[Originale] Notti tebane

Apr 11, 2010 20:39

Titolo: Notti tebane
Fandom: Originale
Personaggi: Cleone/Xanthos
Rating: R scarso
Conteggio parole: 3761 (W)
Scritta per: Seconda settimana (fuoco_dal_cielo) @ F3.U.C.K.S. Fest di fanfic_italia
Prompt: “Carpe diem, quam minimum credula postero” (Orazio)
Note: Prequel di Notti romane, racconto più vecchio del cucco. Un padrone, uno schiavo barbaro, una spruzzata di filosofia. Angst.

Nel buio c’era sempre un sentiero, e in fondo al sentiero un puntino tremolante come una fiammella, sparuto e piccino: lui. Portava gli stessi abiti con cui aveva lasciato la casa di Eurisippo - la tunica con lo strappo sulla spalla e i calzari due misure più grandi - e aveva in faccia la mistura untuosa e puzzolente che Diceopoli, il lenone, gli aveva spalmato sulla guancia per coprire lo sfregio.

Cleone compariva sempre quando la stretta alla gola aveva raggiunto la tensione massima, e minacciava di scoppiare in pianto. Strano, però. Non aveva pianto, allora. In effetti non piangeva da anni - all’incirca dalla notte in cui Eurisippo aveva deciso di scoprire se il suo nuovo schiavetto fosse davvero nuovo. Gli avevano insegnato un trucco per risvegliarsi per tempo dai brutti sogni: pensa intensamente il tuo nome e i tuoi anni, e poi di’ a voce alta dove ti trovi. Gridalo, se serve. Apri la bocca e dillo.

Ora, Xanthos.

Questo non conta, pensò lo schiavo, aprendo gli occhi contro l’umido che gli bagnava il cuscino. Aveva stabilito da tempo che ritrovare il cuscino bagnato e le guance irritate - dal sale - sia pure, dal sale, non significava che avesse pianto. Nel sonno non poteva certo controllarsi. E poi succedeva solo di tanto in tanto. Quando il sogno proseguiva un altro po’. Quando Cleone…

Ma non lo lasciava proseguire mai.

Pensa intensamente il tuo nome e i tuoi anni, e poi di’ a voce alta dove ti trovi. Gridalo, se serve.

Si guardò, scoprendosi ancora una volta sfacciatamente nudo, la tunica gettata sul pavimento. La afferrò in fretta e se la infilò, cercando di ignorare la macchia rappresa, là sulle lenzuola, sì, proprio lì, in quel punto che non voleva guardare, ma da cui i suoi occhi erano inevitabilmente attratti.

Come al solito.

Poi la voce gridò: «Xanthos!», e Xanthos, da bravo ubbidiente scrivano, gettò per aria quel che restava delle sue lenzuola, si infilò i calzari senza allacciarli, raccolse la cintola dal pavimento per evitare alla stoffa leggera di svolazzare e mostrare al mondo le sue vergogne, e corse fuori.

«Sono qui, padrone» rispose, trafelato. A giudicare dalla luce dovevano essere almeno le dieci, ma senza dubbio Cleone era in piedi dall’alba. Almeno dall’alba.

«Ti ho svegliato?» domandò l’uomo, un tipo basso e scuro, un po’ tarchiato, con le mani robuste piantate fino ai polsi in una zolla di terra nera. «In realtà volevo chiamare Filerota, ero sovrappensiero.»

Dirgli che sì, stava ancora dormendo a quell’ora vergognosa, o fingere di essersi già svegliato - ed essere rimasto chissà quanto tempo con le mani in mano? Con Eurisippo non aveva mai avuto di questi problemi: il suo lavoro iniziava al tramonto e terminava all’alba, dopodiché poteva dormire quanto voleva. Ma in casa di Cleone tutti si davano da fare, continuamente, in maniera frenetica.

Optò per la sincerità. «Scusami, padrone. Ero molto stanco» mormorò, ed era poi vero, perché la notte passata Cleone l’aveva fatto lavorare fino a tardi.

«Ti faccio lavorare troppo» commentò Cleone, con un vago sorriso, perché sapevano benissimo entrambi che non era così. «Su, aiutami.»

Xanthos si inginocchiò sul terriccio umido e insieme con molta attenzione sollevarono la pianticella - ulivo, sacro ad Atena - per poi deporla in una piccola buca qualche metro più in là. «Perché la spostiamo, padrone?»

«Perché lì la terra è troppo dura, e le altre piante le fanno ombra. Stava morendo» aggiunse poi, quasi distratto, mentre a Xanthos l’idea di lasciar appassire un ulivo nell’orto di casa faceva accapponare la pelle. Cleone probabilmente non ci pensava neppure. Cleone non credeva a quelle cose - credeva ai maestri, alle parole dei filosofi, ai discorsi sull’Iperuranio e alle categorie e alla logica. Cleone non aveva paura degli dèi.

«Ecco qui» disse dopo aver risistemato la terra in una trapunta compatta intorno alle radici della pianta. Si spolverò le mani. «Forse, giacché ora sei sveglio, potremmo tornare a dedicarci a quel lavoro…?» Leggero tono interrogativo, come se non volesse ordinarglielo.

Xanthos annuì. «Certo, padrone. Ti preparo il catino per lavarti le mani.» Volenteroso, andò a prendere la brocca e la riempì al pozzo, tornando di corsa dentro casa. Cleone frattanto era ritornato nel suo studio, quella stanzetta odorosa di polvere e papiro e muffa dove ogni cosa era rimasta esattamente come lasciata la sera prima.

«… ecco» mormorò Xanthos, trattenendo gli ansimi, mentre versava la brocca nel catino. Cleone gli passò accanto, sfiorandogli il fianco con il proprio. «Non correre così tanto, Xanthos. Ti stancherai inutilmente» lo rimproverò, scherzoso.

«È per non farti aspettare, padrone» ribatté pungente.

«Non ti ho forse insegnato che tutta la vita umana passa nell’attesa?»

«Non per me. Io non ho niente da attendere.»

Cleone alzò gli occhi, le mani per metà dentro l’acqua e per metà fuori, sorpreso.

«Non potrei pensare a una vita migliore di questa» disse Xanthos, senza abbassare i suoi. «No, non ho niente da attendere, padrone. Sono molto felice.»

«Xanthos…» Cleone immerse le mani nell’acqua, le trasse fuori, le immerse di nuovo. «Xanthos…» Lo schiavo gli porse un asciugamano. «… ti stai esercitando a fare il sofista da piazza, e dimostrare allo stesso tempo una cosa e il suo contrario?»

Il ragazzo sorrise appena, furbescamente. «Vuoi che ti dimostri che sono infelice? Non posso, perché non lo sono.»

«Sei un gran bugiardo e un ruffiano della peggior specie, ecco cosa sei.»

«Se non ti piaccio cercherò di cambiare, padrone.»

«Padrone, padrone, padrone. Mi hai stancato. Ti ordino di smettere di usare quel tono condiscendente con me.»

«Come preferisci, padro…»

«Ah-ah!»

«Allora starò zitto, padrone.»

«Ecco, la cosa migliore.» Gli appoggiò il palmo della mano su una guancia, quella sana, e le labbra proprio sullo sfregio, dove la pelle era più chiara e più delicata. Aveva labbra calde e asciutte. «Al lavoro, scansafatiche.»

Cleone stava lavorando a un’opera grandiosa, di cui Xanthos non aveva visto l’inizio e dubitava di vedere la fine, a giudicare dalla mole dei rotoli che avevano preceduto il suo arrivo e da quella non minore dei papiri vergati da lui stesso. Per quanto la vista di Cleone fosse ancora buona, preferiva dettare che scrivere di suo pugno. Xanthos pensava che amasse il suono della propria voce.

«Dove siamo rimasti?…»

Xanthos rilesse diligente l’ultima frase. Era una citazione da Platone. Cleone gliel’aveva dettata a memoria. «Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte di pochi cittadini da rendere felici, ma vogliamo la felicità di tutti…» L’ultima parola era sbavata d’inchiostro. Doveva essercisi addormentato sopra, mentre ricopiava.

«La felicità di tutti» ripeté l’uomo. «Sì. Dunque…»

«Anche gli schiavi?»

«Cosa?»

«Parla anche degli schiavi?»

Cleone corrugò la fronte. «Non ci sono schiavi nella Repubblica di Platone.»

«E i prigionieri di guerra?» Xanthos strinse più forte il calamo tra le dita. Quando gli tremava la voce - stava tremando? - il suo accento del Nord riaffiorava, gutturale. «… li uccidono tutti?»

«Temo che Platone non abbia affrontato il problema» rispose Cleone, gentilmente. «Ma non credo che avrebbero ucciso un barbaro grazioso come te.»

«Io non sono un barbaro» borbottò Xanthos.

«Sì che lo sei. E anche molto pigro.»

«Io non sono…»

«E cocciuto come un mulo. Non parlavi così tanto la prima volta che ci siamo incontrati.»

«Tu volevi uno schiavo che parlasse bene.»

«Bene, non tanto.»

«Allora starò zitto» promise per la seconda volta, ingoiando la protesta e l’acredine ingrata che gli era salita alla voce. Avrebbe voluto prendersi l’ultima parola, ma Cleone era il suo padrone, ed era così buono - così intimamente buono, e generoso, per gli dèi - che non si sarebbe mai permesso di andare oltre il consentito, con lui.

Da ormai un anno le sue giornate erano fatte di parole. La voce di Cleone, da mane a sera, era tutto il suo mondo. Né avrebbe chiesto di meglio. In un anno aveva imparato che Eros era figlio di Povertà ed Espediente, che ogni elemento tendeva al suo luogo naturale, che tutto era fatto di atomi e che anche l’anima - perché c’era un’anima, e non andava a finire nei Campi Elisi e neppure nel Tartaro, no no - era fatta di puntini piccolissimi aggregati insieme. Aveva imparato che non si deve temere la morte, perché quando c’è lei non ci siamo noi e quando ci siamo noi non c’è lei, e che il suicidio è bello e giusto se la vita ti impedisce di compiere il tuo dovere. A volte i pareri si contraddicevano, e Xanthos chiedeva i nomi dei contendenti per ricordarsi a quale dei due dare ragione. Tutto questo, e molto altro, l’aveva imparato trascrivendo l’opera grandiosa a cui il suo padrone stava lavorando.

«A che pensi, Xanthos?»

Trasalì violentemente, risucchiando l’aria in gola. «Io non… non pensavo a niente, padrone» farfugliò.

«Da qualche giorno sei pensieroso.» Una pausa. «Fai brutti sogni?»

Un rossore colpevole gli dipinse le guance. Non era più un bambino, per gli dèi. E di nuovo, dirgli la verità o mentire? Negare contro ogni evidenza - la sua faccia parlava da sola, lo sapeva - o dirglielo, rivelarglielo infine, che… «Ci sono abituato, padrone.»

«Che genere di brutti sogni, Xanthos?»

«Non ricordo…»

«Non vuoi dirmelo?»

Svegliati, ora, Xanthos.

«Io… mi sveglio, e… e sono ancora lì. Ad Atene. Con lui» mormorò lo schiavo, tormentando la penna tra le dita.

Una mano di Cleone gli si poggiò sulla fronte col suo palmo ruvido e caldo. «Ti darò qualcosa per dormire.»

Non mi servirebbe, non mi servirebbe se… se tu…

«Grazie, padrone.»

«Di nulla. Mi rileggeresti l’ultima, Xanthos, sii gentile…?»

Qui dice che sei uno schiavo da letto. Ma a me non serve uno schiavo da letto. Me ne serve uno che sappia scrivere, leggere e parlare bene.

So leggere e scrivere, ma non so parlare meglio degli altri.

Atene era famosa per i suoi retori, una volta.

Il mio padrone ateniese non era così colto.

Una delle prime notti si era arrampicato sul letto del suo nuovo padrone, e in ginocchio tra le coperte leggere si era piegato sul viso di Cleone e ne aveva baciato la fronte solcata da una ruga profonda.

Le mani di Cleone, sempre così calde, si erano chiuse intorno alle sue spalle. «Che fai?»

«Ti tengo compagnia, se mi vuoi» aveva risposto.

«Il tuo letto non è abbastanza comodo?»

«È la mia cicatrice che ti disgusta, padrone? Di notte non puoi vederla.» Ancora le labbra sulla fronte, e sugli occhi, e sulle guance.

«Non ti ho comprato per questo, Xanthos.»

«Ma prima o poi lo vorrai, e io so che sarai un padrone gentile. Sono contento che mi abbia acquistato tu.»

«Xanthos, non è necessario.»

Lo schiavo aveva esitato, sorpreso, a disagio. «Voglio solo che tu sia contento di me, padrone. Sono bravo. Non avrai da lamentarti.»

Cleone aveva ritirato le mani dalle sue spalle, senza indugiarvi oltre, senza una carezza. Xanthos sapeva che la luce della luna filtrava dall’esterno, illuminando d’azzurro la sua pelle e la sua tunica troppo corta, e che Cleone non gli vedeva bene il viso in ombra, ma che tutto il resto era impudicamente offerto al suo sguardo. Tuttavia gli era parso che per lui niente di questo avesse importanza.

«Preferisco godere della tua compagnia durante il giorno, e spendere la notte nella maniera più utile. Non mi servirai a nulla se la mattina sarai troppo stanco per tenere la penna in mano.»

«Ma io… padrone…»

«Che cosa, Xanthos?»

Lo schiavo chinò il capo, una strana, minuscola spina di dolore conficcata in mezzo al petto. «Perdonami per averti disturbato. Ti lascio riposare.» Era scivolato giù dal letto, in preda a un freddo mai provato. Avrebbe dovuto essere contento, sollevato, ma non lo era. Domani si sarebbe chiesto perché; adesso non ne aveva la forza.

«Questa idea ha qualcosa a che vedere con gli incubi che ti tormentano, Xanthos?»

Lui si era morso la lingua. Avrebbe potuto tacere, o mentire, ma a Cleone non piacevano i vigliacchi né i bugiardi. «È difficile, a volte» aveva sussurrato. «La notte non passa mai.»

Era seguito un silenzio imbarazzante; poi Cleone aveva detto: «Per questa notte puoi dormire con me, se pensi che questo aiuterà».

«Se non mi vuoi non ti disturberò con la mia presenza, padrone.»

«Voglio che tu dorma, o non mi sarai utile a niente.»

Xanthos era montato di nuovo sul letto. Cleone si era tirato più vicino al muro per fargli spazio e poi si era voltato dalla sua parte, senza aggiungere altro. Il suo odore era forte sul cuscino quando Xanthos vi aveva appoggiato la guancia.

«Padrone?»

«Mmm?»

«Sei adirato con me?»

«Mmm. Non ancora» aveva borbottato Cleone.

«Perdonami. Nessuno mi ha mai trattato come fai tu. Io… io sento che sarei morto senza di te. Qualunque cosa vorrai da me, io sarò sempre felice di dartela. Sempre.»

Ancora silenzio, e dopo un po’ Xanthos aveva pensato che Cleone si fosse assopito. Aveva chiuso gli occhi solo per riaprirli un attimo dopo, nel sentire un movimento accanto a sé.

La mano di Cleone si era poggiata sulla sua guancia, e il pollice gli aveva accarezzato le labbra. Tremante, Xanthos si era chiesto se l’altro non avesse cambiato idea.

«Lo sanno gli dèi se ho mai avuto naso per gli affari. Volevo un semplice scrivano e mi sono ritrovato con lo schiavo più sentimentale di tutto il mercato.»

Xanthos aveva sorriso e gli aveva baciato il palmo della mano, in silenzio.

«Sei un bravo ragazzo, Xanthos. Ora dormi. Sono troppo vecchio per passare la notte sveglio.»

«Padrone, tu non sei…»

«Un’altra parola e ti mando a dormire nel pollaio.»

La mano di Cleone era scivolata via dalle sue, lentamente. Quella notte Xanthos non aveva fatto brutti sogni.

Cleone si ammalò verso novembre, e a dicembre smise di occuparsi della casa. Filerota, il capo degli schiavi, ebbe l’incarico di gestire tutto: il lavoro, i pagamenti, le spese. Era un uomo intelligente e onesto, e Cleone l’aveva cresciuto nell’amore e nell’indulgenza, perciò non dubitò mai del suo operato. Ma Xanthos aveva l’impressione che forse, semplicemente, non gli importasse.

La casa era un luogo estremamente cupo, senza Cleone che vi si aggirava borbottando ragionamenti e considerazioni. Giorno dopo giorno sembrava come rannicchiarsi su se stessa e lentamente marcire, privata della linfa vitale. Cleone si era ammalato da poco quando un’infiltrazione d’acqua, a lungo trascurata, cominciò a erodere la parete ovest. Filerota provvide a disporre le necessarie riparazioni, ma ormai i muri erano crepati, e vedere le linee che vi correvano attraverso era straziante. Per Xanthos, che non considerava casa nessun altro luogo al mondo, era come se le crepe gli corressero direttamente nella carne.

Cleone divideva il suo tempo tra il letto e lo studio, e sempre più il primo a scapito del secondo. Verso la fine, Xanthos trasferì in camera da letto il suo materiale per scrivere, le sue tavolette e tutti i rotoli di cui Cleone potesse aver bisogno, e lo studio fu abbandonato. Cleone smise di dormire, morso dalla fretta per quel trattato che non avrebbe mai visto la fine, e Xanthos con lui. Aveva gli occhi e il polso sempre doloranti, le mani costantemente sporche di polvere d’argilla e inchiostro. Quando Cleone crollava, esausto, Xanthos impiegava il tempo del sonno dell’altro per ricopiare gli appunti dalle tavolette ai papiri nuovi.

Prese a considerarsi un’estensione del corpo di Cleone; una parte aggiuntiva, un arto soprannumerario, un organo, una mano, un dito che agiva in diretto accordo con la sua volontà. Si sentiva costantemente vago e stordito, con la testa piena della voce di Cleone. La schiena era in fiamme per la posizione; le gambe, a volte, rifiutavano di sgranchirsi. Ma quando Cleone gli domandava di fermarsi, lo prendeva un terrore infinito. A che pro fermarsi? Era giovane, era forte. Poteva farcela, poteva andare avanti senza pause, anche per sempre. Da fermo, senza parole nella mente, avrebbe ricominciato a pensare. Invece così - oh, era molto meglio. Avrebbe potuto continuare senza soste fino a morirne - fino a morire insieme.

All’inizio aveva pianto, ma poi se n’era vergognato. Non era stato Cleone a fargliene vergognare. Non c’era nessuno più indulgente di Cleone con le debolezze altrui. Ma se n’era vergognato comunque, perché Cleone era ancora lì con lui, e il lamento funebre era ancora di là da venire, e c’era del lavoro da fare. Xanthos scriveva, scriveva. Cleone dettava con gli occhi chiusi, meditando.

«Basta» mormorò infine, dopo una lunga pausa, e Xanthos quasi la scrisse, quell’ultima parola, tanto era preso dal suo compito.

«Padrone?» fece, fermando la mano con lo stiletto già affondato in un puntino nella cera.

«Fermiamoci» disse Cleone, aprendo gli occhi dal suo giaciglio. Era terreo in volto, una tremenda assenza di colore.

Xanthos si sollevò in ginocchio, sentendo ogni singola articolazione del suo corpo scricchiolare e gemere di silenzioso dolore. «Va bene, padrone. Vuoi riposare? Vuoi che ti porti qualcosa?»

«No» rispose. «Sto bene. Riposa anche tu.»

Xanthos annuì, mentendo. «Ricopio le ultime cose e mi metto a letto. Non vuoi la tua tisana per dormire?»

Cleone lo scrutò per un’esistenza intera, e sotto il suo scrutinio Xanthos si sentì sbriciolare il cuore e inondare gli occhi

«Xanthos» disse Cleone, in tono di rimprovero.

«Mi bruciano solo un po’ gli occhi, padrone» mormorò, fraintendendone la ragione. Tamponò gli angoli con le dita. «È il fumo della candela.»

«Mi fa soffrire che tu non dorma. Non è necessario.»

«Non mi pesa, padrone.»

Cleone sospirò. «Sono dunque così malato che i miei schiavi possano permettersi di decidere a quali dei miei ordini obbedire e a quali no?» sbottò, con una crudeltà che non gli era caratteristica, che uccise quanto rimaneva della determinazione di Xanthos.

«Padrone, ti prego» bisbigliò. «Non dire così. Io… io amo il tuo lavoro almeno quanto lo ami tu. È questo. È solo questo.»

Ma la nube estiva era già passata, e Cleone ora lo guardò come sempre, come se nulla fosse stato. «Posa tutto e vieni a dormire con me, Xanthos. E non voglio sentire storie. Ho freddo e tu sei caldo.»

Xanthos era già volato da lui, in meno di un batter di ciglia, quando si ricordò di domandare: «Vuoi che prenda un’altra coperta?»

Ma Cleone lo zittì appoggiandogli le dita sulla bocca. Xanthos si rannicchiò, nascondendo la faccia. Non era mai stato così male. Gli occhi bruciavano ancor più chiusi che aperti. Sentì dell’umido scivolare da sotto le ciglia.

«Io non volevo che tu mi amassi così tanto» mormorò Cleone, vicino alla sua fronte. «Perché queste cose… perché accadono. Sono troppo vecchio.»

«Non sei vecchio, padrone, non per me, mai per me» farfugliò Xanthos.

«Mi piace pensare di essere stato un buon padrone» continuò, «ma ti guardo, Xanthos, e non ne sono più certo.»

Xanthos si rizzò su un gomito, sussultando. «Quando ti ho scontentato?» gemette. «Che cosa ho fatto?»

Cleone chiuse gli occhi, scuotendo la testa. «No. Ma sono molto dispiaciuto. Questi anni sono stati difficili, per te. Non volevi chiedere, e ti ho reso timoroso di offrire.»

«Io sono felice» bisbigliò Xanthos. «Sono molto felice.»

«E ora è troppo tardi. Avrei voluto che ti affezionassi a qualcun altro nella casa. È meno difficile, con un compagno.»

«Ti prego…»

«Ho sempre pensato che ti rendesse bello. Bello in maniera umana.» Xanthos sentì le dita di Cleone accarezzargli la guancia segnata, disegnare alla cieca il rilievo della cicatrice. «Mi avrebbe disturbato vedere per la casa un piccolo Eros con la pelle di una giovinetta. Mi avrebbe troppo ricordato la distanza, e la mia vecchiaia.»

«Padrone…»

«È stato egoista, da parte mia. Lo riconosco. Ma mi chiedevo, un altro avrebbe badato a nutrirti bene? Ad assicurarsi che avessi le tue ore di sonno, un letto confortevole, una coperta in più per l’inverno? Ti avrebbe fatto curare, se ti fossi ammalato?»

«Nessuno, padrone, nessuno» implorò Xanthos. «Solo tu.»

«Sono molto dispiaciuto. Non volevo che fossi infelice.»

«Padrone…»

Si sentì mancare il fiato quando la mano di Cleone gli sollevò l’orlo della tunica corta dalla coscia. Ora gli girava la testa, come se il mondo andasse precipitando in una spirale vertiginosa che terminava sul suo cuscino. Notti e notti di tormento silenzioso si srotolarono nella spirale, culminando nell’istante in cui Cleone raccolse dolcemente la sua virilità nel palmo della mano e ne fece, con questo solo gesto, un simbolo d’amore, cancellando con nient’altro che un tocco mille e mille strati di sensi di colpa.

Fuori, un fulmine a ciel sereno si abbatté sull’ulivo di Cleone, mandandolo a fuoco come una torcia. Xanthos risucchiò un singhiozzo, preso dal sacro orrore per quel presagio terrificante, ma il suo padrone gli premette le labbra sulla guancia e continuò ad accarezzarlo finché il crepitio delle fiamme non si fece un tutt’uno col cuore di Xanthos. Il desiderio così intenso, così improvviso, quasi gli faceva male. Alzò un braccio per aggrapparsi a lui, per avere brandelli di sé da donargli, perché com’erano veri gli dèi, non sarebbe uscito da questo strazio se non in pezzi, come un rotolo antico che il tempo fa in polvere.

La guancia sfregiata bruciava sotto la bocca di Cleone, che la baciava e baciava con una passione che Xanthos non gli aveva mai sospettato. Si tese, sopraffatto, a cercargli le labbra, a montargli sopra, nello sforzo disperato di restituire qualcosa prima che l’estasi lo uccidesse.

E l’estasi lo uccise, a tradimento, risucchiando la sua coscienza in un abisso di piacere nero come catrame, in un velo sconvolgente di bruciato e umori maschili, che ancora non si dileguava quando la ragione gli fu restituita.

Cleone viveva ancora; lo sentiva respirare sotto di sé. Per una volta non ebbe remore a disturbarlo, incurante se dormisse o meno. Gli baciò la bocca, felice, pronto. «Permettimi di…» Ma si fermò, perché il colorito di Cleone era terribile, parlava di ultimi respiri, parlava di abbandono e atroce dolore a stento controllato.

«Padrone» sussurrò, travolto dal terrore. «Parlami.»

«Riposa, Xanthos» ordinò la voce flebile dell’altro. «Va tutto bene.»

«Stai con me» lo supplicò. «Resta dove ti posso servire.»

«Sono qui con te. Non sei più un ragazzino, Xanthos. Riposa.»

«No» rispose, fuori di sé. «No. Starò sveglio, e tu con me.»

«Vorrei» mormorò Cleone. «Vorrei davvero. I miei ragionamenti…» Piegò il capo da un lato, ormai farfugliando. «Parla con Filerota. Ti ho procurato… Ora dormi. Se fai un brutto sogno, domani me lo racconterai.»

A Xanthos sembrò di trattenere il fiato per ore e ore. Quando Cleone smise di respirare, gli bruciavano i polmoni come se avesse corso in una casa in fiamme. Fuori, una pioggia improvvisa quanto il lampo aveva spento l’ulivo in una massa carbonizzata. Xanthos inspirò e si sentì svenire e sperò che la morte non fosse tanto lontana.

Pianissimo, perché nessuno accorresse dalle altre stanze a disturbarlo, cominciò il lamento funebre.

fic, language: italian, challenge: f3.u.c.k.s. fest, fic: original

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