Titolo: Lo spiacevole caso di Mr. William Blackbourne (1/2)
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Watson/OC, Holmes/Watson
Rating: NC-17
Conteggio Parole: 11.883 (W)
Prompt: "Pure Peppermint" @
12_teas + vedi in fondo alla seconda parte @
P0rn Fest #2 (
fanfic_italia)
Note: Nella fic c'è un anacronismo piuttosto significativo ma funzionale alla trama: nel 1883 lo Strand Magazine non esisteva ancora, essendo stato fondato nel 1891. Ah, e sappiate che a Watson sarebbe venuto un embolo a scrivere la metà di queste porcherie.
Ringraziamenti: Mille cuori per
juliettesaito e
sourcream_onion che mi hanno sopportato con pazienza da crocerossine per tutto il tempo, alitandomi vittorianamente sul collo e minacciandomi gentilmente di morte a seconda della bisogna. ♥ ♥ ♥
[Nota aggiuntiva: Mi sono appena resa conto che la storia è ambientata nel 1883 e il word count è 11.883. O____O PAUUURA.]
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A proposito della mia amicizia con il mio coinquilino Sherlock Holmes, mi rendo conto di non aver mai fatto parola di certi avvenimenti che si verificarono intorno all’inizio del 1883 e che cambiarono radicalmente e per sempre i nostri rapporti. Mi riferisco allo spiacevole incidente che mi vide coinvolto in attività illecite con il fu Mr. William Blackbourne, e in ultimo portò alla sua improvvisa dipartita.
Li riporterò perciò qui, in sede del tutto privata, perché dopo alcuni anni il ricordo di certi fatti e dettagli è già sbiadito e non voglio che anche il resto della storia perisca per colpa della mia memoria fallace.
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Nell’inverno del 1883, per un periodo presi l’abitudine di spendere una o due ore della mia giornata in un piccolo caffè poco distante da Baker Street. Confesserò che vi ero stato attirato per la prima volta, qualche mese prima, dall’eccezionale avvenenza della proprietaria, una Miss Pemberton - poi Mrs. Gibbs - ma quell’aspetto aveva cessato quasi subito di esercitare alcuna attrazione su di me, complici alcune questioni tra Holmes e me che avevano a lungo necessitato una risoluzione, e l’avevano infine trovata.
Il locale, in ogni caso, era pulito e accogliente, e avevo finito col fare un’abitudine delle mie visite, dapprima solo sporadiche. Quell’inverno Londra era avara di clienti per il mio amico, e, non avendo un ambulatorio da mandare avanti, mi ero ritrovato con così tanto tempo libero per le mani che non mi parve un delitto usarne una piccola parte per rilassarmi fuori casa. Holmes, di pessimo umore come sempre quando l’inerzia superava la sua già scarsa soglia di tolleranza, era una compagnia a tratti insopportabile, nonostante i nostri rapporti fossero cambiati significativamente, e in meglio, nel corso dell’ultimo paio di mesi.
Mrs. Gibbs sapeva che preferivo la quiete, e aveva sempre cura di riservarmi un tavolo in un angolo un po’ discosto della saletta. Con il giornale del mattino, una lettura o un quaderno per rivedere gli appunti di questo o quel racconto ancora incompleto, il mio tempo trascorreva in assoluta tranquillità.
Notai relativamente presto un giovane che aveva l’abitudine di sedere al tavolo opposto al mio, una sigaretta e un giornale (sempre e solo il Times) tra le mani, e spiarmi di sottecchi per la maggior del tempo. Era un uomo di bell’aspetto, capelli e pizzetto di un biondo paglierino, molto alto ma dalla postura un po’ curva, con un naso importante e le guance rasate alla perfezione. Vestiva con l’eleganza sobria e scura di un professionista, ma dall’età l’avrei detto più uno studente o un laureato di fresco, poiché mi sembrava che non dimostrasse più di ventitré o ventiquattro anni.
Per una settimana e più, lo sconosciuto si limitò a guardarmi, ed io feci altrettanto. Tentando di applicare i metodi d’osservazione di Holmes, notai che aveva un atteggiamento leggermente nervoso, che pareva gli fosse connaturato piuttosto che dovuto alla situazione, ma per nulla sgradevole. Mentre leggeva aveva l’abitudine di arricciare l’angolo superiore della pagina sinistra tra il pollice e l’indice, tenendo la sigaretta tra l’indice e il medio dell’altra mano. Aspirava in lunghe boccate profonde, come se fumare fosse un’incombenza spiacevole da finirsi nel più breve tempo possibile, ma terminata la sigaretta era lesto ad accendersene un’altra. Aveva le labbra pallide, la mascella forte, i polsini immacolati e il nodo della cravatta leggermente sghembo da un lato. Ventitré, confermai nella mia mente, distogliendo frettolosamente lo sguardo per evitare il suo, che si alzava su di me al termine di ogni colonna. Indossava un paio di guanti di pelle scura e non li toglieva mai, neppure per voltare le pagine del giornale.
Non parlai con Holmes del ragazzo - lo chiamavo “ragazzo” nella mia mente, benché fosse solo una manciata d’anni più giovane di me - perché mi parve che non ci fosse nulla da raccontare. Mentirei se dicessi che non trovavo il suo interesse gradito, o piacevole, ma non vi era in coscienza nulla più di questo. Holmes non domandò.
Il decimo giorno, il ragazzo intravide e riconobbe qualcosa tra le mie carte allargate sul tavolo e mi sorrise sopra l’orlo del suo Times. Lo ricambiai, vagamente sorpreso. Quello parve del tutto impreparato alla mia reazione, perché si affrettò ad abbassare lo sguardo e se ne andò di lì a poco, dimenticando la sigaretta ancora accesa sul bordo del posacenere.
Il giorno seguente, e altri due dopo di quello, fui pesantemente raffreddato e non misi piede fuori di casa. Holmes fu di umore particolarmente nero, ma non so dire se fosse la solita noia ad affliggerlo o una conseguenza del mio comportamento. Meditai che chi si sente colpevole tende a leggere tracce della propria colpevolezza ovunque, ma non riuscii a riconciliare questa parte di me stesso con l’altra metà, che sosteneva con argomenti forti e razionali la mia assoluta innocenza. Alla fine mi risolsi a raccontare a Holmes, in tono scherzoso, che credevo di avere un ammiratore silenzioso.
Holmes mugugnò un augurio e si volse dall’altra parte del letto.
Tornai al caffè dopo tre giorni d’assenza, solo per trovare che il ragazzo sedeva al mio solito tavolo. Mrs. Gibbs si fece avanti per domandarmi della mia salute e scoccò uno sguardo di indulgente rimprovero al ragazzo, che frattanto si era affrettato ad alzarsi. Risposi cortesemente e mi avviai con calma a un altro tavolo, ma l’altro mi richiamò: fu la prima volta che sentii la sua voce.
“Perdonatemi, dottore, data l’ora ero certo che non sareste venuto, oggi” disse in tono educato. Era un baritono con qualche sfumatura tenorile e un accento del Nord. “So che è il vostro tavolo preferito. Vi prego, accomodatevi.” Si alzò e iniziò a raccogliere le pagine del suo Times, ma l’operazione si rivelò più difficile del previsto tra le sue mani nervose.
“No, vi prego, non incomodatevi. Non è il mio tavolo” mi affrettai a dire, e temo che mi sfuggì un sorriso traditore. “Starò benissimo a quel tavolo laggiù. Vedete? È libero.”
Era piuttosto lontano, e il ragazzo parve rabbuiarsi un attimo. “Non avreste luce a sufficienza per leggere, lì” osservò. “Posso permettermi? Possiamo sedere entrambi a questo tavolo, se l’idea è di vostro gradimento.”
Tentennai.
“Vi prego, insisto.”
Il pensiero corse a Holmes, ma non riuscii a trovare una buona ragione per rifiutare un invito così educato. Il ragazzo mi sorrise e tornò a sedere con aria sollevata.
Si presentò come Mr. William Blackbourne. Quando feci per presentarmi a mia volta, lui mi strinse la mano e mi interruppe: “Perdonatemi, dottore, ma io vi conosco di fama, anche se voi non conoscete me. Temo di aver inavvertitamente letto un nome su una delle vostre carte qualche giorno addietro. Non ho mai avuto il privilegio di incontrarvi prima, naturalmente, ma il vostro nome… è piuttosto noto, a Londra.”
“Avete letto?” domandai, piacevolmente sorpreso.
“Lo Studio in Rosso, certamente. Cinque o sei volte. Ne ho comprato una seconda copia di recente; la prima era completamente distrutta, vi avrebbe fatto pena a vederla.” Accennò una risata di cuore, poi parve trovarlo un gesto inappropriato, perché la troncò piuttosto bruscamente e distolse lo sguardo.
“È estremamente lusinghiero da parte vostra, Mr. Blackbourne” sorrisi.
“Oh, il merito è tutto vostro, dottor Watson. Siete uno scrittore eccezionale. Vi prego di non credere a chiunque tenti di convincervi del contrario.”
Mi domandai se avesse voluto riferirsi a una certa critica impietosa che Uno Studio in Rosso aveva ricevuto poco dopo la pubblicazione; al tempo mi aveva infastidito non poco, non tanto per le critiche alla mia prosa, quanto per alcune osservazioni poco appropriate a proposito di Holmes.
“Vi ringrazio, ma non mi considero uno scrittore” dissi, onestamente. “Mi piace scrivere. Non credo che questo faccia di me uno scrittore.”
“La vostra modestia è grande quanto traspare dalle vostre pagine, se non maggiore” disse lui, con un trasporto che trovai toccante ed eccessivo. “Permettetemi di offrirvi qualcosa, dottore. Brandy liscio, non è vero?” Fece un gesto in direzione di un cameriere.
“No, non posso assolutamente permetterlo, Mr. Blackbourne.”
Il ragazzo corrugò la fronte con aria incerta.
“Come avete detto voi, è il mio tavolo” continuai. “Vi considero mio ospite. Vi prego” insistetti, “non berrò a nessun’altra condizione.”
Mr. Blackbourne cedette con estrema riluttanza, e solo dopo un minuto buono di proteste reciproche.
Conversammo a lungo, accomodati confortevolmente coi nostri drink alla mano. Superata l’iniziale timidezza, Mr. Blackbourne si dimostrò un conversatore affascinante, di grande intelletto e ironia, dotato del raro pregio di vincere il naturale imbarazzo di una conversazione tra sconosciuti nonché dell’atteggiamento più schietto e aperto che mi fosse mai capitato di incontrare. In poco più di un’ora, appresi più su di lui di quanto avessi potuto scoprire su Sherlock Holmes in due interi anni. Mi raccontò di essere laureato in Giurisprudenza e aver da poco iniziato il tirocinio in uno studio legale; non lesinò notizie sulla sua famiglia (“vecchia nobiltà di campagna decaduta da due generazioni già prima che nascessi”), né nomi di persone e luoghi a lui cari che inserì nella conversazione con la massima naturalezza e tranquillità, mentre non fece mai pressioni per ottenere da me risposte più approfondite di quelle che ero disposto a offrirgli.
In definitiva, Mr. Blackbourne mi sembrò un giovane perfettamente a modo, educato e intelligente e dal carattere eccezionalmente socievole, e non negherò che l’iniziale e vaga curiosità nei suoi confronti si tramutò subito in una fortissima simpatia.
Mi resi conto dell’ora solo quando Mr. Blackbourne si sporse verso di me con un leggero sorriso e mi domandò se poteva avere il piacere di offrirmi la cena, giacché ero stato così insistente da accaparrarmi l’incombenza di pagare da bere. Avevo bevuto più di quanto avessi previsto - la bottiglia di brandy era vuota per due terzi, ed ero certo che Blackbourne se ne fosse servito molto poco - ma la menzione alla cena mi fece riscuotere.
“Con tutto il piacere, mio caro, ma un’altra volta” dissi riponendo l’orologio nel taschino. “È troppo tardi per me.”
“Tornate a casa?” domandò il giovane.
Annuii.
“Vi aspettano, suppongo.” Un lampo freddo gli passò negli occhi, ma sul momento non lo notai. Non avevamo nominato Holmes una sola volta nel corso dell’intera conversazione.
“Sì” risposi. Ma non credevo che Holmes sarebbe stato in pensiero per me, per cui aggiunsi in tutta onestà: “La mia padrona di casa, Mrs. Hudson… è una buona donna, ma anziana ed estremamente apprensiva.” Lasciai il dovuto sul tavolo e mi alzai dalla sedia; Mr. Blackbourne mi seguì in silenzio fino all’uscita del locale.
In strada, tornò improvvisamente incerto e fu con grande timidezza che mi rivolse la parola un’altra volta: “Posso sperare di riproporvi il mio invito domani, dottore? Non so dirvi cosa significherebbe per me”.
“Mr. Blackbourne…”
Fui sul punto di dirgli che sapevo, come lo sapeva lui, e che avrei accettato di tutto cuore la sua amicizia, ma null’altro. Fui sul punto di dirglielo, ma in ultimo mi mancò il coraggio di concludere in maniera così brutale un incontro talmente piacevole. Perciò terminai semplicemente:
“Con immenso piacere.”
Ci stringemmo la mano con calore, poi io imboccai la strada di casa e Blackbourne prese una carrozza.
Mentre salivo le scale dell’appartamento di Baker Street, reggendomi al corrimano poiché non mi sentivo del tutto saldo sulle gambe, Mrs. Hudson mi informò che Holmes si era chiuso nella sua camera dopo che ero uscito, e aveva richiesto di non venire disturbato per nessun motivo. La notizia mi procurò un brivido leggero ma gelido su per la spina dorsale.
Bussai una prima volta e una seconda, ma Holmes non rispose. Al terzo tentativo cominciai a chiamarlo da fuori la porta. Era solo profondamente addormentato, mi dissi, o prigioniero di uno di quei maledetti sonni allucinati che gli procurava la cocaina. Al quarto tentativo fallito mi imposi di restare lucido e passeggiai per un minuto intorno al salotto per ritrovare la calma, ma fallii miseramente anche in questo.
“Holmes, per l’amor di Dio, apri questa porta o giuro che la sfondo con le mie mani!” dissi al legno immobile, e fu proprio al termine della mia minaccia che la porta si aprì, e Holmes mi guardò con aria di intollerabile fastidio.
Il suo sguardo mi raggelò completamente; un istante dopo, però, era già scomparso, soffocato in un enorme sbadiglio.
“Watson, sei pregato di risparmiare ulteriori violenze alla porta della mia camera, se non ti dispiace.”
“Ho chiamato diverse volte, non hai sentito?”
“Ti ho risposto?”
“No, e ho creduto che…”
“Cosa?” Si annodò la vestaglia in vita con indolenza. “Se non ho risposto è evidente che non ti ho sentito.”
La porta era completamente aperta, adesso, e vidi senza che Holmes si curasse di nasconderla la piccola custodia di marocchino aperta sul comodino e l’ago ipodermico sul letto con una gocciolina di sangue ancora appesa alla punta.
“Puzzi di alcool peggio di una distilleria, mio caro” disse Holmes uscendo dalla stanza, e richiudendosi la porta alle spalle.
“Mi parli di alcool dopo aver tentato di ucciderti per l’ennesima volta con quel veleno?”
“Per la centesima e ultima volta, Watson: forse morirò domani o dopodomani con
tre once di piombo nel petto o sbranato da una muta di cani, ma puoi credermi quando ti dico che non morirò iniettandomi di mia mano una dose sbagliata. Spero che tu abbia fiducia nel fatto che posso aspirare a una morte meno idiota.”
“Una fiducia che va assottigliandosi di giorno in giorno” replicai, ma Holmes non diede segno di aver sentito e si accomodò in poltrona, chiudendo così efficacemente la discussione.
Cenammo in totale silenzio. La mia irritazione era svanita in pochi minuti, come sempre, ma Holmes aveva l’aria di trovare la mia compagnia particolarmente tediosa e il pensiero di conversare con me a stento sopportabile. Meditai di raccontargli della mia nuova conoscenza, e subito accantonai l’idea. Avevo già tentato, e senza frutto. Non mi sarei umiliato una seconda volta a mendicare la sua attenzione sugli insignificanti fatti della mia vita.
Più tardi, quando annunciai che sarei andato a letto, Holmes mi augurò la buona notte senza inflessioni particolari, senza calore nella voce e senza alzare lo sguardo dal suo libro. Mi dissi che William Blackbourne non aveva nulla a che fare con tutto questo, e continuai a ripetermelo mentre giacevo da solo nel mio letto, ascoltando i passi di Holmes che raggiungevano la sua stanza al primo piano, vicino alle scale, e lì si fermavano.
Quella notte sognai la cena dell’indomani: si concludeva con una passeggiata per Marylebone Road e poi con il ragazzo nel mio letto, il corpo forte e flessuoso come quello di Holmes, ma più femmineo, il sorriso simile ma più remissivo. A colazione non guardai Holmes negli occhi neppure una volta.
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“Com’è il vostro pasticcio di carne, dottore?”
“Sulla mia parola, Mr. Blackbourne” dissi asciugandomi l’angolo della bocca nel tovagliolo, “credo di non averne mai assaggiato uno più squisito in tutta la mia vita.”
Blackbourne sorrise con aria rilassata e mi rabboccò il calice con un’altra generosa dose di Porto. “Propongo un brindisi, se posso: al nostro incontro, e che ne possa nascere una lunga e duratura amicizia.”
Lo disse in tono aperto e fiducioso, senza un’ombra di malizia o sottintesi sconvenienti, ed io mi ritrovai a rispondere in assoluta sincerità, e non solo per cortesia, che condividevo la stessa fervida speranza.
“Spero che la nostra conoscenza non porti ad alcun… attrito con Mr. Holmes, dottore” continuò Blackbourne. “Mi dispiacerebbe immensamente esserne la causa.”
“Holmes?” ripetei, lentamente. “Temo di non seguirvi, Mr. Blackbourne.”
“Intendo dire,” riprovò lui, nervosamente, “che mi dispiacerebbe se Mr. Holmes dovesse vedermi come una… non mi sovviene una parola migliore, vi prego di non prenderla alla lettera… come una minaccia, o forse meglio, un intralcio alla vostra amicizia.”
“Ogni uomo può avere quante conoscenze preferisce, indipendenti le une dalle altre” dissi in tono rigido. “È il mio caso, e anche quello di Sherlock Holmes.”
“Certamente. Avete ragione.” Si bagnò appena le labbra col vino, prima di posare di nuovo il bicchiere sul tavolo. “Perdonatemi. Non volevo intendere nulla di sconveniente, ve lo giuro.”
“E nulla di sconveniente vi ho letto, ve l’assicuro” risposi.
Blackbourne parve rassicurato, ma non del tutto, e sinceramente mortificato, per cui allungai una mano sul tavolo e battei un colpetto amichevole sulla sua, rinchiusa come sempre nel guanto di pelle. “Non c’è stata alcuna offesa, Mr. Blackbourne. Rilassatevi. Capisco a cosa vi riferite; ho avuto amici di quel genere. Ma Holmes, ve l’assicuro, non è una persona possessiva.”
“Ne siete sicuro?” replicò Blackbourne, sfiorandomi le dita con le sue. “Voi lo conoscete meglio di chiunque altro, naturalmente, ma…”
“Ma?”
“Nulla, in verità. Solo un’impressione, e di seconda mano per giunta.” Si rianimò e mi strinse le dita per un istante, con calore.
Ritrassi la mano con la scusa di recuperare la mia forchetta. “No” ripetei con convinzione e qualcosa di simile a una stilla di amarezza. “Holmes è tutto meno che possessivo con le sue amicizie.”
Il calore della conversazione si era considerevolmente raffreddato dopo la menzione a Holmes, perciò mi risolsi di cambiare argomento. “Non ho potuto fare a meno di notare i vostri guanti, Mr. Blackbourne.”
“Ah, sì” mormorò lui, tirando giù l’orlo del sinistro a coprire meglio il polso. “Non è nulla di grave, dice il mio medico. Una reazione allergica. Ma l’eritema è alquanto impressionante a vedersi, e l’impulso di grattarsi insopportabile. Per fortuna la stagione consente questa soluzione discreta.”
“Vi ha prescritto qualcosa, spero? Sembra persistere da molti giorni. Almeno dieci, perché non vi ho mai visto senza guanti.”
Blackbourne sorrise in maniera incredibilmente dolce. “Mi stupisce che l’abbiate notato, dottore. Al tempo credevo di essere l’unico a… prestare attenzione.”
Mascherai l’imbarazzo, e il piacere, dietro l’improvvisa necessità di bere un po’ di vino. “Potrei dare un’occhiata alle vostre mani più tardi, se volete. Di certo sembra una reazione allergica stranamente persistente.”
“È tremendamente gentile da parte vostra, dottore.”
All’uscita dal ristorante Blackbourne fermò una carrozza e insistette per accompagnarmi a casa, nonostante l’avessi rassicurato che si trattava di poca strada e non mi avrebbe affatto pesato fare due passi.
“Prendete Regent Street” disse al vetturino. “Non vi dispiace se allunghiamo un poco la strada, non è vero, dottore?” disse poi a me. “Tutti i medici dicono che una passeggiata dopo mangiato è salutare per la digestione.”
“Senza dubbio” assentii allegramente, infilando una mano sotto il cappotto in cerca del mio portasigarette. “Ma quello che i miei colleghi vogliono intendere, credo, è che camminare dopo mangiato è salutare per la digestione.”
“Ne beneficeranno i cavalli, allora. Per me, nulla è più salutare di un giro in carrozza quando fa buio.”
Eravamo seduti molto vicini, le sue spalle che quasi toccavano le mie e il suo volto in penombra. Blackbourne tirò risolutamente la tendina a coprire il suo finestrino.
“Ah, eccolo qui” dissi a voce alta. “Volete favorire?”
“Vi ringrazio. Permettetemi” disse lui, la sigaretta stretta tra le labbra, accendendo la mia e poi la sua col medesimo fiammifero.
Sedemmo in silenzio per qualche minuto, accompagnati dal rumore delle ruote e degli zoccoli dei cavalli e dagli occasionali sobbalzi della carrozza sopra le buche.
“Devo confessarvi una cosa. Non sono stato del tutto sincero con voi” mormorò Blackbourne vicino alla mia spalla.
Mi volsi a guardarlo.
“A proposito di cosa?”
Gettò il mozzicone di sigaretta dal mio finestrino, aperto di una fessura per lasciar entrare un refolo d’aria nell’abitacolo invaso dal fumo. “Sapevo già chi foste quando vi ho visto la prima volta al caffè. Non era affatto la prima volta, per me. Vi avevo già visto e conoscevo già il vostro nome.”
“Come? Io da parte mia sono certo di non avervi mai visto prima.”
“No, non credo. È stato alla redazione dello Strand, qualche mese fa. George Newnes, sapete, è mio zio.” Feci un commento di circostanza che parve convincerlo che fossi in collera con lui per avermi ingannato, perché si affrettò ad aggiungere in tono afflitto: “Potete perdonarmi? Non avrei saputo come dirvelo quando ci siamo presentati. ‘Piacere di conoscervi, Blackbourne, sono disperatamente attratto da voi e da quattro tormentosi mesi non cerco altro che il modo di dirvelo’? Mi avreste creduto pazzo.”
“Mr. Blackbourne… davvero…”
“Ditemi che comprendete, vi prego.” Prese la mia mano tra le sue guantate e si chinò improvvisamente a baciarne il dorso. Aveva labbra sottili e calde.
“Mr. Blackbourne, per l’amor di Dio. Recuperate la ragione.”
“No” mormorò il giovane. “Non ora che sono certo di non esservi indifferente. Ho tentato, e fallito, quando non vi avevo neppure mai rivolto la parola. Che speranze ho di riuscire adesso?” Le ultime parole uscirono soffocate, poiché Blackbourne le appoggiò con un bacio sulla mia gola, scostando con ardore la mia sciarpa.
“Mr. Blackbourne… William…”
“Sì, dite il mio nome” sussurrò il ragazzo, allungando una mano alla cieca per tirare la tendina davanti al finestrino. “Ancora, vi prego. Amo come lo dite.”
“William” ripetei, con più fermezza. “Per piacere, fermatevi. Se nutrite qualche stima per me, fermatevi.”
Obbedì. Nel buio sentii il suo respiro sul mio, lo stesso odore di fumo mischiato a qualcos’altro che avrei dovuto riconoscere ma non ne fui in grado.
“È follia” dissi piano. “Non possiamo. Non voglio sentire un’altra parola su questo argomento.”
“Avete paura della legge?”
“Vi prego, lasciatemi.”
“No, non avete paura. Che cos’è, allora? Merito almeno che me lo diciate.”
“Il mio affetto…” Mi mancarono le parole. “C’è già qualcuno, Mr. Blackbourne. Mi dispiace. Fermate la carrozza.”
“E lui vi ricambia?” ritorse Blackbourne. “O vi usa come un assistente, senza cura per i vostri talenti e la vostra cultura, o per riempire le giornate vuote tra un’indagine e l’altra, o semplicemente perché senza di voi non avrebbe nessuno disposto ad ascoltarlo?” C’era una nota crudele e disperata nella sua voce. “Voi meritate molto più di così, e non ne avete idea, dottor Watson. John. Vi prego… se solo…”
Mentre parlava le sue dita, per nulla impacciate dai guanti, avevano sbottonato agilmente l’estremità inferiore del mio cappotto e si erano avventurate alla volta dei miei calzoni. Anche quei bottoni cedettero con una rapidità sorprendente, e Blackbourne fu incredibilmente lesto ad avere ragione infine del sottile ostacolo della mia biancheria intima.
A quel punto ero disperatamente eccitato, di quell’eccitazione che è fomentata dall’urgenza e dal pericolo e dalla paura, una sensazione scioccante che avevo provato con tanta forza solo la prima volta con Holmes, quattro mesi prima.
Blackbourne si inginocchiò sul pavimento della carrozza.
Come aveva potuto ridurmi all’impotenza in così poco tempo? Dov’era finita la mia lealtà? Che stavo facendo? Gli appoggiai le mani sulle spalle per fermarlo, ma Mr. Blackbourne ebbe ragione della mia presa come fosse quella di un fanciullo.
La punta della sua lingua sul mio membro liquefece il mio mondo e la mia ragione, ma qualcosa dentro le viscere mi si torse così violentemente che per un attimo il dolore mi mozzò la vista. Giuro su quanto ho di più caro che il mio cervello non comunicò alcun ordine di muoversi alla mia mano, ma la mia mano lo fece ugualmente. Di quegli istanti oscuri che chiamo ‘il temporaneo collasso della mia mente’ ricordo solo il dolore alle nocche (perché persistette ancora per diversi minuti mentre sostavo, gelato, sul ciglio della strada) e il rumore secco che produssero scontrandosi col volto di Mr. Blackbourne. Poi evidentemente dovetti ordinare al vetturino di fermare la carrozza, perché si fermò, e rimettere a posto i miei abiti, perché in strada ero già in ordine, e forse dissi qualcosa al mio compagno di viaggio che aveva la parola ‘vergogna’ nella frase, perché la parola continuò a martellarmi il cervello per ore da quel momento. Ma più probabilmente non dissi nulla, e si trattò invece della voce della mia coscienza.
Tornai a casa a piedi. Holmes non c’era; questo mi diede sollievo per un attimo, al pensiero che la discussione fosse rimandata, e subito dopo mi precipitò in uno stato di tremenda agitazione. Improvvisamente desiderai che Holmes sapesse già tutto, solo per liberarmi dell’obbligo di raccontargli quello che era successo e guardarlo in viso mentre lo facevo. Mentre mi sfilavo il cappotto e mi rendevo conto di non essere affatto in ordine come avevo creduto, mi sentii la creatura più abietta della terra.
Il problema non era il possesso, o la gelosia; Holmes non era geloso di me. Era geloso della sua pipa, del suo Stradivari, della sua intimità, occasionalmente delle sue indagini, del suo disordine, dei suoi esperimenti. Era geloso di ciò che era unicamente suo e poteva venirgli rubato, e il mio furto semplicemente non era contemplato. Benché non mi sentissi meno unicamente suo del suo violino, Holmes sapeva perfettamente che, al contrario del suo violino, non c’era alcun altro posto dove io desiderassi stare se non vicino a lui. Spendere tempo a essere geloso di me sarebbe stata solo un’inutile complicazione per la sua mente razionale.
Il problema non era il possesso; era il rispetto. Holmes mi aveva detto chiaramente che lo ripugnava l’idea di un amante incline a rapporti promiscui, perché non era sicuro né igienico, e aveva aggiunto che la preoccupazione non era affatto alleviata se pure la persona in questione era un medico. Gli avevo risposto con fermezza che non aveva nulla di cui preoccuparsi.
Ciò che era successo, la storia con Blackbourne, sapevo che Holmes l’avrebbe considerata un’atroce mancanza di rispetto nei suoi confronti, il che non avrebbe descritto neppure la metà della vergogna che costituiva per me, ma per Holmes era più che sufficiente. Se non poteva fidarsi che rispettassi l’unica condizione che aveva posto ai nostri nuovi rapporti, non poteva fidarsi di me. E se non poteva fidarsi di me, non c’era più nulla di cui parlare.
Sì, in ultimo ero fuggito, ma che importanza aveva? Conoscevo le intenzioni di Blackbourne dal primo momento in cui l’avevo visto, e ogni istante avrei potuto allontanarlo e non l’avevo fatto. Lo desideravo; mi piaceva desiderarlo, e tanto più quanto più lui si avvicinava. Mi piacevano la sua ammirazione e il suo modo sfacciato di adularmi senza che però quello scintillio di adorazione vera si spegnesse mai dai suoi occhi. E nel piacere indecente che mi procurava la sua compagnia, l’avevo lasciato venire così vicino da abbattere l’ultima barriera della cortesia e rubarmi la mia dignità. Che importava che fossi fuggito? A quel punto era stata solo codardia.
Holmes entrò nel salotto con l’aria spiritata. Non salutò, si sbatté la porta alle spalle e proseguì spedito verso la vetrina dei liquori, prendendo la bottiglia di brandy e un bicchiere che riempì quasi fino all’orlo.
C’era qualcosa di assolutamente incongruo nel suo aspetto, ma la considerazione mi sfuggì di mente quando vidi l’enorme livido rossastro sul suo zigomo, fresco e già in procinto di gonfiare.
“Holmes!” dissi accorrendo al suo fianco. “Che è successo?” Gli presi il mento nella mano per guidare il suo volto verso la luce, ma Holmes si ritrasse come un cavallo insofferente al morso.
“Non mi toccare.”
Il sangue mi si gelò nelle vene; non per quello che aveva detto, perché ero abituato al fatto che in alcuni momenti l’antipatia di Holmes per il contatto fisico raggiungeva livelli estremi, ma per il modo in cui l’aveva fatto. “Amico mio…” iniziai, appoggiandogli cautamente una mano sulla spalla.
“Ti ho detto, per cortesia, Watson, di non toccarmi” sibilò Holmes. “Non voglio essere toccato.”
“Va bene” dissi piano. “Vuoi dirmi cosa ti è successo?”
“No.”
“Va bene” dissi. “Va bene” ripetei, a disagio. “Vado a prendere del ghiaccio.”
Quando tornai in salotto, Holmes si era sfilato il cappotto e l’aveva gettato sulla poltrona. Il bicchiere era appoggiato, vuoto, sulla mensola del camino; la bottiglia era rimasta dove l’aveva lasciata. Fu allora che notai per la prima volta gli abiti che indossava.
Allora, improvvisamente, mi sovvenne tutto; i guanti a coprire le dita macchiate dagli acidi, la postura curva per dissimulare l’altezza, e quello strano odore familiare che avevo percepito solo da vicinissimo: l’odore della colla per attaccare i baffi e il pizzetto posticci, usata da Holmes per i suoi travestimenti migliori. Alla luce del camino i loro profili erano uguali, salvo per la forma del naso, rimodellata con qualche pasta di sorta.
“Per l’amor di Dio, Holmes” dissi molto piano. “Dimmi che sono impazzito.”
“Consolati: sei perfettamente sano di mente” rispose lui, senza guardarmi.
“Credo che la follia sia preferibile.”
“La scelta è tua.”
Chiusi gli occhi per un istante. “Per tutto questo tempo, tu… tu hai… tu mi hai ingannato. Ti sei preso gioco di me - e io non ho mai sospettato nulla, ovviamente. È la tua idea di uno scherzo? Ti annoiavi talmente tanto da necessitare di una vittima su cui sperimentare le tue…”
“È curioso sentirti parlare di ‘inganno’ e ‘scherzo’, Watson. Avrei giurato di essere io la vittima di uno scherzo particolarmente crudele. Forse l’ho solo sognato. Vediamo di scoprirlo insieme. In questo mio sogno ho ancora il sapore del tuo seme sulla lingua; ti sovviene nulla?”
“Oh, per l’amor di Dio” mormorai, posando il secchiello con il ghiaccio sul tavolo. “Per l’amor di Dio, Holmes.”
“Dio non ha alcuna parte nella faccenda” ritorse Holmes. “Quanto all’amore, la menzione mi sembra quanto mai fuori luogo.”
“L’hai fatto di proposito. Non posso crederci. Hai… Volevi umiliarmi. Volevi umiliarmi e ci sei riuscito. Mio Dio.”
“Moi?” ribatté Holmes, con un inizio di risata aspra e gutturale. Come avevo fatto a non sentire l’impronta della sua risata in quella di Blackbourne? Come avevo potuto lasciarmi ingannare dalla voce contraffatta? “Non ho alcun potere sulla tua volontà, Watson. Non ho fatto altro che fornirti un oggetto su cui esprimerla. Il resto l’hai fatto tu e tu solo.”
“Hai usato quello che sapevi di me per costruire un personaggio che sapevi mi sarebbe piaciuto. Vi hai messo dentro di tutto, perfino quella… patetica scena di gelosia… È stato tutto studiato fin nei dettagli, come sempre. Non è vero?”
“Naturalmente” rispose Holmes, gelido. “Va da sé.”
“Ma perché?”
Holmes tornò indietro fino alla poltrona, e vi si sedette stendendo le lunghe gambe verso il fuoco. “Ah, questa è la parte migliore” disse. “Vedi, è iniziato completamente per caso. Avevo una piccola indagine per le mani, una cosa del tutto insignificante, che aveva richiesto un sopralluogo in incognito. Ho pensato che testare l’efficacia del travestimento non avrebbe potuto che giovare alla buona riuscita della cosa, e chi meglio di te, Watson, per fare la prova? Mi sono seduto a un tavolo e ho aspettato che ti accorgessi di me. Ero sicuro che il travestimento fosse perfetto - e lo era. Mi hai studiato per intero cinque volte di seguito prima di stabilire che non mi conoscevi, e poi hai semplicemente continuato a guardare.
“Se tutti gli invertiti di Londra avessero la tua discrezione nell’appuntare lo sguardo sull’oggetto del loro desiderio e i poliziotti di Scotland Yard fossero in grado di vedere oltre il proprio naso, in fede mia, in questa città non ne rimarrebbe più nemmeno uno.”
Dovetti sedermi, perché restare in piedi con Holmes sprofondato in poltrona assomigliava troppo a un processo di cui ero divenuto l’imputato.
“Non c’era nulla di… Diamine, Holmes, certamente non pretenderai che smetta di guardare i miei simili solo perché”, mi morsi la lingua per evitare le parole che mi erano salite più naturali alla bocca, “c’è un accordo tra di noi?”
“Non c’è alcun accordo tra di noi” disse lui, freddamente. “Non c’è mai stato. Non ricordo che siano mai state pronunciate le parole “accordo”, “intesa” o “promessa”, o qualunque altro sinonimo ti venga in mente. Restiamo né più né meno quelli che eravamo prima, Watson. Ma certamente non ti aspetterai che abbia desiderio di condividere il letto con uno che acconsente a rapporti illeciti in una carrozza pubblica con un uomo conosciuto il giorno prima. Sarebbe come condividere il letto con tutta Londra.”
“Non ho acconsentito ad alcun rapporto illecito” mormorai, livido per il senso di colpa e l’umiliazione. Il sottinteso spregevole della sua ultima frase mi ferì peggio che se mi avesse sparato in un braccio. “Tu sai che non l’ho fatto. Eri lì, buon Dio. Eri tu.”
“Hai ragione” rispose Holmes. “Permettimi di riformulare. Non ti aspetterai che abbia desiderio di condividere il letto con uno che acconsente a cenare con un uomo di cui ha già ampiamente compreso le intenzioni, che dallo stesso uomo si lascia accarezzare la mano in pubblico, che non obietta a un giro panoramico di Londra nel buio di una carrozza insieme a costui…”
“Holmes, per favore.”
“… che si presta ad ascoltare le dichiarazioni più appassionate e se le beve tutte come se fossero ambrosia, e infine…”
“Holmes, ti prego.”
“… e infine non muove un dito per togliersi di dosso questo ammiratore - si presume - sgradito, ma anzi si lascia baciare e spogliare nell’immobilità più completa, ricordandosi solo tardivamente della sua virtù quando ha già il membro fuori dai pantaloni?”
C’era una vena ingrossata sulla tempia di Holmes, le guance erano rosse e il suo sguardo terrificante, ma non aveva alzato la voce neppure una volta.
“È a questa persona che dovrei consentire libero accesso al mio corpo? Watson?”
Mi passai le mani tra i capelli. “Sono in torto” mormorai. “Nessuno lo sa meglio di me. La prima cosa che avrei fatto sarebbe stata raccontarti tutta questa storia e poi chiedere il tuo perdono, nella speranza che tu fossi disposto a concedermelo. Ma…”
“Non devo perdonarti nulla. Non c’è alcun vincolo tra di noi. Si è trattato semplicemente del mutuo soddisfacimento di un bisogno fisico; la soluzione era comoda per entrambi.”
“Non è mai stato così” dissi con fermezza, alzando il volto. “Non per me. Mai. Prima di questa storia, non ho mai cercato né desiderato nessun altro. Al diavolo, Holmes, io non ho cercato Blackbourne. È stato…”
“… solo un caso spiacevole, un momento di debolezza che non si ripeterà più?” terminò Holmes per me, la voce che grondava sarcasmo.
“Sono stato debole” ammisi. “Hai tutto il diritto di punirmi per questo. Ma non ho mai meditato di farlo. Mai, neppure per un istante, ho pensato di stabilire un qualsiasi rapporto con Mr. Blackbourne che valicasse il confine della semplice amicizia. Ho tentato di parlartene una volta, ma tu non mi hai ascoltato, e avrei voluto tentare ancora ma c’è stato quel disgustoso litigio a proposito della cocaina, e tutto del tuo atteggiamento indicava che la mia compagnia ti era sgradita, per dire del meno.”
“Eri ubriaco e avevi un profumo addosso, e non il tuo. Che reazione ti aspettavi?”
“Dio mio, Holmes, eri tu” ripetei, alquanto disperatamente. “Questa conversazione non ha alcun senso.”
“No” disse Holmes, il volto una maschera imperscrutabile. “Non ero io. William Blackbourne ed io, te lo posso assicurare, non abbiamo nulla in comune salvo una conoscenza. Ma sto meditando di lasciargliela. È evidente che le preferenze di questa persona pendono nettamente dalla sua parte.”
Questo mi lasciò stupefatto per più di un istante, e subito dopo in preda a un’emozione cui sul momento non seppi neppure dare un nome. Speranza, avrei notato più tardi. “Holmes” dissi molto piano, quasi avessi paura che parlando più forte avrei disperso la possibilità che mi era sorta alla mente, inconsistente come fumo. “Sei… geloso di Blackbourne? Di te stesso?”
“Perché dovrei?” replicò lui, in tono aspro. “La gelosia presuppone un rapporto basato sul sentimento. I nostri rapporti…”
“… sono basati su ogni sorta di sentimento” lo interruppi con veemenza. “Ammirazione, rispetto, stima, cura, amicizia, fiducia. Amore.” Ecco, l’avevo detto, e subito desiderai non averlo mai fatto. Se c’era una cosa al mondo che Holmes non era in grado di comprendere, era quella.
“La stima e il rispetto difficilmente li chiamerei sentimenti” obiettò Holmes, pacato, e con meno ferocia di prima, “trattandosi di considerazioni del tutto razionali. L’ammirazione non è che un eccesso di stima. Quanto alla cura e all’amicizia, esse sono completamente indipendenti da qualsiasi sviluppo i nostri rapporti abbiano subito negli ultimi mesi. La fiducia…”
Fece una pausa.
“Non ne hai mai avuta.”
“Va meritata” replicò fieramente.
“Cosa avevo fatto per non meritarla prima che mi mettessi alla prova così crudelmente?”
“Nulla, e difatti l’avevi. Avevi l’ottanta percento della mia fiducia.”
“L’ottanta percento!” ripetei, sconvolto dall’assurdità dell’espressione. “Holmes…”
“L’avresti avuta tutta, se solo te ne fossi dimostrato degno.”
“No” ribattei. “No, non me l’avresti mai accordata. Non ti sarebbe bastato. Avresti continuato con questa storia di Blackbourne, o trovato altre maniere per mettermi alla prova. Dio santo, Holmes, che cosa avresti fatto se non… se io non avessi… se fossi rimasto?”
Holmes mi guardò con ogni oncia d’espressione completamente svanita dalla faccia.
“Io non faccio mai le cose a metà.”
Chiusi gli occhi, ogni speranza completamente frantumata nel mio cuore come poltiglia in un mortaio.
“Quanto all’amore” concluse Holmes, “credo che la cosa migliore che possiamo fare sia lasciarlo fuori da questa conversazione.”
“Sì” risposi debolmente. “Non c’è nulla di cui parlare.”
Dopo questo sedemmo in completo silenzio per quasi un’ora. Dal piano di sotto sentimmo la servitù sbrigare le ultime faccende e ritirarsi per la notte; Mrs. Hudson fu l’ultima ad andare a letto. Quando parlai di nuovo, da tempo non si era più udito uno scricchiolio in tutta la casa, e il fuoco nel camino si era spento senza che nessuno di noi due si alzasse per ravvivarlo.
“Lo desideravo.”
Holmes si voltò.
“Se il mio affetto non fosse stato già impegnato altrove, non avrei avuto remore ad acconsentire. Era… un uomo terribilmente affascinante.”
Rimasi in silenzio un attimo.
“Avrei dovuto dirgli subito che non avevo intenzione di dargli ciò che voleva. Ho pensato di farlo due volte. La prima ho rinunciato per cortesia; la seconda per compassione. Ho pensato… Non volevo la responsabilità di spezzargli il cuore.” Mi passai le mani sulla faccia. “Ho pensato che uno solo di noi due bastava.”
Alzai lo sguardo. Il volto di Holmes era imperscrutabile come sempre.
“Ho sbagliato, e per questo ti chiedo di perdonarmi, se puoi. Sono desolato. Non so neppure da dove cominciare per dirti quanto. Dimmi se c’è qualcosa - qualsiasi cosa - che posso fare per riparare, e la farò.” Sospirai. “Ma non posso, non riesco a dimenticare che tu hai messo in piedi tutta questa storia senza alcun rispetto per la mia dignità, ed è la cosa più bassa e spregevole che ti abbia visto fare da quando ti conosco, Holmes. Mi dispiace. Pensavo che fosse chiaro anche ai muri di questa casa che non mi importa di nessun altro al mondo. Pensavo… Ma tu non vuoi sentir parlare di queste cose.”
Holmes continuava a tacere, ed io disperai che questa conversazione potesse terminare in una maniera che non mi avrebbe distrutto completamente.
“Di’ qualcosa, per favore.”
“Vai a letto.”
“No. Non prima che tutto sia stato detto tra noi.”
“Vai a letto” ripeté Holmes, lentamente, “e aspettami là.”
Presi un respiro profondo, e ricacciai in un angolo della mente tutte le mie domande. Prima della fine della storia avrebbero trovato risposta, come sempre.
Mi alzai dal divano e obbedii.
Parte 2