[Sherlock Holmes] Far from home, elephant guns

Mar 08, 2010 12:18

Titolo: Far from home, elephant guns
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson, Watson/OC (accenni)
Rating: R
Conteggio parole: 8353 (W)
Note: Scritta per zephan82, che mi ha generosamente comprato su help_haiti. La cosa è lievitata un attimino al di sopra delle mie aspettative. Holmes POV.

Quel mattino, insieme al vassoio della colazione giunse una lettera per il mio amico. Ammetto che sulle prime non la guardai con particolare interesse. Colsi la carta di buona fattura, ma ingiallita; e notai la brutta grafia tremolante, simile a quella di un bambino alle prime armi.

Watson aprì la busta, dispiegò la lettera, lesse la prima riga e poi con lo sguardo corse subito alla firma, un’abitudine che avevo catalogato anni prima nel fascicolo mentale che lo riguardava, insieme al modo in cui girava il suo tè in senso rigorosamente orario e al numero di denti che si scoprivano nei vari gradi di ampiezza del suo sorriso.

Subito dopo, impallidì.

Il dottore ha perso da lungo tempo la feroce abbronzatura acquisita in Afghanistan, ma il suo colorito naturale è florido e sano, e per questa ragione un improvviso pallore vi risalta con tanta più veemenza. Senza menzionare il fatto che Watson è del tutto incapace di dissimulare: le emozioni affiorano al volto pressoché all’istante, rivelandosi in tutta la loro forza. Considerevole, perché Watson è un uomo dalle robuste passioni.

Aspettai che leggesse la missiva per intero, e lo osservai mentre il suo sguardo continuava a vagarvi sopra, ricercando le parti che più l’avevano colpito.

“Watson? Stai macchiando la preziosa tovaglia ricamata di Mrs. Hudson.”

“Cosa? Oh. Dannazione” borbottò Watson a mezza voce, spostando il cucchiaino gocciolante dalla traiettoria. Questo non alleviò i miei sospetti. Imprecare non rientra nelle buone abitudini del dottore, se non in casi eccezionali.

Ripiegò la lettera e se la pose al fianco, decidendosi a bere il suo tè; ma lo sguardo tornava al foglio a intervalli regolari, e continuò a farlo anche mentre leggeva il giornale, o tentava, perché lo mise via alla terza pagina.

Accesi la pipa. In un’ora al peggio avrei potuto scoprire ogni cosa sulla lettera e il suo mittente, ma non era mia abitudine spiare nella corrispondenza altrui - a meno che non fosse strettamente necessario.

“Un ex-commilitone, presumo” dissi a voce alta.

Watson, che si era alzato per andare a ravvivare il fuoco, irrigidì leggermente le spalle.

“Amico. Probabilmente intimo. Ha perduto una mano in battaglia. Di mezzi non scarsi - può contare su una cospicua pensione di veterano. Non un abituale scrittore di lettere. Desidera incontrarti con deciso trasporto, ma senza rendere la cosa pubblica. L’indirizzo è in fondo al foglio: è una via che conosci, ma non benissimo. Ti sei domandato come mai ora, dopo tanto tempo, e come mai proprio in quel posto. E non hai ancora deciso se andrai.”

Watson rimase fermo, una mano sulla mensola e l’altra stretta intorno al manico dell’attizzatoio, le nocche bianche per lo sforzo.

“Sì” rispose. “È vero.” Si voltò, rimettendo l’attrezzo al suo posto, e affettò un sorriso dei suoi. “Ora devo domandarti come hai fatto, mi pare.”

Un altro si sarebbe irritato, ma non il dottore. Il dottore sa - e se non lui, chi altri - che ogni piccolo mistero nel quale mi imbatto deve essere risolto. Egli mi segue talvolta con la fascinazione ammirata di un compagno più giovane; talatra mi lascia fare con l’indulgenza scettica di un fratello maggiore. In fondo, gli sono molto grato per entrambe.

“La lettera è indirizzata a ‘John Hamish Watson’. La gente non è solita menzionare il proprio secondo nome in una conversazione con un estraneo; ad ogni modo, tu non lo sei. Calcolando che ho impiegato un anno e tre mesi per sentirtelo pronunciare, e mi pregio di considerare la nostra amicizia piuttosto intima, ne deduco che non è un’informazione che elargisci con facilità.”

Gli occhi di Watson si fecero distanti. Le emozioni non sono il mio campo di indagine precipuo, ma so riconoscere malinconia quando la vedo. “Hai ragione. Che altro?”

“La grafia è quella di un uomo fortemente a disagio con una penna in mano, ma nondimeno consapevole, in teoria, di come vergare le lettere in bella grafia. Ti confesso che da qualche tempo accarezzo l’idea di scrivere un libello sulle applicazioni dello studio della calligrafia in campo criminologico.” La ruga di perplessità tra le sopracciglia di Watson mi parve quasi comica, per un momento. “Non ha usato la mano dominante,” continuai, “e non si è ancora abituato ad adoperare correttamente l’altra. D’altra parte, se fosse un abituale scrittore di lettere, avrebbe ripreso manualità in pochissimo tempo, ma così non è; tanto più che la carta è di ottima qualità ma piuttosto vecchia, e dunque poco usata. Avrebbe altresì potuto dare l’incarico a un parente o a un segretario, ma non l’ha fatto: il contenuto doveva restare riservato. Ha riportato un indirizzo in fondo al foglio, sul quale ti sei soffermato per almeno tre secondi, dopodiché hai alzato lo sguardo e sillabato il nome della via tra te e te, cercando di ricordare dove si trovasse. Dopo aver trovato la risposta, sei rimasto perplesso per altrettanti secondi e infine hai scosso la testa, incapace di decidere sul momento per un verso o per l’altro.”

Il dottore tornò a sedersi di fronte a me, appoggiando una mano sul foglio piegato e giocherellando per qualche istante con un angolo della carta. Qualcosa in tutta la faccenda mi appariva sbagliato, ma non avrei saputo dire cosa. Non sono uomo da dar credito a vani presentimenti, ma so fidarmi dell’istinto, che altro non è se non un livello più sotterraneo della nostra ragione. Quando tutto è detto e fatto, ciò che abbiamo chiamato istinto può facilmente spiegarsi con lo svelarsi di un dettaglio che la nostra mente aveva recepito prima della nostra coscienza vigile.

“Un ex-commilitone, hai detto? E perché non un amico qualunque. Un collega. Un compagno dei tempi del college.”

“Ti ho visto ricevere lettere di colleghi e di compagni del college” risposi, vagamente allarmato dalla sua strana reazione. “Ma un solo argomento al mondo ha quest’effetto su di te.”

“Davvero?” chiese Watson, a bassa voce. “Non ne avevo idea.”

Restammo in un silenzio teso per qualche minuto. Watson aveva dispiegato il foglio e lo stava rileggendo ancora e ancora, benché ormai dovesse conoscerne il contenuto a memoria. Infine si alzò, borbottando qualcosa tra sé che suonò terribilmente come: “Tutto questo è ridicolo”, e lasciò cadere la lettera nel fuoco.

Aveva preso a passeggiare avanti e indietro sul tappeto di fronte al camino, senza perdere d’occhio la carta che bruciava, quando d’un tratto si fermò e si volse a guardarmi, ancora molto pallido nonostante il fuoco vicino.

“Devo sembrarti impazzito, stamattina” disse piano, quasi vergognandosi, ma non desideravo soffermarmi a immaginare di cosa.

“Mio caro Watson, se sei uscito indenne da tre anni in mia compagnia, dubito che una lettera basterà a scalfire la tua sanità mentale.”

Sorrise, ma non come al solito. Il sorriso è un’arma a doppio taglio nelle mani del mio amico il dottore: alla bisogna ne sa disporre meglio che del suo revolver, per convincere le giovani signore a sentirsi in vena di collaborare, ma nei momenti cruciali lo tradisce. Allora il suo sorriso tirato diventa il mezzo più efficace per verificare la sua pessima disposizione d’animo, e non c’è modo per lui di nasconderlo.

“Tuttavia” ricominciai, raggiungendolo davanti al camino, “non ti faccio un torto se ammetto che hai un aspetto orribile. Siediti, e dimmi cos’è.”

Quando entrambi ci fummo accomodati e riscaldati a dovere, Watson mi gettò uno sguardo di sottecchi, carico di una timidezza inconsueta. È un uomo deciso, il mio dottore, non un idiota balbuziente, e l’esitazione non gli è propria. È un peccato, o forse una rara fortuna, che gran parte dell’umanità scambi la pazienza e il silenzio per indizi di poca intelligenza, quando non sono altro che il segno di un animo metodico e riflessivo, saldo nella frenesia del mondo. Quando c’è qualcosa da dire, Watson non ha remore a farlo.

“Quando ti avrò raccontato, perderai ogni stima che nutri nei miei confronti, Holmes.”

“Permettimi di dissentire.”

“Holmes, sono serio. Questa storia è uno dei capitoli più turpi della mia vita.”

“D’accordo” dissi. “Concorderemo, mi auguro, che ho una certa esperienza in materia di turpitudini. Vorrà dire che tu racconterai, ed io giudicherò. Non tralasciare i dettagli, ti prego” conclusi, piuttosto seriamente.

Watson annuì, fortemente a disagio.

“Il nome è James Daugherty. L’ultima volta che l’ho visto aveva il grado di maggiore” iniziò, guardandosi le mani. “Ci conoscemmo quando fui assegnato al Berkshire. Era un uomo di spirito, coraggioso in battaglia, dotato di senso dell’umorismo. Scoprimmo presto che apprezzavamo la reciproca compagnia, e che avevamo un certo numero di cose in comune. Eravamo coetanei, e anche i parenti di Daugherty erano emigrati in Australia. Ora può sembrare risibile costruire un’amicizia su cose del genere, ma la storia della mia permanenza nell’esercito fino a quel punto era stata quanto mai travagliata, e trovare qualcuno con cui condividerne gli alti e i bassi mi confortò non poco.” Scosse la testa. “Le cose andarono bene per qualche tempo, ma progressivamente peggiorarono, finché la notte prima di Maiwand avemmo un litigio. C’era una tendenza alla crudeltà nel suo carattere che non avevo potuto fare a meno di notare, particolarmente nei confronti delle giovani reclute e dei prigionieri. Gli dissi che avevo visto delle cose, e sentito delle altre, che mi erano parse indegne perfino di essere pensate. Per farla breve, ne nacque un alterco, e mi vergogno di confessare che scendemmo alle mani. Era notte, e ci trovavamo in una stanza alquanto appartata dell’edificio adibito a ospedale da campo, per cui nessuno ci sentì o venne a separarci. Daugherty cadde e si fratturò un braccio. Io mi lussai la spalla destra. A quel punto la foga era svanita e cercai di soccorrerlo, ma Daugherty rifiutò il mio aiuto e se ne andò. Svegliai Murray, il mio attendente, e mi feci aiutare a rimettere la spalla a posto, poi mi avventurai nell’accampamento in cerca di Daugherty. Fu tutto inutile: non riuscii a trovarlo da nessuna parte, ed era quasi l’alba quando rinunciai del tutto.

“Il giorno seguente ci fu ordinato di avanzare, e con la spalla in quelle condizioni fui una preda facile. Ricordo che mi sembrò fatalmente giusto che la pallottola del Ghazi mi colpisse proprio in quel punto.” Si massaggiò la spalla con l’altra mano, lentamente. So che a volte, d’inverno, il dolore si fa quasi intollerabile. “Quanto a Daugherty, non lo vidi mai più. Fui portato a Peshawar, quasi già delirante, e il resto della storia ti è noto. Ho sempre...” Il suo sguardo si perse nel fuoco. Seppi che stava osservando gli ultimi frammenti della lettera bruciare. “Ho sempre creduto che fosse morto quel giorno. Con il braccio fratturato...”

Si passò una mano sulla faccia, strofinandola con forza, e lasciando cadere infine il palmo sugli occhi. “Mi dispiace di non averne mai parlato, Holmes. Non l’ho mai detto a nessuno, ma tu avresti avuto il diritto di conoscere questo mio atto di codardia. Non ti biasimo se mi ritieni una persona disprezzabile.”

C’è una sola caratteristica dell’animo del dottore che trovo più affascinante della sua testardaggine, ed è la sua onestà. È un tratto distintivo, e non comune a molti uomini. Non sono sprovvisto di una mia morale, ma quella del dottore è talvolta l’ago della bilancia sul quale misuro la bontà del mondo intero.

“Ho conosciuto un certo numero di codardi” risposi, con calma, perché le sue mani erano a un passo dal tremare e dovevo fare qualcosa per invertire il processo, o si sarebbe avverato. “Sì, posso dire senza timore di smentita di avere una certa familiarità col fenomeno. E non ho mai pensato di ascriverti alla categoria.”

Gli occhi di Watson mi ringraziarono in silenzio, uno spettacolo per il quale in tutta sincerità mi difettano le parole.

“Ora,” ripresi, misurando con lo sguardo la stanza, “quando sarà l’incontro?”

“Daugherty non ha fissato una data. Mi ha domandato di scrivergli a quell’indirizzo, fargli sapere se sono disponibile.”

“E lo sei?”

“Non lo so” rispose, scuotendo la testa.

Mi alzai, recuperando dalle fiamme del camino un frammento della lettera miracolosamente illeso. ‘Antica amicizia’ diceva, e subito sotto la parola ‘rinnegare’. “Non posso dirmi un esperto in materia, tuttavia è sentire comune che i fantasmi del passato abbiano la tendenza a riproporsi, se non debitamente scacciati. Suggerisco un luogo pubblico, ma con un’area appartata. Uno che nessuno dei due frequenti assiduamente, casomai dovesse volare qualche indiscrezione. Mi vengono in mente un posto o due che potrebbero fare al caso tuo.”

“Holmes… Ti ringrazio, mio caro, sinceramente,” si affrettò Watson, “ma non ho ancora deciso se andrò.”

“Naturalmente” replicai. Mi alzai dalla poltrona, affettando un’energia e un buonumore di gran lunga superiori a quelli che sentivo. C’era dell’altro in fondo a questa storia. Non credevo che Watson mi avesse mentito, perché il suo disagio e la sua riluttanza erano stati genuini, ma qualcosa mi sfuggiva. È una peculiare sensazione quella di avere tra le mani un puzzle con un pezzo mancante, non importa quanto grande sia la parte completa.

“Qualora ne sentissi il bisogno, sono disposto ad accompagnarti in qualsiasi momento. Non ho alcun caso aperto, ad ogni modo.”

“E la collana di Lady Pembleton?” ribatté Watson, accennando alla pila della corrispondenza di ieri.

“Il fratello. Ha scommesso sul cavallo sbagliato e non aveva come pagare i debiti.”

“L’assassinio del capitano dell’Imogen?”

“Montatura giornalistica. Niente più che un banale incidente.”

“La scomparsa di Miss…”

“Fuggita con lo stalliere.”

“Dunque sei libero.”

“Completamente.”

“Allora” osservò Watson, appoggiando il mento sulla mano, “sono certo che da questo pomeriggio sarai alquanto impegnato nella sistemazione del tuo archivio, come ti ho domandato di fare non appena ne avessi avuto il tempo.”

Può darsi che mi sfuggì un sorriso, perché Watson ha un modo molto seducente di conquistarsi l’ultima parola. Uno degli innumerevoli motivi per cui mi è così prezioso, senza dubbio. Ma non mancai di notare che la mia offerta era stata accantonata senza risposta, e che questa non era una sua abitudine.

“Vedrò quello che posso fare” risposi, andando a meditare sul problema nella mia stanza.

Ne riemersi mezz’ora dopo, lavato e vestito. Giornali di tre settimane attendevano, come Watson aveva ricordato, il mio intervento. Mi sedetti al tavolo col più vecchio. Terminata la colazione, Watson sedeva sul divano col giornale della mattina; sfogliai il mio per qualche istante, dopodiché andai a prendere un volume dall’archivio. Ebbi cura di tenere coperta l’indicazione della lettera col palmo, e il vuoto corrispondente nello scaffale con la spalla.

Non mi ero sbagliato; raramente mi capita, quando si tratta di memoria visiva. Alla voce Daugherty, James avevo incollato un articolo sulla miracolosa liberazione di un maggiore dell’esercito di Sua Maestà, veterano della guerra afghana, rimasto prigioniero dei Ghazi per oltre due anni. L’articolo si dilungava a spiegare l’eccezionalità dell’evento: l’aspettativa di vita nelle mani dei Ghazi era di giorni, settimane al più. I nostri soldati ancora sani di mente e in grado di caricare una pistola preferivano piantarsi una pallottola nelle cervella piuttosto che lasciarsi catturare. Il maggiore Daugherty era non solo riuscito a sopravvivere alle tremende torture, ma anche a mantenersi lucido e liberarsi alla prima occasione, approfittando della distrazione dei suoi carcerieri. Per questo aveva ricevuto una decorazione al merito e, probabilmente, una pensione bastevole per tutta la sua vita.

Sei mesi fa. L’avevo ritagliato perché Daugherty apparteneva allo stesso reggimento di Watson, e se al mondo c’era un solo argomento in grado di produrre un tale effetto sul mio amico, allora era il caso di raccogliere tutto il materiale possibile. Ma perché Watson non l’aveva visto?

“È stato in marzo o in aprile che sei stato invitato al matrimonio di quel tuo collega nello Yorkshire?”

“Marzo” rispose Watson, dopo un secondo di riflessione.

Bene, questo spiegava tutto. Tornai al tavolo senza dar conto allo sguardo interrogativo di Watson e mi impegnai ad archiviare tutto ciò che di utile e interessante offrivano i giornali dell’ultimo mese. Per chi non fosse edotto sull’argomento, è un’attività la cui importanza non può essere esagerata: imprescindibile, essenziale, e profondamente noiosa. Mio fratello Mycroft, che possiede una memoria infinitamente più capace della mia, può permettersi di farne a meno; ma per chiunque altro scelga la mia professione è vitale tenere un archivio completo e aggiornato di tutti i fatti più rilevanti. È indubbio, però, che la cosa richieda tempo e concentrazione, nessuna delle quali cose può essere sottratta al corso di un’indagine aperta. L’attività è perciò relegata ai momenti liberi, e quello in cui mi trovavo - come Watson mi aveva fatto notare - lo era.

Lo osservai mentre lavoravo. Non è evidente da altre angolazioni, ma se ci si siede nella giusta posizione, si scopre che lo specchio sul tavolo è posto in modo da riflettere il divano e chi lo occupa. L’accorgimento è stato pensato per permettermi di osservare i miei clienti quando essi credevano di non essere scorti, ma col tempo mi sono trovato sempre più restio a limitare un tale vantaggio a dei perfetti sconosciuti. Il dottore, per quanto non del tutto incapace di contenere e nascondere le sue emozioni quando ritiene di doverlo fare, è uno spettacolo di spontaneità quando si crede solo coi suoi pensieri.

Il suo giornale era finito da almeno cinque minuti. Per risparmiarsi l’imbarazzo di posarlo e restare a mani vuote, l’aveva ricominciato da capo, ma gli articoli non riuscivano in alcun modo a detenere la sua attenzione. Aveva una ruga sempre più profonda tra le sopracciglia e dava segni frequenti di disagio e impazienza: batteva il piede sul tappeto, si muoveva alla ricerca di una posizione più comoda nel suo posto preferito, a tratti sospirava silenziosamente.

Alla fine seppi che aveva deciso prima che se ne accorgesse egli stesso. Watson mise via il giornale e raccolse brevemente le energie.

“Holmes? Volevo dirti…”

“Spero che seguirai il mio consiglio circa il luogo dell’incontro, dottore. Dopotutto, e con questo non intendo offendere le tue ottime capacità di autodifesa, non sarò lì a guardarti le spalle.”

Watson tacque un momento. “Non credere che non ti sia grato per l’offerta. Ma è una cosa che devo affrontare da solo.”

La maggior parte delle persone si sente più a suo agio a nascondere quell’essenziale un percento di una questione che non vuole rivelare se ne spiattella in tutta onestà il restante novantanove, e in questo Watson non fa eccezione. Mi stava dicendo la verità, ma non la parte importante; quella avrei dovuto scoprirla da solo.

“Naturalmente, ragazzo mio.”

“Seguirò il tuo consiglio. E… grazie, davvero, per la tua comprensione.”

“È tutto a posto. Mi dirai quando si terrà l’incontro, o è un’informazione che preferisci mantenere riservata?”

“Non ho alcun problema a dirtelo, Holmes. Non intendo tenerlo segreto.”

“Lo presumevo. Bene, allora.” Gli porsi il taccuino e la penna senza voltarmi. “Mrs. Hudson! Telegramma!”

Nessun investigatore può dirsi degno di questo nome se non padroneggia l’arte del travestimento. Per chi cerca di scoprire la verità, l’abilità di diventare qualcun altro è vitale almeno quanto una mente logica e ordinata. È un tratto che questa professione condivide con l’attore, con la differenza che assai di rado l’abilità dell’attore si tramuta in una questione di vita o di morte.

Solo un uomo dell’integrità di Watson (stento a dire “ingenuità”, perché Watson non è affatto ingenuo) può credere che lo lascerei presentarsi da solo a un appuntamento che contenesse anche solo una frazione di pericolo per il semplice motivo che egli non desidera la mia presenza. Ma poiché non volevo essere visto, non mi videro. Sono impreciso: mi videro chiaramente, e più di una volta, giacché servii loro da bere e poi mi trattenni a rassettare alcuni tavoli vicini. Ma non videro Sherlock Holmes, e i camerieri per loro natura sfuggono all’umana attenzione. Il padrone del locale, ad ogni modo, aveva un debito nei miei confronti, e fu più che felice di lasciarmi servire ai suoi tavoli per un paio d’ore.

James Daugherty era stato un tempo un uomo di eccezionale bellezza: una bellezza virile, mediterranea, con un tocco rude a scomporne l’armonia, e non meno eccezionale per questo. Aveva avuto, prima che ogni dito fosse fratturato, mani grandi e forti, adatte al fucile o alla mazza da cricket in egual maniera. Senza la cicatrice che gli deturpava la faccia, tutta l’attenzione sarebbe stata per i suoi occhi, di una preziosa sfumatura di giada. E a ignorare il prematuro diradamento dei suoi capelli, si sarebbe scorta una fronte alta e spaziosa, aristocratica.

La consapevolezza della magnificenza passata doveva pesare sull’uomo peggio del ricordo delle torture subite. Quello che sedeva al tavolo era un vecchio, emaciato, con gli occhi infossati e le mani contorte e scheletriche, una delle quali, la destra, completamente atrofizzata. Era talmente abbronzato da sembrare egli stesso un nativo afghano, e difficilmente quel colorito feroce l’avrebbe mai abbandonato. Per colpa del sole del deserto, la sua faccia aveva la consistenza secca e rigida della pergamena. Era coetaneo di Watson, e Watson al tempo aveva trentadue anni, ma avrei potuto dirlo suo padre.

Il dottore fece del suo meglio per nascondere ogni traccia di pietà quando lo vide. Era un veterano anch’egli, e sapeva che niente è più doloroso per un invalido della pietà sincera. Tuttavia la pietà traspariva a piene mani dal suo sguardo, dalla piega rigida della sua bocca, dalla sua camminata, da ogni singola porzione del suo corpo, da ogni parola detta e non detta. Ma Daugherty, per quanto distrutto nel fisico, non lo era altrettanto nello spirito.

“James” disse Watson, estremamente piano. “Mio dio. È…” Esitò, riprendendo il controllo di quella che mi parve un’emozione inesprimibile. “Sono tremendamente felice di rivederti. Non so dirti quanto. Se solo…”

Senza parole, l’altro lo tirò a sé in un abbraccio, al quale Watson rispose con uguale entusiasmo. Per un po’ rimasero in quella posizione, poi si allontanarono, e dalla mia posizione discosta potei scorgere un velo lucido negli occhi di entrambi.

“Sediamoci” disse Daugherty, rivelando una voce rauca ma autoritaria.

“Fino all’altro giorno, ho creduto che fossi morto” mormorò Watson, con la commozione nella voce. “Ho immaginato le cose più atroci. Se l’avessi saputo…”

“Non hai letto l’articolo, allora?” ribatté Daugherty, con aria immensamente sollevata.

“Quale articolo?”

“John, tu devi capire, io ero certo che tu fossi morto. Quando ho scoperto che eri vivo e a Londra, ho pensato che avessi letto l’articolo ma non te ne importasse - o mi odiassi ancora, dopo quello che era successo. Mi ero quasi risolto a lasciare le cose così come stavano, ma il ricordo di quella notte non mi dava pace. Anche dopo averti inviato la lettera, non ho osato sperare che accettassi.”

“Amico mio” fece Watson, “non so di quale articolo tu stia parlando. Se avessi avuto qualche indizio che eri ancora vivo, non avrei tardato un istante a cercarti per chiederti di perdonarmi. Quella notte è impressa in maniera indelebile nella mia memoria.”

Daugherty si sporse per appoggiare la mano sana su quelle di Watson, strette insieme sul tavolo, e la tenne lì per qualche tempo.

In quell’istante tutto mi fu chiaro. La rivelazione fu repentina e, a posteriori, alquanto scioccante, perché del tutto imprevista. Non mi capita spesso di essere sorpreso in maniera così completa e prepotente, al di là di ogni previsione. Fino a quel momento, con tutta evidenza, avevo commesso un gravissimo errore di calcolo.

Mi intromisi per chiedere cosa volessero bere, e per dare un’occhiata a Watson da vicino. Erano entrambi così presi dalla discussione che a malapena mi rivolsero uno sguardo. Gli occhi del dottore scintillavano di un entusiasmo che finora avevo creduto solo i miei trucchi più spericolati (ragionamenti banali con una serie di deduzioni centrali omesse per stupirlo) potessero accendere.

Quando tornai, Daugherty stava ancora parlando della sua fuga fortuita dalle mani dei Ghazi, come aveva fatto nell’ultimo quarto d’ora. Watson beveva ogni parola dell’incredibile coraggio del suo commilitone con aria addolorata e ammirata al tempo stesso, punteggiando il discorso dell’altro con brevi commenti di poca importanza.

La conversazione si era, insomma, fatta estremamente noiosa, ed io ritenni di aver udito abbastanza. James Daugherty poteva essere o essere stato molte cose, ma di due ero certo: l’una, che era completamente inoffensivo; l’altra, che non c’era in lui un’oncia di rancore per il suo antico camerata. Ad ogni modo avevo un ultimo sospetto da verificare, per il quale necessitavo di un telegramma e di un rapido salto a Pall Mall, per cui abbandonai il mio travestimento, privando il posto di un eccellente cameriere.

Watson fece ritorno non prima delle undici. Dal suo passo sulle scale capii che aveva ecceduto con il vino, e la salita sembrò rivelarsi impresa più ardua di quanto non fosse di solito. E poi eccolo lì sulla porta, con un sorriso e un peculiare rossore sulle guance, e l’aria libera e appagata di chi si è liberato di anni di sensi di colpa in una sola sera.

“Watson” dissi, alzandomi dalla poltrona. “Non ricordavo che la cantina di Mr. Baker fosse così ben fornita come la tua faccia mi… Insomma, ragazzo mio! Guarda dove metti i piedi.”

“È stata una magnifica serata” annunciò Watson, lasciandosi cadere sul divano e riuscendo così nella non facile impresa di irritarmi con cinque parole.

“Lo posso immaginare senza dubbio. Lunghe ore spensierate dedicate alla reminiscenza di sontuosi banchetti a base di carne salata e acqua putrida, e l’occasionale arto da amputare prima del dessert.”

È una fortuna che Watson avesse bevuto abbastanza per non dare troppo peso a quello che avevo detto, perché non me l’avrebbe perdonato. L’Afghanistan è un argomento sul quale il dottore non consente ironia.

“James ha sofferto così tanto, Holmes. Così tanto. Più di quanto io, con le mie sciocche lamentele sulla mia spalla e la mia gamba, potrei mai…”

“Se la sofferenza fosse un titolo d’onore, conosco un paio di ragazzi di strada che meriterebbero di essere fatti Primo Ministro.” Gli porsi un bicchiere d’acqua. “Ma mi rallegra scoprire che il tuo amico non voleva la tua testa, dopotutto.”

“No” disse Watson, dopo aver preso qualche sorso. “Niente del genere. Avrebbe potuto. Dio sa che avrebbe avuto il diritto…”

Sbuffai.

“… di odiarmi. Ma è tutto dimenticato. Tutto perdonato. Holmes, non so da che parte cominciare per esprimerti quanto io mi senta… mio Dio, sollevato.”

Ho detto qualche pagina addietro che il dottore è un uomo dalle robuste passioni. In verità, al tempo di questa narrazione la forza e la profondità di queste passioni non mi erano affatto ben note come la consapevolezza presente può far sembrare. In molti aspetti, il dottore era per me un completo estraneo; peggio, uno straniero, che parlava un idioma del tutto diverso dal mio.

Ma non quella sera, e sfiorare la portata della sua commozione mi sopraffece per un attimo. L’irritazione mi vinse, e dissi cose che non avrei dovuto dire, ma sono felice di averlo fatto.

“Così hai riguadagnato il cuore del tuo vecchio amante? Di già? In fede mia, credevo che il vecchio detto ‘lontano dagli occhi, lontano dal cuore' fosse un po’ più fededegno.”

Sentii ogni parola affondare come un coltello, e, se posso continuare a usare questa metafora tremendamente abusata, lo rigirai nella piaga. “Non ho familiarità col sentimento, ma suppongo che aver avuto robusti e continuati rapporti sessuali con un uomo renda la sua supposta morte alquanto più dolo…”

Non vidi lo schiaffo arrivare. Mi colse completamente di sorpresa, ancor più perché nulla indicava che Watson potesse sfoggiare tanta rapidità di movimento con tutto quell’alcool in corpo. Non mi meraviglierei di scoprire che la mia espressione, dopo, fu quella di un perfetto idiota. Ma solo per un secondo. Watson mi guardò con una smorfia truce e sentii un’improvvisa calma lavare via la mia sorpresa.

“Sai che ho ragione” dissi lentamente.

“Sai che non hai il diritto di parlarmi in questa maniera!”

“In quale maniera? Non c’è un’oncia di menzogna in quello che ho detto. Se la verità ti è insopportabile, o l’idea che qualcun altro sappia, dottore, forse dovresti schiaffeggiare la tua coscienza e non il tuo coinquilino.”

Watson fece un passo indietro, rischiando di inciampare in una gobba del tappeto, ma lo afferrai per un braccio. Lo schiaffo era stato forte, sentivo la guancia formicolare di dolore. Ma sapevo che non me ne avrebbe inflitto un altro. “Sai che ho ragione” ripetei.

“Ti chiedo scusa per aver alzato le mani” disse lui, senza guardarmi. “E adesso me ne andrò a letto, se non ti dispiace. Lasciami.”

“Non ne ho la minima intenzione. Guardami. Ascoltami. Se me l’avessi detto fin da principio sarebbe stato tutto più semplice. Parola mia, Watson, sei peggio di certi clienti che mi capitano, quando si tratta di dare le informazioni più importanti!”

“Perché avrei dovuto? Perché avrei dovuto dirtelo? Non è nulla che ti riguardi. È tutto nel passato. Se hai paura che ti metterò in pericolo associandomi a soggetti loschi, puoi dormire tranquillo: non ho alcuna intenzione di…”

Aveva smesso di dibattersi, ma nondimeno rafforzai la stretta, facendomi più vicino. Come scintillavano i suoi occhi! Erano cupi e velati d’imbarazzo e pericolosi, e in essi brillava un lampo di ribellione che non avevo mai visto. La sua voce usciva in morsi, in ringhi netti come uno sbattere di denti. L’effetto era assolutamente grandioso. Se non avessi avuto in me ancora un filo di controllo, l’avrei baciato lì sul posto senza attendere altro.

“Mi hai raccontato quello che hai definito, oh, lasciami ricordare, ‘il capitolo più turpe della tua vita’, non è vero? Perché avevo il diritto di conoscerlo. Sono le tue parole, dottore, le tue esatte parole. Ma non posso avanzare diritti sul secondo capitolo più turpe della tua vita? C’è un errore di logica qui da qualche parte, se ti degnerai di prenderne atto.”

“Al diavolo la logica” sibilò Watson. “Al diavolo la logica!” ripeté, più forte. “Proprio tu, che serbi ogni insignificante dettaglio sulla tua persona come un segreto di Stato, hai la sfacciataggine di accusarmi di mancare di sincerità? Non ho mai preteso… Non ho mai chiesto… E per Dio, è chieder tanto che mi si riservi lo stesso trattamento?”

Aveva ragione, naturalmente, ma che m’impiccassero se gli avrei concesso il punto. “Siediti” ordinai, e già lo stavo spingendo verso la poltrona, nella quale Watson ricadde con un tonfo. “Sono molto irritato, Watson, e non ti nasconderò di aver bevuto anch’io un bicchiere o due mentre ti aspettavo. A questo punto, poco m’importa se riterrai quanto sto per dirti un oltraggio o un insulto o quello che preferisci. Ormai ti conosco abbastanza per sapere che, qualunque cosa io faccia, non sei tipo da fare i bagagli e saltare sulla prima carrozza.”

“Mi stai spingendo molto vicino a quel punto, Holmes, ti avverto…”

“Silenzio.” Appoggiai le mani sui braccioli, incombendo sulla sua faccia. “Il punto, mio caro, si può riassumere come segue - no, no, ti prego solo di rispondere quando interrogato, avrai tempo per parlare dopo - : tu sei, da un certo numero di anni, un omosessuale, un invertito, in parole più semplici un uomo che cerca la compagnia di altri uomini. Sì o no, Watson. Anche un cenno è sufficiente.”

Watson mi fulminò con lo sguardo.

“Benissimo. Non terremo conto per il nostro ragionamento del tuo indubbio e parallelo interesse per la forma femminile. Ci porterebbe fuori strada. È vero o no che hai avuto rapporti intimi col maggiore Daugherty?”

Distolse gli occhi; un gesto buono quanto un’affermazione.

“Ma nessun altro da quella data.”

“È una cosa del passato. E certamente, da quando abbiamo preso le stanze, non avrei rischiato che…” Si morse la lingua. Continuava a non guardarmi in faccia.

“Che cosa? Ti conosco troppo bene, Watson. Sei un uomo prudente se mai ne è esistito uno. Se avessi scelto di passare una serata in un club, l’avresti fatto con la massima discrezione. Non dovevi preoccuparti di tirarmi in uno scandalo, non tu, non così avveduto come sei.”

Watson rimase qualche secondo a fissare il fuoco. “Non avrei rischiato che tu lo scoprissi” confessò alla fine, alzando gli occhi su di me. “Perché l’avresti scoperto, come hai scoperto tutto il resto. Lo vedi, è successo alla fine. Sapevo che sarebbe successo. Speravo che evitando di…”

“Smettila di tirarmi brandelli di verità pensando che mi sazieranno” ribattei, tagliente. “O forse credi che non capisca queste cose. Le capisco molto bene, invece. Nessun uomo si astiene per tre anni dai propri desideri più profondi, e con la soddisfazione a portata di mano, solo per non scandalizzare un amico. Nessuno. Neanche tu.”

Watson chiuse gli occhi. “Per favore, smettila. Non chiedermi altro.”

“Non ti sto chiedendo nulla.”

“Allora smetti di parlare, e lasciami andare a letto. Non posso… discutere questa cosa con te. Se mi conosci così bene come dici, lo sai. Non puoi aspettarti…”

“Smettiamo di discutere, allora” replicai. “Ammetti che sei innamorato di me, e non ti costringerò a dirlo mai più in tutta la tua vita. Non sono quel tipo d’uomo, ad ogni modo.”

Gli occhi sgranati di Watson erano uno spettacolo; fui quasi tentato di restare a guardarli finché non si fosse ripreso dallo stupore. Quello che feci davvero fu baciarlo, sfruttando il vantaggio della posizione, l’angolo favorevole, la sorpresa, e un altro numero di dettagli strategici che qui sarebbe inutile enumerare. Assaporai vino, una traccia di tabacco, la pomata dei suoi baffi. Le labbra di Watson erano aperte, liberamente, e perciò non fu un furto ma un’accoglienza. Mi parve che mi offrisse il suo cuore sulla punta della lingua, e liberamente come mi era stato dato, lo accettai.

Mi annoia rileggere per scoprire se ho già detto da qualche parte quanto è facile sorprendere il mio dottore. Se non l’ho fatto, bene, ecco qui. È straordinariamente facile. E il piacere che il successo dell’impresa mi provoca è altra questione. Ma l’affermazione merita almeno due corollari: non è possibile sorprenderlo due volte con lo stesso trucco, e, più importante, la sorpresa non dura mai troppo a lungo.

Due braccia robuste mi serrarono le spalle; volentieri mi lasciai tirare verso il basso. Labbra furono subito sulle mie guance, sulla mia gola, sul lobo del mio orecchio. Sentii l’alito caldo di Watson sulla tempia. “Lo ammetterò solo ad un prezzo” patteggiò.

“Mio caro signore, lei non è nella posizione per dettare condizioni.”

“Sono ubriaco. La sua logica non può scalfirmi, signore.”

Risi, inebriato dalla sensazione. Watson si leccò le labbra, senza dubbio inconsciamente, come avrebbe potuto farlo l’ultimo prostituto di Londra all’angolo di un vicolo malfamato. “Ammetterò di essere innamorato di te” annunciò con lentezza, “se, e soltanto se, tu ammetterai che l’idea della mia passata relazione con James Daugherty ti stava completamente divorando.”

“Divorando?” ripetei, fingendo innocenza. Gli baciai la mascella. “Divorando cosa? Sei terribilmente impreciso.”

Watson mi affondò allegro tutte e dieci le dita tra i capelli, mandandomi un brivido di aspettativa dal cranio giù lungo la spina dorsale. “Il fegato mi pare sia tradizionale. O il cuore, ammesso che tu sia dotato di un organo del genere. Talvolta ancora ne dubito.”

“Non comprendo le tue metafore da romanzetto d’appendice.”

“Gelosia. Eri geloso di Daugherty. Lo sei ancora.”

“Illazioni senza fondamento.”

“Mi hai seguito.”

Alzai il volto di scatto. Come aveva…

“Ah, allora è vero” disse Watson, con aria man mano più distesa e compiaciuta. “Puoi ancora negare che la gelosia stesse compiendo illazioni senza fondamento sul tuo fegato?”

“Lo stato dei miei organi interni è eccellente, grazie, dottore. Certo che ti ho seguito. Per la tua sicurezza. Ammettere questo e ammettere quello non mi pare affatto la stessa cosa. Ad ogni buon conto, ho scoperto la tua natura perversa solo dopo avervi visti insieme, dunque sarebbe insensato da parte tua utilizzare l’una cosa per provare l’altra.”

Lungi dall’ammettere la sua sconfitta, inevitabile conseguenza della mia superiorità nel campo della logica, Watson rimosse le braccia dal mio corpo e le appoggiò sui braccioli della poltrona. “Dunque non è possibile raggiungere alcun compromesso? Lasciami alzare, amico mio. Si è fatta una certa…”

“È un gioco pericoloso quello nel quale ti stai imbarcando, dottore” borbottai, prendendogli le mani e sollevandole sopra la sua testa, contro il bordo dello schienale. Watson si ribellò per qualche istante, senza convinzione, e credo più per una questione di principio che per fastidio. Il bacio che ne seguì non aveva tracce di fastidio, questo è certo. Mi si lascino spendere due parole sul problema di baciare John Watson. Il dottore è, di nascosto ai più, una creatura estremamente subdola. C’è qualcosa di perverso nel modo in cui dapprima la sua bocca si offre innocentemente all’assalto, le labbra dischiuse, morbide, una fila di denti visibile tra di esse, nei casi più fortunati anche uno scorcio rosato di lingua. In coscienza, di fronte a una tale vista un uomo non può che arrendersi e cadere nella trappola. Quello che ne segue, che per comodità e brevità riassumerò per punti, consiste in: a) un improvviso, predatorio, violento attacco in risposta all’intrusione; b) una rapida quanto impietosa riduzione dell’assalitore alla più abietta e squisita sottomissione; c) un completo stravolgimento delle facoltà mentali di detto assalitore; d) una restituzione dell’assalitore al mondo in condizioni indegne del decoro.

“L’unico a soffrire per la mia incapacità di usare le mani sarai tu, mio caro” mormorò Watson, affabile.

“Taci” replicai, avendo ragione della sua cravatta e facendomi strada con una mano sola lungo la trafila di bottoni del panciotto e della camicia. Alle dita feci seguire le labbra, lasciandomi avvincere dal profumo esaltante della sua pelle più a lungo di quanto avessi previsto. Non ho una passione morbosa per le cicatrici, ma scostai l’orlo della maglia e baciai il rilievo increspato della sua spalla con una vaga esaltazione. Il modo in cui egli stesso trattenne il fiato, che mi fece intuire che nessuno l’aveva mai fatto prima, rischiò seriamente di darmi alla testa, e recuperai il controllo a prezzo di quasi stritolare i suoi polsi stretti insieme nella mia mano.

“Holmes… aspetta.”

“Non ne ho la minima intenzione” dichiarai con forza. L’angolo era troppo scomodo per procedere più in basso dei pettorali, ma con una breve torsione ebbi la sua maglia sollevata e un capezzolo sotto le labbra, che mi riservò qualche discreta soddisfazione.

“Davvero, sono serio, dovremmo… Holmes… Fermati” continuò, frustrando oltremodo la mia concentrazione.

“C’è una lunga serie di frasi gradite e desiderabili da usare in queste situazioni, Watson” gli ricordai, “e ‘aspetta’ e ‘fermati’ non ne fanno parte. Sono sicuro che conosci l’intero repertorio, dunque attieniti a quello.” Sottolineai il rimprovero lasciandogli le mani e scivolando con un ginocchio sul tappeto. In un secondo le mie dita furono ai suoi calzoni, e li disfecero con una rapidità che non potrei esagerare.

“Di tutti gli arroganti, boriosi palloni gonfiati che ho conosciuto tu sei il peggiore” dichiarò Watson, in un sospiro. “Vuoi ascoltarmi per un istante?”

“Lo sto facendo. Migliori di attimo in attimo. Continua pure.”

Da subito non continuò, perché il suo membro era nella mia bocca, e questa è una cosa che, provvisto il giusto apporto tecnico, può tacitare il più loquace degli uomini. Watson espirò bruscamente e si tese nella mia direzione, le mani ora libere che ricadevano in qualche modo inerti sulle mie spalle. Ecco, questa era un’attività alla quale mi proponevo di dedicare un considerevole lasso di tempo nell’immediato futuro. Privatamente, forse, ne avrei ricavato una monografia.

“Holmes, per l’amor di Dio, sto cercando di… Holmes. Mio… Holmes. Sherlock.”

Alzai il capo, desistendo all’istante. “Mio adorato, ti prego di non farlo mai più. Sottoponimi al più atroce dei soprannomi che riesci a inventare, piuttosto, e lo sopporterò senza una…”

“La porta” disse Watson, premendomi una mano sulla bocca. “La porta, maledetta la tua orribile arroganza. Non è chiusa.”

Descrivere nel dettaglio il resto della serata sarebbe lungo e tedioso, e rischierebbe di condurmi troppo lontano. Non voglio incorrere nell’errore che spesso rimprovero al mio amico - quello di concentrarsi eccessivamente sull’aspetto poetico e romantico di storie che meriterebbero altra enfasi, altra attenzione. Ad ogni buon conto, la serata non fu priva di risvolti poetici nel senso più comune del termine, che senza dubbio un resoconto del dottore metterebbe nella debita luce e considerazione. Chiedo scusa; io non sono John Watson. Non trovo poesia laddove la vede il resto del mondo, e di converso ne trovo fin troppa in dettagli che qui non sarebbe di alcuna utilità elencare. È questo il motivo per cui passerò alla fine della serata, che mi sembra contenga uno o due punti di maggiore interesse. Nessuno, neppure il sottoscritto, desidera sottoporsi a dieci pagine sul modo in cui i capelli di John Watson bagnati di sudore si arricciano in mille piccole onde sulla sua nuca.

“Ho una mezza intenzione di essere incredibilmente adirato con te, Holmes” dichiarò il dottore un paio di ore dopo, “e di restarlo per almeno - lasciami pensare… Sì, credo che mezza giornata potrebbe bastare.”

Continuai ad accarezzargli la schiena come avevo fatto negli ultimi dieci o quindici minuti, ma riaprii gli occhi. “Dodici ore” considerai. “A decorrere da quando? Ho ancora tre settimane di giornali da vagliare, quindi a partire da domattina…”

“È già oggi” mi ricordò.

“Da quando ci alzeremo, è quello che voglio dire.”

“Meditiamo di farlo presto?” mormorò, appoggiandomi il palmo della mano sul petto. Le mie dita corsero ai suoi capelli - ne ho già parlato - quando il dottore si sporse per baciarmi.

“No, ma presto o tardi saremo obbligati. Mrs. Hudson porterà la colazione. Ah, se potessi cominciare dalla colazione sarebbe perfetto. Potresti sedere sul divano ed essere incredibilmente adirato con me per tutto il giorno mentre io lavoro all’archivio.”

“Potrei” ammise Watson, appoggiando la guancia sul mio cuscino, o forse era il suo. Poiché era la prima volta che dormivamo insieme - benché nessuno avesse chiuso occhio - non avevamo ancora risolto le piccole formalità quali scegliere la propria metà del letto e altro del genere. Trovandoci nella sua camera, però, era in tutta onestà probabile che si trattasse del suo cuscino.

“E al termine delle dodici ore ritieni che dovremmo riconciliarci formalmente, o preferiresti smettere di essere adirato e chiuderla lì?”

“Una riconciliazione informale sarebbe auspicabile, ritengo.”

“Mi pare fattibile.” Passammo qualche minuto in silenzio, dedicandoci all’attività preferita di tutti i nuovi amanti dato un letto comodo e nessuna fretta: assaporare l’assoluta felicità di non fare nulla e di non farlo insieme. “Perché ti adirerai con me, comunque?”

“Perché mi hai seguito. È stato oltremodo irrispettoso da parte tua, non importa quanto fossi geloso.”

“Watson, ti ho già spiegato che la gelosia non c’entra nulla. Se il tuo amico avesse voluto vendicarsi e bruciarti le cervella nel bel mezzo del…”

“Conosceva il mio indirizzo. Non avrebbe avuto bisogno di organizzare un incontro per spararmi.”

“Permettimi di dubitare delle facoltà logico-razionali di un veterano della guerra afghana.”

“Dovrei sentirmi insultato?”

“Quello che voglio dire,” sospirai, “è che ho conosciuto assassini a sufficienza per sapere che la logica spesso c’entra poco col loro modus operandi. La prudenza…”

“Questa lunga e francamente patetica sequela di bugie non mi renderà meno adirato, quando comincerò ad esserlo. Né riuscirà a nascondere la verità. Prova di nuovo.”

“A che pro essere geloso? So da molto tempo di essere l’unico uomo che desidereresti nel tuo letto. Avevo solo bisogno di un dato in più per capire se gli uomini - tutti gli uomini, come categoria - fossero esclusi dal tuo carnet di turpitudini.”

“E insieme alla risposta hai scoperto un uomo che era stato di diritto nel mio, come lo chiami, ‘carnet di turpitudini’. E questo non ti ha reso geloso?”

“Certo che no. Il passato è passato, per restare nella vena tautologica che ti piace tanto.”

“Questo significa che non ti dispiacerebbe se domani io…”

“Il futuro, d’altra parte. Avrei dovuto informarti della tua prossima, eterna monogamia prima o dopo la fellatio, mi domando?”

Watson mi ridacchiò direttamente nell’orecchio, passando una gamba sopra le mie e un braccio intorno alla mia vita. “Avevo intuito qualcosa del genere. Dormi tranquillo. Sono disperatamente innamorato di te, dopotutto.”

Fu un momento piuttosto piacevole, il quinto o il sesto in un’ipotetica classifica della serata.

“Se è un basso trucco per spingermi a confessare cose che sono solo il frutto della tua fantasia troppo eccitabile…” iniziai.

“Conosco trucchi migliori. Più avanti, magari.” Per qualche minuto si dedicò felicemente a tormentarmi l’orecchio e il lato del collo e la mascella con le labbra e i denti, apparentemente contento di saggiarne il sapore e la consistenza senza ulteriori intenzioni. Quando si spostò sulla mia bocca fui più che felice di lasciargli prendere da me esattamente tutto ciò voleva.

“Pensavo” esordì, puntando un gomito sul cuscino e appoggiando il mento sulla mano, “a James. A Daugherty, voglio dire.”

Lo guardai in una maniera che, ritengo, riassunse in un secondo un messaggio piuttosto lungo e minaccioso.

“No, no. Niente del genere” aggiunse, ridendo. “Holmes, sinceramente adesso, non c’è mai stato nulla di più di una certa dose di… conforto reciproco. Smetti di avere il povero James in antipatia, ti prego?”

“Ma il tuo amico è un eroe. Dovessimo mai diventare rivali, non ti aspetti che io riconosca la sua indubbia superiorità e mi consumi nell’invidia?”

Watson si incupì. “La tua ironia è gratuita e lo sai.”

“Non più del suo eroismo.”

“Non so niente dell’eroismo di James, ed è una parola che ho imparato a non usare alla leggera. Mi riferisco alla sua sofferenza. Quella, perlomeno, meriterebbe che tu ne parlassi in un altro tono.”

“Oh, ma certo” sospirai. Non avevo particolare desiderio di litigare, ma Watson sapeva essere il più testardo degli uomini finché non gli si ponevano davanti dei fatti. “Ho fatto qualche ricerca sul tuo amico.”

“Non ne dubitavo.”

“Vuoi un resoconto dettagliato o è sufficiente un elenco per punti?”

“Holmes…”

“Ha avuto salva la vita collaborando coi generali di Ayub Khan, passando informazioni sugli spostamenti delle nostre truppe negli ultimi tre mesi prima della battaglia. Si è reso utile finché ha potuto, vale a dire non per molto, e dopo Kandahar e la sconfitta dei suoi amici non gli è rimasto che tentare di mimetizzarsi tra la gente del posto, impresa non facile ma tuttavia possibile. È rimasto in Afghanistan per due anni. Quando ha tentato di imbarcarsi su una nave per l’Inghilterra, con documenti falsi e una nuova identità, c’è voluto un attimo perché le autorità si insospettissero e finisse in catene. L’unico motivo per cui non è stato fucilato e piuttosto è stata messa in piedi quella patetica sciarada dell’onorificenza è perché, e cito parole non mie, si è ritenuto che in questi tempi difficili un esempio di patriottismo sarebbe servito a scuotere le pigre coscienze dei nostri concittadini.”

Watson mi guardava con molta attenzione, ma senza la minima traccia di sorpresa. “Come fai a sapere queste cose?”

“Ho una conoscenza a Whitehall.”

Sospirò.

“Lo sapevi già” osservai.

“Me ne ha parlato quando abbiamo lasciato il locale. Finché siamo rimasti dentro si è attenuto alla versione ufficiale, ma dopo… Credo che non abbia potuto farne a meno. Era sollevato di dirlo a qualcuno, dopo tanto tempo. No, non guardarmi in quella maniera, Holmes. Non sono un ingenuo. Ma so riconoscere sofferenza autentica quando la vedo. E per questo, se non vuoi accordarmi altro, ti prego almeno di non fare più dell’ironia sull’argomento.”

Gli presi il volto tra le mani. “Non lo farò” promisi, perché non è un’attività che mi piaccia praticare, ma sono in grado di riconoscere quando ho torto.

“Avrei potuto essere al suo posto” bisbigliò il mio dottore. “E non so cosa avrei… Davvero, non lo so. A Peshawar, nel delirio, mi arrivavano solo storie terribili. Non posso permettermi di giudicare, Holmes, perché pur con tutto ciò che mi è capitato, mi ritengo più fortunato di quanto possa esprimere.”

Mi si era chiuso lo stomaco. “Se tu fossi stato al suo posto, non avremmo mai diviso le stanze” dissi piano. “Watson, sinceramente, è uno scenario che non ho lo stomaco di contemplare.”

“No” confessò Watson, “neanche io.”

Lo tirai a me per un bacio. Watson mi si strinse addosso con uguale passione, forse percependo il mio desiderio di cancellare ogni elemento della serata che non si riassumesse nel suo corpo e il mio, abbracciati, su una superficie comoda. Era una storia triste e sporca, quella di cui eravamo finiti a parlare quella prima notte, e ne ero già nauseato. Non chiedevo di meglio che rimuoverla dalla coscienza per qualche ora.

“Ad ogni modo,” mormorò Watson, passandomi un pollice sullo zigomo, “resta il problema della tua mancanza di rispetto nei miei confronti, da cui la necessità di adirarmi con te. Ma non sono irragionevole. Potremmo dimezzare la durata dell’ira nel caso tu mi fornissi delle scuse sentite.”

“Ah, tu dai per scontato che averti adirato per qualche tempo non mi convenga” ribattei. “A occhio e croce mi si prospetta una giornata tranquilla, proficua…”

“Tremendamente noiosa.”

“… senza la distrazione di un coinquilino invadente e rumoroso…”

“Parli di te stesso? Non sono nessuna delle due cose.”

“In posizione orizzontale, entrambe. E naturalmente potrei fare pratica con la pistola o eseguire l’intero repertorio da camera di Brahms senza sentire proteste.”

“Chi ha deciso che non avrei facoltà di protestare?”

“Oh, di certo l’ira ti toglierebbe ogni desiderio di parlarmi.”

“Potrei tirarti qualcosa addosso.”

“Indegno di un gentiluomo.”

“Spingerti piegato sul tavolo e farti cose innominabili.”

“No, non prima di avermi perdonato.”

Watson sorrise in maniera crudelmente innocente. “Hai ragione. Di certo non prima. Mio caro, sono distrutto. Credo che dormirò qualche ora. Ricorda di trovarti fuori dalla mia camera per quando mi sveglierò e non avrò voglia di vederti né parlarti.” Così dicendo si girò dall’altra parte, afferrò un cuscino e se lo sistemò sotto la testa.

“Un’orribile scenetta, indegna di te, Watson. Non ti chiederò scusa per una cosa fatta nel tuo solo interesse.”

“Buona notte, Holmes.”

“Dormi tranquillamente di fianco a un uomo che domani detesterai?”

“Splendidamente, se taci.”

Sospirai, ma non mi sentivo per nulla irritato o frustrato, quanto piuttosto ebbro. Dopotutto avevo altri trenta o quarant’anni di simili schermaglie a cui guardare, e la prospettiva mi pareva assolutamente esaltante. Allungai un braccio a circondargli la vita, appoggiai le labbra sul suo collo e gli mormorai all’orecchio, quanto più dolcemente possibile: “Per la pratica con la pistola pensavo a un lavoro artistico. VR, per Victoria Regina. La parete est del salotto mi pare perfetta. Che ne pensi?”.

In tutta onestà, non ebbi il tempo di schivare il colpo.

fic, pairing: holmes/watson, language: italian, fic: sherlock holmes

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