se potessi.
“Nathan?”
Non ti tocchi. Pianti le unghie nel legno del tavolo per non farlo. Peter è da qualche parte alle tue spalle; ti sembra di sentire l’adrenalina rombargli nelle vene, un fluido incolore che passa e accende i tessuti come un giro di luci di Natale intorno all’albero.
“Hai detto che non eri incazzato.”
Chiudi gli occhi. Se ti tocca ora, non sai cosa potresti fargli. Peter ti sfiora la spalla e tu ti volti di scatto, dando una generosa spinta al mondo intorno a te, che riprende a girare come una giostra. Fai per scostarlo, ma le braccia di Peter ti hanno già afferrato e stretto; ti abbraccia alla vita, come quando era troppo basso per arrivarti al collo, e appoggia il mento sulla tua spalla come quando deve chiederti scusa e cerca le parole giuste al riparo dal tuo sguardo. Sei ancora duro contro la sua coscia.
“Vattene. Per favore” tenti, ma Peter si strofina piano contro la tua erezione e non riesci a dire altro. Ti sgancia la cintura e ti apre i pantaloni, in perfetto silenzio, e lo prende nella mano. Il sollievo è istantaneo, e anche se non vorresti incoraggiarlo non riesci a trattenere un gemito leggero, gutturale. Chiudi le dita intorno alle sue, e Peter borbotta qualcosa che sa di vago trionfo e ti bacia le labbra, appoggiando la mano libera sulla tua sopra il tavolo alle tue spalle.
Quando vieni nella sua mano le cose non hanno più senso di prima; per qualche secondo ti sembra che sia così, che tutto vada bene e che questo sia il modo in cui deve andare tra voi, ma l’euforia svanisce in pochi attimi. Stavolta ti sistemi alla meglio e cerchi di concentrarti sulla prospettiva lontana e confortante di una doccia fresca. L’aria nella casetta ti sembra un misto nauseante di sesso e profumo da quattro soldi.
“… Nathan?”
“No. No, okay? Domani.”
Peter è fermo tra te e la porta. “Hai detto che ti piaceva. Hai detto che vuoi scoparmi.”
“Cristo santo, Peter, per una volta, per una cazzo di volta nella tua vita, la puoi smettere di rendere tutto più difficile?” Ti infili la giacca e lo superi, appoggiando una mano contro la parete e l’altra sulla maniglia, ma mentre apri la porta ti rendi conto che lasciarlo andare da solo non è una buona idea. Potrebbe inciampare nelle scale ed ammazzarsi, o incontrare tua madre e spiattellare tutto quello che avete fatto. Ne sarebbe capace.
“Avanti, vieni qui. Ti accompagno.” Ti volti indietro e gli afferri un braccio, trascinandolo fuori, anche se non c’è bisogno di fargli pressioni. Peter si lascia guidare senza resistenza, anche se quando barcolla e ti si appoggia contro sulle scale hai il sospetto che lo faccia apposta.
In giardino c’è ancora qualche invitato che prende il fresco vicino alle aiuole, ma li evitate passando dal retro, dalla porta della cucina. Peter si aggrappa con una mano alla tua schiena, non alla giacca ma alla camicia sotto di essa. Puoi sentire il calore attraverso la stoffa.
Pensi di portare Peter nella sua stanza, accertarti che non stia per vomitare e poi scusarti coi tuoi genitori, dicendo che non si sente bene e ti ritiri anche tu per non lasciarlo solo. La cucina è piccola e silenziosa e così il corridoio delle camere da letto. Gli chiedi se deve vomitare, ma Peter scuote la testa.
“Nathan…”
Si lascia cadere di schiena sul suo letto, rotolando sul fianco con ancora i vestiti e le scarpe addosso. Tu ti volti senza dar segno di aver sentito.
“Mi faccio le seghe pensando a te.” Respiri forte e continui a camminare, lo stomaco stretto e chiuso come un’ostrica. “Da tre mesi.”
Quante sono le probabilità che una cosa del genere accada in una famiglia normale? Non un solo figlio, ma tutti e due? Non puoi neppure dare più la colpa all’alcool.
“Affitta un porno” è tutto quello che riesci a rispondere, in un tono acido e tagliente che non ti appartiene, e non hai ancora finito di dirlo che già vorresti rimangiarti le parole, dirgli che ti dispiace, che è solo un momento del cazzo ma risolverete questa cosa insieme. Ma non puoi. Non hai idea di come risolverla. La tua mano puzza ancora dello sperma di Peter. Puoi lavarla, ma la tua pelle ha già assorbito quello che c’era da assorbire. È dentro di te. Dovresti rivoltare ognuna delle tue cellule come un calzino, cambiare il sangue e i sali e tutti gli atomi che compongono il tuo corpo, e anche così non sarebbe abbastanza. Comunque lo sapresti; lo ricorderesti. È parte di te, ormai.
Quello nello specchio del bagno non sei tu, con il volto grondante d’acqua e l’aria torva, lo sguardo stanco e colpevole. Ti pettini i capelli indietro con le mani bagnate prima di asciugarti e spegnere la luce.
Forse, pensi prima di rituffarti nella luce sfavillante del salone, prima di andare a letto farai una telefonata a Susan.