[J&W] Fishnet

Jan 09, 2010 15:53

Titolo: Fishnet
Fandom: Jeeves & Wooster
Pairing: Bertie/Vince (OMC/OMC)
Rating: NC-17
Conteggio parole: 3.052 (W)
Prompt: Original, M+M, calze a rete @ P0rn Fest #3 (fanfic_italia)
Warning: Fluff. Fluuuuuuuuff.
Note: Ho usato un prompt originale perché i personaggi sono originali e non ci sono riferimenti al fandom di partenza (be', qualcosa di microscopico en passant). Altro su Bertie & Vince qui. Questo racconto fa parte, con La mirabolante storia del dito-cipolla, All the way home (I'll be warm) e The sharpest knife in the drawer, della mini-mini-serie del cottage. Prequel di The sharpest knife in the drawer, ma tutte le parti si possono leggere indipendentemente.

Tutto era cominciato facendo le pulizie. Bertie aveva preso il soggiorno e il bagno; Vince la cucina e la camera da letto. (La camera degli ospiti era stata concordemente abbandonata a se stessa.) Così Vince si era ritrovato ad aprire il grosso armadio in camera da letto, e la scatola grande al suo interno, e quella piccola all’interno della grande. E alla fine aveva gridato il nome di Bertie.

“Non sono dello zio” dichiarò Bertie, per prima cosa - a onor del vero, prima ancora di vedere bene di cosa si trattasse.

“Le avrà lasciate qualcuno” disse Vince. “Qualcuna.”

“Non mi sembra…” Bertie si interruppe per un secondo, poi finì risolutamente la frase: “… proprio possibile.”

“Qualche vecchia fidanzata.”

“Trent’anni fa non portavi la tua fidanzata in un cottage in montagna, voi due soli...”

“Allora non era la sua fidanzata. Guarda qua che roba di classe” mormorò, stendendo tra le mani un lungo paio di calze a rete nere.

“Di classe? A me sembra roba da prostituta.”

“Allora era una prostituta” disse Vince, pronunciando la parola come faceva Bertie, con fastidio e sussiego.

“Andiamo” mormorò Bertie, accoccolandosi sui talloni accanto a lui e mettendo le mani nella scatola. “Stiamo parlando di mio zio. Non saprebbe neanche da che lato si comincia.”

“Magari lui no, ma Jeeves?”

“Jeeves non porterebbe mai una prostituta in casa. E poi perché avrebbe dovuto lasciare i vestiti in giro? E perché loro avrebbero dovuto conservarli?” Oltre alle calze tirò fuori un corpetto di raso, un reggicalze ricamato e un sorprendente paio di scarpe decolleté con più centimetri di tacco di quanto (a giudizio di Bertie) fosse strettamente necessario.

“Va bene, basta così” annunciò, cominciando a rimettere tutto dentro alla rinfusa. “Sono cose loro. Io non ne voglio sapere…”, strappò una scarpa dalle mani di Vince, “… niente.”

“Ehi, ehi” fece Vince, tenendo l’altra scarpa lontana dalla sua portata. “Aspetta un momento.”

“Lo zio non ci ha prestato il cottage per ficcare il naso nelle sue cose.”

“No, no, giusto” ammise Vince. “Ma tuo zio non è mica qui, no? Non è che glielo dobbiamo dire che abbiamo trovato questa roba. Fammi dare un’occhiata e poi mettiamo tutto a posto.”

Bertie sospirò. “Non sono fatti nostri” tentò comunque, con poca forza.

“Voglio solo vedere una cosa. Perché ti scaldi?”

“Ti scalderesti anche tu se fosse tuo zio.”

Vince sorrise, prendendogli il mento tra due dita e baciandogli il broncetto indisponente che gli era appena sorto alle labbra. “Eccolo che fa tutto il santarellino” mormorò. “Parola mia, stanotte non parevi…”

“Non sto facendo il santarellino” replicò Bertie, senza riuscire a non suonare petulante.

“Ce li avranno avuti pure loro vent’anni” insistette l’altro. “Che male c’è se si sono divertiti un po’.”

“Senti, io non lo chiamerei… Oh, vabbè. Fai quello che vuoi” borbottò Bertie, buttandosi disteso sul letto. Tutt’a un tratto c’era qualcosa che lo disturbava, e il gioco gli sembrava ancora meno divertente di prima. Sperò che Vince si stancasse presto e che potessero dimenticarsene subito, ma sentiva che lui non avrebbe potuto. Nella notte, la presenza della scatola nell’armadio gli avrebbe fatto venire un nodo di ansia allo stomaco.

Ma che poteva fare? Telefonare allo zio e chiedere conferma che le cose non stessero come sembrava, che tutto era ancora come aveva sempre creduto, che lo zio o Jeeves o entrambi non avevano mai, mai lasciato entrare qualche donnaccia nel loro letto? (E farlo morire di vergogna qualunque fosse la risposta?)

E poi, perché gli importava tanto?

“Oh, si sono divertiti di sicuro” continuava intanto Vince, con un’allegria che a Bertie parve del tutto fuori luogo. “Vieni a vedere una cosa.”

“No, grazie” rispose Bertie.

“Perché no?”

“Perché non mi va. Devo finire di pulire.”

“Non ti vedo pulire.”

“Comunque.”

Aveva qualcosa a che fare con Vince, ne era sicuro. Il nodo allo stomaco.

All’improvviso se lo ritrovò accanto, di una bellezza che gli scavò una manciata di dolore nel cuore. “Ehi” mormorò Vince. “Ce l’hai con me? Ho fatto qualcosa?”

“Dai, posa quella roba” rispose Bertie, accarezzandogli uno zigomo col dorso delle dita.

“Perché fai così?”

“Perché non mi piace. Perché non è divertente. Perché magari uno dei due non sapeva che l’altro… Senti, perché non lasciamo stare tutto quanto e ci sediamo un po’ di là sul divano?”

“Ma pure se fosse, che vuoi che gliene importi di storie vecchie di secoli… No, dai, questa la devi vedere. E poi giuro che poso tutto.”

“A me importerebbe.”

“Allora me lo ricordo, così non lascio calze e mutandine in giro dove le puoi trovare.”

Bertie tentò di sorridere alla battuta, perché era una battuta, ma il tentativo non dovette riuscirgli granché, perché Vince si fece improvvisamente serio. “Non pensare queste cose perché mi incazzo” borbottò.

“Hai fatto tutto tu.”

“Per scherzo, Bertie, porca puttana. Non ho mai… Senti, non mi fare litigare, che oggi sono felice e ci voglio restare così, mm?” Gli accarezzò la fronte, sporgendosi per baciare una vecchia cicatrice d’infanzia appena sopra la tempia. “Dammi un piede.”

“Un piede?”

“Sì.” Vince scivolò verso la sponda del letto, sollevandogli la gamba e sfilando la pantofola destra. Gli tolse anche il calzino, e l’aria fresca del cottage gli attaccò subito la pelle nuda.

“Vince… Non prenderla male, ma io non lo so se ho voglia di queste cose… un po’ strane…”

Si sentì infilare qualcosa al piede, una scarpa dalla forma strana e troppo lunga, stretta in punta, che costringeva giù le dita in una posizione innaturale.

“Mi va grande” osservò di riflesso, prima ancora di chiedersi perché Vince l’avesse fatto.

“Tu quanto porti?”

“Ah… Quarantatrè.”

Vince tornò accanto a lui, appoggiò i gomiti sul materasso e lo guardò con aria di infinito divertimento. “Tuo zio è più alto, vero? Mi sa che gli arrivi alle orecchie.”

“Sì, lo zio è…” Bertie ammutolì, poi divenne all’improvviso di un bel rosso fiammante. “Posa tutto” ansimò, rizzandosi a sedere e sfilandosi la scarpa come se scottasse. “Subito. Jeeves mi ammazza. Se scopre che abbiamo… e lo scopre, dannazione, Jeeves scopre sempre tutto. Siamo fottuti. Vince, siamo fottuti.”

“Naaah” sorrise Vince, con un’espressione che non gli piacque. Era la faccia che aveva fatto suo cugino Herbert un momento prima di riempirgli le mutande di polvere anti-formiche. “Sto pensando…”

“Qualunque cosa sia, no.”

“Ma non sai cos’è.”

“Non mi interessa. È chiaro che riguarda questa… questa roba e io non voglio averci niente a che fare” dichiarò, agitando la scarpa come una pistola.

Vince continuò a sorridere placido, e Bertie si sentì per un attimo come un grosso canarino paffuto, in procinto di fare un viaggio di sola andata per l’Apparato Digerente.

Cinque minuti dopo, sdraiato supino sul letto con un vago senso di crocifissione, Bertie si disse che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutta questa storia, una sbagliatezza che andava oltre il semplice fatto che c’erano indumenti fatti per gli uomini e indumenti fatti per le donne, e una rete per pesci non poteva certamente rientrare in nessuna delle due categorie.

“Pagherai per quello che mi stai facendo, Vincent Sadler. In questa vita o nell’altra.”

“Oh, andiamo. È divertente.”

“È rivoltante, e sto immaginando cose. Io non voglio immaginare cose. Poi non posso disimmaginarle.”

Vince strisciò sul suo corpo fino a distenderglisi sopra. Passò una mano con lentezza sulla sua coscia quadrettata, tuffando discretamente le dita sotto l’orlo dei boxer. “Ti ho mai chiesto niente?” mormorò sulle sue labbra, degnandole di qualche pigro bacetto. “Non faccio sempre tutto quello che vuoi? Non è vero che se mi dici ‘Buttati’ mi butto?”

“Come faccio a saperlo? Non te l’ho mai… Vince” sospirò, inarcando leggermente il bacino verso la sua mano. “Possiamo farlo o puoi continuare a trasformarmi in un prosciutto. Non entrambe.”

“Bertie. Albert” bisbigliò Vince, leccandogli l’arcata dell’orecchio. “Per te farei tutto. Tutto.”

“Mi stai ricattando. Questo si chiama ricatto. Vuoi farmi sentire in colpa…”

“Questi te li devo togliere…”

“Mi prudono le gambe e sembro un idiota, Vince. Ho i peli. Chiaramente non è una cosa fatta per…”

“Scommetto che tuo zio non le ha fatte tutte queste storie.”

“Aaaahh!” esclamò Bertie, coprendosi gli occhi con le mani. “Smettila di farmici pensare! Con che faccia li guarderò di nuovo in…”

“Poi laviamo tutto, tranquillo. Non se ne accorgono neanche” borbottò Vince, concentrato, facendo passare il reggicalze intorno alle cosce e tirandolo su fin dove il sedere di Bertie ostacolava il processo. “Alza il culo un pochino.”

“Alzerai il culo al mio cadavere, Sadler.”

Vince sbuffò, poi lo afferrò dai fianchi e lo rivoltò sulla pancia come una frittella, ignorando crudelmente le sue proteste. Quando tentò di tirare su il reggicalze, però, quello si incastrò in maniera pericolosa.

“Vince! Mi stai castrando, porca puttana!”

“E dammi una mano, no?”

Bertie affondò la faccia nel materasso, per la posizione o per la vergogna, e tirò l’elastico del reggicalze oltre l’ostacolo. Aveva ancora la faccia sprofondata nel copriletto quando sentì lo scatto dei ferretti posteriori, e un secondo dopo si sentì rivoltare nuovamente sulla schiena perché Vince potesse fare altrettanto sul davanti. Il maglione gli venne sfilato dalla testa senza tanti complimenti.

“Bene” disse mettendosi a sedere e contemplandosi pateticamente nello specchio dell’armadio. “Adesso che l’umiliazione è completa…”

“In piedi” ordinò Vince, infilandogli rapido ai piedi le scarpe troppo grandi.

“No.”

“Solo un secondo.”

“Se vuoi una puttana vai in un bordello.”

“Allora, senti.” Vince si piegò sul pavimento, baciandogli la sommità di un ginocchio e poi l’altro con l’aria reverente di un servitore orientale di fronte al suo sultano. “Non devi fare niente, ti devi solo alzare in piedi e ti voglio guardare un secondo. Un secondo soltanto. Fai questa cosa per me e giuro, giuro che è finita qui.” Gli baciò la coscia, verso l’interno.

Bertie sospirò profondamente. “Lo sai che non mi sono mai sentito più imbarazzato in tutta la mia vita, vero? E sto contando anche quella volta a quindici anni quando Rupert ha detto a Michael Leighton che ce l’avevo più piccolo del suo coltellino svizzero.”

“Chi è Michael Leighton?”

“Il ragazzo a cui avrei voluto con tutto il mio cuore succhiare l’uccello.”

Vince ridacchiò, ignorando la sua faccia indignata e le sue proteste che non c’era proprio niente da ridere. Bertie alzò gli occhi al cielo e gli appoggiò una mano sulla fronte, costringendolo a dargli la sua totale attenzione.

“Io faccio questa cosa per te, Vince. E poi tu farai una cosa per me.”

“Che cosa?”

Bertie gli prese il volto tra le mani e lo baciò, con passione, staccandosi poi con un lento sorriso che gli fioriva sulle labbra. Anche Vince sorrise, ignaro.

“Qualcosa mi verrà in mente.”

Si sentiva una rara specie di fenicottero dalle gambe pelose. Bertie compì un cauto giro sui tacchi, rimirandosi con deciso schifo nello specchio. Allargò le braccia, ma il gesto fu troppo deciso e per un attimo barcollò, rischiando di perdere l’equilibrio.

“Che devo fare?”

“Niente” rispose Vince.

“Niente?”

“No, niente.”

“Mi hai conciato in questa maniera solo per vedere se le calze mi donano?”

Seduto sulla poltroncina accostata al muro per studiare l’intero effetto, Vince sogghignò. “È perché non ho mai visto uno di quelli. Quelli che si travestono, no. Volevo vedere se, non so, se è una cosa che mi piace. Se me lo fa venire duro.”

“E te lo fa venire duro?” domandò Bertie, inarcando un sopracciglio.

“Uhm, no. Veramente no.”

“Grazie a Dio.”

“Però…” Vince si alzò per raggiungerlo, contemplando con un certo rapimento il modo in cui il reggicalze non copriva nulla di nulla, semmai lo faceva sembrare ancora più nudo.

Bertie tentò di fare un mezzo passo indietro, ma i tacchi lo tradirono, e solo la presa ferrea dell’altro intorno al suo posto lo mantenne verticale. “Senti,” fece Bertie, a disagio, “se vuoi una donna…”

“Non voglio una donna” mormorò Vince, inginocchiandosi sullo scendiletto. “Chi la vuole una donna” mormorò sulla sua pancia, soffocando la voce in una serie di baci lenti. Appoggiò le labbra sull’ombelico, sfiorandone l’interno con la punta della lingua. “Non voglio niente che non c’è qui” disse ancora, quasi sul bordino di pizzo nero. Gli mise una mano sul fianco, prendendolo nel palmo con l’altra.

Vince aveva mani larghe e calde, perennemente abbronzate.

Sentì la lingua tracciare l’intera lunghezza e soffermarsi; le labbra gli si aprirono intorno procurandogli un brivido e poi lo divorarono intero, trasformandogli per un secondo le gambe in gelatina. Bertie espirò forte, affondando la mano nei boccoli di Vince e afferrandone una manciata, senza tirare, solo stringendoli per recuperare l’equilibrio in bilico. Avrebbe voluto sedersi ed evitare il fastidio delle scarpe e il rischio che le gambe cedessero, ma non trovò la forza di muoversi.

Vince si ritrasse leccandosi le labbra. Bertie lo guardò con dolcezza.

“Siediti” disse Vince, manovrandolo verso il letto. “Non così, storto. Più in qua. Ecco.” Si gettò uno sguardo sopra la spalla. “Così vedi meglio” mormorò, tornando tra le sue gambe. Con le mani gli fece saltare via le scarpe, che caddero sul tappeto con due tonfi. Sollevato, Bertie piegò una gamba sul letto, lasciandogli più spazio, e si appoggiò indietro su un gomito.

I riccioli di Vince - troppo lunghi; Bertie li adorava - coprivano gran parte della visuale; per questo Bertie tese un braccio e glieli raccolse dietro l’orecchio, tenendoli lì deliberatamente finché anche Vince non gettò un’occhiata e si incontrò nello specchio. A quel punto Bertie aveva semichiuso gli occhi e il piacere gli scorreva in ondate irregolari e continue sotto la pelle. Giurò che gli occhi di Vince ridessero, ma poi l’altro se lo lasciò scivolare sul tappeto ruvido della lingua e lo accolse fino in fondo, costringendolo a serrare le palpebre per controllarsi, per non cedergli all’istante.

“Vieni qui” mormorò con voce roca. “Non ti prendere tutto.”

Vince appoggiò un ginocchio sul materasso, tendendosi verso la sua bocca, e caddero sul cuscino baciandosi. Le dita di Vince cercarono i ferretti e li disfecero uno ad uno; Bertie sentì le calze afflosciarsi sotto le sue mani e rapprendersi molli alle caviglie, lasciando un leggero reticolo impresso sulla pelle. Gli afferrò l’orlo del maglione, sollevandolo per intrufolare le mani sotto la stoffa, sui pettorali, sull’addome che negli ultimi mesi si era ammorbidito (perché mangiava meglio, e perché lo zio li invitava a pranzo sempre più spesso). Sbottonò i calzoni per spingere una mano nella biancheria di Vince, sentendogli il respiro tremolare nella gola.

“Sali un po’” sussurrò. Tenne fermi i pantaloni mentre Vince ne sgusciava fuori e li scalciava via. Le labbra di Vince erano sulla sua gola quando disse: “Ancora un po’. Siediti” e si beò per un instante dell’espressione obbediente e interrogativa dell’altro.

“Ho pensato a cosa voglio” disse lentamente, spostando la stoffa col dorso delle dita mentre spingeva piano i polpastrelli nell’ombra calda tra le sue cosce. Esitò, odiando all’istante il tono autoritario che non aveva voluto davvero, e lo corresse aggiungendo più piano: “Se ti va. Se hai voglia di provare”. Lo sentì contrarsi contro la punta del suo dito, prima ancora di aver tentato qualsiasi cosa. “Ma non fa niente se non vuoi.“

Le rughe sulla fronte di Vince si distesero; lo sentì rilassarsi quasi subito. “Perché non devo volere” mormorò, stirandosi sul suo petto per baciarlo.

A Bertie sarebbero venuti in mente un paio di motivi, ma non gli sembrava il caso di tirarli in ballo proprio ora. In ventiquattro anni aveva conosciuto uomini di molti tipi, ma nessuno che riuscisse a fargli apparire così banali e semplici problemi che altrove, con altri, in un’altra vita, erano parsi insormontabili. Strade sbarrate. Fallimenti personali. Vince scrollava le spalle e il problema era scomparso, convincendolo che non fosse mai esistito.

Perché non doveva volere, appunto.

“Faccio piano” disse Bertie, infiniti minuti dopo, baciandolo tra le scapole sudate. “Tu aiutami. Fermami se… Va bene? E se proprio non…”

“Scopami e basta” ansimò Vince, lasciando cadere la fronte sul cuscino.

Lo sapeva, naturalmente, ma sul momento Bertie non avvertì alcun brivido particolare all’idea di essere il primo. Era troppo impegnato a concentrarsi, ad assecondare le reticenze del corpo di Vince e approfittare dei suoi brevi cedimenti, per permettersi di filosofare sulla perdita della verginità e simili storie. (Per quel che sapeva dei suoi coetanei, per quello che contava, tutti loro se n’erano liberati appena possibile, senza pensarci un secondo. Ma si parlava di un’altra verginità, perlopiù.)

Si fermò, intossicato per un attimo nel suo calore, nell’attanagliarlo contratto del suo corpo. La faccia nascosta tra i gomiti, Vince atterrò un pugno sul cuscino e poi ne strinse forte un angolo finché le dita non gli diventarono bianche. Bertie lo sentì espirare in un filo di voce.

“Vince” lo chiamò, ignorando il disperato bisogno di muoversi, fosse anche solo per lasciarlo. Gli passò le dita sulla pancia stretta, sull’erezione quasi persa, gli raccolse i testicoli nel palmo in una lenta carezza. Accennò a ritrarsi di qualche centimetro per poi affondare nuovamente, con cautela. L’addome di Vince tremò sotto le sue dita.

“Dammi la mano” mormorò. “Segui me… Così” ansimò, muovendosi lentamente dentro di lui, e con altrettanta lentezza intorno a lui e alle sue dita. Con Vince era un’altra cosa, gli sovvenne quando si ricordò di respirare, diversa da tutte le volte della sua vita. Al pensiero di essere amato da Vince - e cosa poteva se non amarlo, se a nessun altro aveva mai, e invece a lui sì - si sentì riempire il petto di un calore devastante, tanto più bruciante quanto più improvviso, che gli risalì fino alla gola e gli arrossò le orecchie e la faccia. Gli sfuggì un suono che gli parve riecheggiare nella stanza per qualche tempo, al di sopra del rumore secco della carne che si incontrava e dei loro respiri separati ma misteriosamente a tempo.

“Dio” mugugnò Vince nel cuscino. “Mio Dio. Bertie.”

C’era una nota di piacere nella sua voce, e Bertie non si fermò. Adesso era più facile; accorciò la portata delle spinte e si permise di essere più deciso, di superare il timore di fargli male. Vince era forte. A Vince piaceva. Lo leggeva nel modo timido eppure chiaro in cui lo assecondava, nella scioltezza con cui si masturbava cercando di tenere il ritmo. Bertie lo incalzò, chiudendo gli occhi per un istante per reggere al raccogliersi di ogni sensazione nel suo basso ventre, poi li riaprì.

“Guarda” disse, dandogli uno schiaffetto sulla coscia per attirare la sua attenzione. “Girati.”

Gli sembrò bellissimo anche col viso arrossato e contratto, e desiderò baciarlo e scoparlo insieme ma non trovò il coraggio di scomporre la posizione, per paura di perdere il momento e che tutto andasse a rotoli. Vince si allungò come un gatto, stendendo la schiena e alzando la testa, il peso spostato su un gomito.

“Ti piace? Dimmi che ti piace” ansimò Bertie, euforico.

“Ah…”

“Vince.”

“Sì” gemette Vince, tra i respiri. “Sì. Ho detto di sì. Porca puttana, non ti fermare.”

“Ti amo.”

“È proprio lì che… Ahh. Sei un bastardo, Wooster. Sei un…”

Bertie non ebbe modo di sapere cos’altro fosse. Sentì Vince contrarsi e tendersi intorno a lui per un lunghissimo istante, e un brivido di piacere gli fece dubitare del sostegno delle sue gambe. Una manciata di secondi dopo lo seguì, ogni pensiero annullato nel tempo di un respiro, nello sfumare squisito dell’orgasmo.

Si lasciò cadere supino sul materasso, calciando via il reggicalze rimasto sul copriletto. Vince, abbracciato al cuscino con aria stravolta, strisciò fino ad appoggiargli l’orecchio sulla spalla.

Era da un po’ che voleva farlo, perciò gli passò le dita sotto il mento e lo attirò a sé per baciarlo. C’era una riga di sale asciutta all’angolo dell’occhio di Vince. La grattò via con un polpastrello.

“Perché sono un bastardo?” mormorò.

Vince sospirò, rilassato, appoggiando la guancia sul cuscino.

“Perché me lo potevi dire prima” borbottò.

“Che cosa?”

“Che era così. Che sentivi… lascia stare.”

Bertie ci pensò un attimo. “Non me l’hai mai chiesto.”

“Sì, ma me lo potevi dire.”

“Non mi è mai venuto in mente di dirti che bella sensazione sia avere il tuo cazzo nel culo.” Gli appoggiò una mano sull’orecchio, accarezzandogli i riccioli sudati che si dipartivano dalla tempia. “Come stai?”

Vince chiuse gli occhi. “Bene. Mi sa che mi devo alzare… darmi una pulita. Ma se mi alzo cammino come un imbecille.”

“Ora lo faccio io” mormorò Bertie, sulle sue labbra. “Stai un po’ qui.”

“Quanto vuoi” bisbigliò Vince. “Cazzo, mi sento molle come un budino.”

“La prossima volta lo facciamo normale” promise Bertie.

La voce di Vince si andava facendo più lenta e impastata, nonostante non fosse neanche l’ora di cena. “Dammi un pezzo di coperta, mmm? Mi sto gelando il…”

“Prima dobbiamo lavarci.”

“Mmm.”

“Vince?”

“Mmm?”

“Ti porto un asciugamano, dai.”

“Pensavi che ero uno stronzo, vero?... Perché non ti ho mai detto se volevi farlo.”

“Certo che no. Io non te l’ho mai chiesto.”

“Mi sento uno stronzo. Ci ho pensato, però poi…”

“Ma smettila. Vado e torno, dai.”

“Perché tu mi puoi fare tutto quello che vuoi. Anche se non te lo dico. Anche se pensi che non mi piace.”

“Non ti farei mai una cosa che non ti piace.”

“Lo so. Ma a me va bene se lo fai.”

“Lo so” sussurrò Bertie. Gli mancava improvvisamente il respiro. Si schiarì la voce in un colpetto di tosse. “Stai qui, torno subito” annunciò, tirandogli uno schiaffetto su una natica. Ispirato, si piegò per posarvi un bacio fugace.

“Mi sono innamorato del tuo culo” dichiarò mettendo i piedi sul parquet gelato. “Ti lascerò per mettermi con lui.”

“Puttana” borbottò Vince dalle profondità del cuscino.

fic, pairing: bertie/vince, fic: jeeves & wooster, language: italian, challenge: p0rn fest

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