Titolo: Polvere Sei
Fandom: Originale
Rating: Arancione
Parole: 4.677
Prompt: Anello, orlogio, chiave
Note: Scritta per il concorso
Magic Tales, arrivata seconda.
- Dedicata alle lovve
cialy_girl e
izzieanne, per il semplice fatto che fanno al mondo (immeritevole) il favore di esistere.
Disclaimer: Mio. Ogni cosa.
La donna di servizio guarda la serratura senza sapere cosa fare. Le chiavi sono dentro, ora dovrebbe girarle e andare a casa, preparare la cena per il suo bambino.
La donna di servizio, stamattina, ha trovato una fotografia nella buca delle lettere. Una foto molto grande di suo figlio, mentre usciva da scuola il giorno prima, una foto che non aveva scattato lei. Dietro, con ritagli di giornale, c’era scritto: “Lascia l’allarme spento e la porta di casa Ceolipro aperta.”
Nessuna minaccia, nessuna intimidazione. Solo un consiglio.
La donna di servizio è straniera, senza permesso di soggiorno, con qualche furto alle spalle - roba da poco, in realtà, quando hai troppa fame e disperazione nello stomaco non agisci con la testa -, ed è consapevole che c’è qualcosa sotto, che verrà additata come collaboratrice. La donna di servizio però ha paura, andare dalla polizia le sembra ancora più spaventoso di ubbidire a quegli ordini. Alla donna di servizio tremano le mani.
Ma decide.
Poco dopo toglie le chiavi, e corre verso l’auto. Scoppia a piangere, e singhiozza per tutto il tragitto, finché non torna a casa.
Sandra diceva che sarebbe stato un colpo estremamente facile. Aveva preparato tutto lei, e, dei dettagli, noialtri eravamo ben poco informati - il nostro compito era più manuale che altro, a darle retta dovevamo semplicemente entrare in casa, arruffare quello che potevamo, e fare anche un po’ di casino.
Ci sembrava qualcosa di estremamente stupido e poco intelligente, a dire il vero. Un ladro entra in casa e mette a soqquadro ogni cosa perché sta cercando roba di valore, non tanto per. E comunque noi avevamo superato da un pezzo la fase “ladro semplice”, eravamo gente esperta, ormai. Il discorso di Sandra non stava in piedi. Roberta provò a farglielo notare.
«Non rompetemi i coglioni.» aveva risposto: «Li volete guadagnare un po’ di soldi o no?»
Li volevamo guadagnare.
La proprietaria della villa era una ragazza con poco più di vent’anni, che aveva ereditato un ben di Dio dalla morte dei genitori - con i quali non andava d’accordo, disse Sandra, come se ce ne fregasse qualcosa -, ma anche con i corpi sottoterra sembrava che certi nodi non fossero venuti al pettine, la ragazza raramente metteva piede nella villa, e ancora più raramente parlava di venderla. Lasciava ad un custode e ad una donna di servizio il compito di tenere l’edificio in condizioni semi-decenti, mentre sperperava il resto dei soldi appartenuti ai cari genitori.
«E allora?» fece Giorgio, che odiava girare intorno alla questione.
«E allora noi entriamo e ci prendiamo tutto. Non lasciamo niente. Nemmeno la polvere.»
Il discorso non tornava. Continuavo a ripetermi mentalmente quello che aveva detto Sandra, cercando un nesso logico.
«Quella puttana vuole fregarci, Eliana. Te lo dico io.» Roberta si accese una sigaretta. Era vicino al davanzale, voltata verso l’esterno, con lo sguardo attento, come se si aspettasse di essere attaccata da un momento all’altro.
«Non sarebbe nemmeno la prima volta.» ammisi. Sandra ci aveva abbandonato in una montagna di merda, qualche anno prima - roba che fai fatica a dimenticare - ma da lei ce lo aspettavamo.
«Che pensi dei ragazzi? Accetteranno?»
Lanciai un’occhiata distratta alle due figure nell’altra stanza, in sala, mentre condivo la pasta.
«Sì che accetteranno. Sono pieni di debiti fino al collo.»
«Bisognerà aspettare di vedere dei soldi. Ci sarà un mucchio di roba da vendere.»
«I disperati non ragionano bene, Robè.»
«E Sandrina cara lo sa.»
«Per questo ha scelto noi.»
Presi la padella e portai in tavola la cena, lasciando sola Roberta, con gli occhi ancora fissi fuori dalla finestra.
Per arrivare alla villa c’erano solo due strade, una della quali troppo trafficata. La seconda era più lunga e meno curata, le buche davano ancora più fastidio quando si avevano nervi tesi. C’erano anche altre abitazioni sparse, ma la gente non si spaventa per un camioncino, per qualcosa che passa e sparisce subito. Arrivammo a sera che non c’era nessuno - il custode non avrebbe dato problemi, aveva detto Sandra - e ci nascondemmo nel boschetto al lato destro della villa.
Era immersa nel verde, la casa, in primavera ed estate - o semplicemente in pieno giorno - doveva presentarsi davvero bene.
Ma a sera tardi aveva l’aria di una truce costruzione troppo vecchia e troppo imponente. Sembrava ci stesse guardando male. Questi erano i deliri da pre-furto, con i sensi di colpa e la paura che ti fa mancare il fiato. “Ma è roba da dilettanti.” Ringhiai contro me stessa.
«Entriamo.» sibilò Sandra, la voce eccitata. I ragazzi presero i borsoni, e ci avviammo.
La porta aperta - aperta, dio santo! - ci fece capire che Sandra l’aveva combinata grossa. Appena messo piede in casa buttò giù il primo mobile trovato: «Prendete quello che vi pare.» ordinò nuovamente, andando spedita da qualche parte - per un obbiettivo preciso che conosceva solo lei.
«Droga!» sussurrò Giorgio: «Scommetto che c’è della droga, porco cazzo!» lasciò cadere il borsone con un tonfo sordo. Sia Roberta che Luciano lo seguirono, mentre correva dietro a Sandra. Li guardai percorrere il corridoio e svoltare a destra. Presi i borsoni - uno vuoto, uno contenente gli attrezzi da lavoro, da quest’ultimo afferrai una torcia - e mi avviai a sinistra, entrando in sala.
A parte Sandra - in realtà di lei ci si poteva fidare a priori, ma non se aveva un qualche piano in mente in cui altra gente serviva solo da comparsa - eravamo un branco di persone oneste, qualunque cosa avessero trovato mi avrebbero lasciato la mia parte, solo non avevo tutta quella voglia di assistere alla punizione inflitta a Sandra. Misi nel borsone quello che poteva valere qualcosa, presi giù i quadri e li appoggiai in un angolo. Andai in cucina, poi in cantina, e infine salii su al secondo piano. Di nuovo presi tutti i quadri e i gioielli, trovai una cassaforte - fu uno scherzo aprirla, con gli allarmi disattivati -, buttai nella sacca il contenuto, e quando richiusi la borsa mi ritrovai davanti Roberta. Urlai - non tanto perché aveva la divisa sporca di sangue, ma più per essermela ritrovata all’improvviso. Mi porse un anello.
«Vale qualcosa?»
Lo afferrai un po’ intimorita, cercai di studiarlo alla bell’è meglio, solo una torcia ad illuminarlo.
«È una fede d’oro. Vale quanto una fede d’oro, niente di più.»
Mi guardò con un’espressione indecifrabile, il suo viso sembrava una maschera di cera.
«Bene.» disse. Si girò. «Tienila tu.» aggiunse, quando ormai era fuori dalla porta.
Sandra era stesa dietro, tra gli oggetti rubati. Mugolava di dolore, quindi era viva, e questo mi sollevò un poco. Restammo in silenzio per tutto il tragitto. I ragazzi erano furiosi, Roberta - non lo sapevo; non l’ho mai capita. Io guardavo in basso, l’anello, continuando a rigirarmelo. Lo trovavo fastidioso e avrei voluto toglierlo, darlo a Sandra, magari, ma avevo paura dei miei colleghi. Ore dopo eravamo arrivati al nostro rifugio, con i nervi ancora tesi.
«Avete lasciato quell’anello lì. Voi… voi siete degli idioti. Siete dei cazzoni.»
L’anello era ben visibile, nel mio anulare, ma Sandra non l’aveva notato - quindi non sapeva nemmeno cosa stesse cercando, in quella villa. Legata alla sedia - la punizione non era ancora finita - imprecava contro di noi. Luciano stava sistemando tutta la merce, e io cercavo di aiutarlo a valutarla. Mia madre era un’orafa, qualcosa era riuscita a insegnarmi.
Giorgio ci gironzolava attorno chiedendo il prezzo di ogni oggetto.
«Tutto di guadagnato.» annuì Luciano, pensoso. Ma conoscendo Sandra ci aspettavamo molto di più - o almeno qualcosa. Lanciai un’occhiata all’anello. Possibile?
«Maledetti schifosi…» continuò la cara amica, senza risparmiare nessun insulto.
Dormire non era semplicissimo. C’era un maledetto orologio a pendolo, in sala, che scandiva le ore, rendendo impossibile prendere sonno. Nessuno di noi, però, ebbe il coraggio di romperlo o far in modo che tacesse; c’era sempre stato, da quando ci avevano indicato il covo. Era sopravvissuto a gente peggiore di noi, e sembrava intenzionato a sopravvivere anche al nostro gruppo.
Io non sarei riuscita a dormire in ogni caso - il battito dell’orologio era, per me, solo uno sfondo rumoroso -, continuavo a rigirarmi l’anello, cercando a tratti di toglierlo, senza riuscirvi. Era come se si fosse ristretto, durante la sera, sentivo il dito intorpidito. Provai in ogni modo a sfilarlo, ma non ottenni alcun risultato.
«Merda.» dissi, prima di svenire - non saprei descrivere in altro modo cosa mi accadde, di certo non mi addormentai.
La mattina dopo Sandra era morta. I bei capelli biondo scuro erano intrisi di sangue, così i vestiti. Era stata accoltellata più di una volta, c’era anche qualche graffio sulla faccia.
«Porca puttana!» ringhiò Giorgio: «Potevate almeno fare un lavoro pulito? Ammazzarla così? Senza nemmeno nascondere il cadavere da qualche parte? E ora dove cazzo la mettiamo?»
«Perché guardate noi?» domandò Roberta: «Potrebbe benissimo essere stato uno di voi.»
«Ha dei graffi. Le donne graffiano.»
«Anche le checche.»
Non ascoltavo i loro litigi. Ero troppo concentrata sull’anello. Di poco, ma continuava a stringere, e ora che Sandra era morta nessuno avrebbe avuto da ridire se avessi lasciato la custodia a qualcun altro. In realtà, la morte di Sandra mi aveva alquanto turbata, lei era l’unica a sapere qualcosa sul maledetto oggetto; lo voleva per un motivo e, morendo, si era portata nella tomba quel segreto.
«Eli!» urlò Giorgio: «L’hai ammazzata tu?»
Scossi la testa e guardai i miei compagni. Erano pallidi. Nessuno aveva ammesso l’omicidio.
Quando in un ristretto gruppo di ladri, o sequestratori, o criminali di altro tipo, muore qualcuno e non c’è chi ammetta di averlo ammazzato - per questioni personali, perché era stato fregato dal suddetto, perché gli girava così - le motivazioni sono due: o c’è un assassino esterno, o chiunque sia stato, all’interno del gruppo, non ha ancora finito.
Smettemmo di parlarci. Vivevamo nella stessa casa, rinchiusi per un tot di tempo che andava da una settimana a tre mesi, ma evitavamo qualsiasi contatto. Ognuno badava per sé, compravamo il cibo necessario al nostro sostentamento in un piccolo negozio giù in villaggio che doveva bastare minimo una settimana - sperando che nessuno avesse munito di bomba o chissà ché l’auto.
Guardavamo insieme i telegiornali, aspettando che si parlasse del furto, ma niente. Nemmeno sui giornali o in paese c’era chi gridasse allo scandalo. Forse la polizia aveva messo il silenzio stampa - ma perché, dannazione?
O ancora, la ragazza non era venuta a conoscenza del furto - Sandra aveva parlato di una donna di servizio e di un custode, però. Così i dubbi e l’angoscia si aggiungevano al nervosismo e alla diffidenza, creando un ambiente tremendo quanto instabile.
La sera del terzo giorno Giorgio saltò addosso a Luciano cercando di ammazzarlo. Fu Roberta a separarli. Urlavano un sacco. Io continuavo a guardare l’anello. Ero certa che stesse cominciando ad entrare dentro la pelle.
La notte del terzo giorno non dormimmo. Roberta guardava fuori dalla finestra - l’ho sempre considerato un suo errore, l’incapacità di capire che il nemico è dentro, non all’esterno - Giorgio camminava qua e là per la stanza fumando sigarette, Luciano se ne stava buono buono davanti alla tv, continuando a fare zapping con gli occhi vacui.
Io fissavo l’anello. Se anche fosse arrivata la fine del mondo, non avrei distolto lo sguardo. Non ne sarei stata capace.
Il mattino eravamo talmente rincoglioniti da non avere la forza per litigare o evitarci in maniera melodrammatica. Parlavamo appena, con calma, come se l'ombra di un omicidio non alleggiasse su di tutti noi.
«Forse possiamo andarcene.» disse Luciano. «Voglio dire, se nessuno ci sta cercando...»
«È strano. È davvero strano.»
«Magari la proprietaria ha deciso che non gliene frega niente di quello che c'era nella villa, no? Aveva problemi con i suoi, forse è solo contenta di essersi tolta dai piedi un sacco di roba inutile.»
«E magari esiste un mondo dove l'uguaglianza, la pace e la felicità albergano nei cuori di tutti.»
«Ti sembra il caso di fare del sarcasmo, Giorgio?»
«Magari ci sta cercando.»
DIN DONG
L'orologio a pendolo batté l'ora alle dodici e quindici, semplicemente per darmi ragione, ma i miei colleghi mi ignorarono, catalogando come stupida la mia idea.
«E smettila di giocare con quel coso, Eli! Mi dai ai nervi!»
«Vero. Sei fastidiosa.»
«Per tutti.» annuì Luciano, stringendosi nelle spalle.
Alzai lo sguardo: «Allora sappiamo chi sarà il prossimo a morire. Non c'è più di che preoccuparsi.»
Con gli occhi sembrarono scusarsi.
«Aspettiamo fino a domani. Se nemmeno domani i telegiornali dicono niente, ce ne andiamo.»
È stato commesso un furto nella villa dei Ceolipro, abitazione in cui vivevano i due famosi illusionisti...
Odiai il cronista. Lo odiammo con ogni cellula dei nostri corpi.
Pare che siano stati rubati mobili e oggetti per un valore superiore ai cinquemila euro...
Non sapevo che si potesse odiare così profondamente una persona per qualcosa che, effettivamente, non partiva da quella.
La polizia è già sulle tracce dei malviventi. Sono vicinissimi. Vi prenderanno. Ahahahahahah!
La TV si spense, ma la risata sembrò risuonare tra le mura.
«LO AVETE VISTO TUTTI! LO AVETE VISTO TUTTI!» strillava Giorgio.
L'avevamo visto tutti.
La televisione era a terra, spaccata. Due minuti dopo l'apparizione, Giorgio l'aveva fatta rovesciare con un urlo, calpestandola. Noi eravamo rimasti in silenzio, fissando il vuoto.
«Dobbiamo restare.» disse Roberta.
«Stai scherzando?» Giorgio era una furia.
«No. Potrebbe essere stata un'allucinazione collettiva o chissà quale disfunzione mentale, e quindi la prima parte è vera, ci stanno cercando. Altrimenti qualcuno ha cercato di spaventarci…»
«Non me ne frega un cazzo. Io me ne vado.»
DIN DONG, lo ammonì l'orologio, ma Giorgio non ascoltò. Corse via, verso l'auto, e quando girò la chiave nell'accensione, quella esplose. Sentimmo il boato da dentro casa.
«Eravamo in tre, nel castello del vampiro...» canticchiò Luciano.
Se in un gruppo ristretto di criminali, uno di essi viene ucciso e non c'è nessuno che ammetta il delitto, significa che l'assassino non ha ancora finito. E non finirà finché non resterà lui e soltanto lui.
Nonostante la televisione, eravamo certi che fosse uno di noi l'artefice di tutto. Probabilmente il ladro - o la ladra - in questione pensava che Sandra avesse un qualche asso nella manica, qualche uova d'oro, e avesse deciso di ammazzare i colleghi già da prima. Doveva essere un piano elaborato, impossibile da fermare quando si è scoperto che l'asso nella manica non valeva nulla. Roberta. Luciano non era poi così pericoloso, ma Roberta, era lei quella dai piani complicati.
Quella puttana vuole fregarci, Eliana. Te lo dico io.
Pensavo a questo quando non ero totalmente assorbita dall'anello. E non erano pensieri così frequenti, a volte dimenticavo di mangiare per non togliere tempo alla contemplazione della fedina. Spariva, certe volte, entrava davvero dentro la pelle, e poi ne usciva.
«È Roberta.» mi disse Luciano. Era nervoso e si torturava le mani.
«O forse tu.» risposi. Guardavo l'anello.
«No. No. Non sono stato io. Io non... ho ucciso solo una persona in vita mia, lo giuro. E non era né Sandra né Giorgio.»
«Allora cosa ti fa pensare che non sia stata io?»
«Nelle tue condizioni? Ma ti prego.»
Gli lancia un'occhiata senza capire.
«Eli,» cominciò, spiegandomi: «Guardati un attimo. Sei uno spettro. Pallida, scheletrica, l'altro giorno non riuscivi ad aprire una bottiglia d'acqua.»
Io cosa?
«Ecco, a proposito, l'acqua sta finendo. Tutto sta finendo. Dobbiamo ammazzare Roberta, prima che ammazzi noi, e scappare.»
«È la fine... tutto sta finendo...» concordai.
«Eli? Eli? Smettila di guardare l'anello. Eli, guarda me. Mi stai ascoltando? Eli? Ti prego? Eliana?»
Ma ormai era la fine.
«Tutto sta finendo.» ribadii.
«Ci ha trovati.» annunciai. Roberta e Luciano mi lanciarono degli sguardi straniti.
«Morto che cammina e che parla. Che numeri sono?» chiese Luciano.
«32 e 48.»
Non risposi alle provocazioni. Girai i tacchi e me ne andai. Avevo detto quello che c'era da dire. Passando per il corridoio vidi una ragazza dai capelli biondicci, sporchi e unti, il viso pallido, magra da far paura. Per un attimo mi chiesi chi diavolo fosse, quella, poi mi resi conto di trovarmi davanti ad uno specchio.
E loro non mentono mai.
Distolsi lo sguardo e avanzai più velocemente possibile.
Ci aveva trovati.
Eravamo in tre, e quando il terzo omicidio sarebbe avvenuto le cose sarebbero andate degenerando: l'omicida si sarebbe avventato contro l'innocente. Roberta e Luciano erano sicuri che sarebbe toccato ad uno di loro morire; date le mie condizioni chiunque fosse stato l'assassino doveva aver ben deciso di lasciarmi per ultima, troppo facile da uccidere.
Le giornate trascorrevano lente, i viveri diminuivano, i litigi aumentavano.
Avrei voluto spiegar loro che non importava. Tutto stava finendo. Lei ci aveva trovato.
DIN DONG, concordò l'orologio.
Il suono dell'orologio a pendolo non si fermò. Dopo i due rintocchi, ne seguirono altri, e altri ancora. Era un continuo. Ci eravamo voltati, inizialmente, e poi avvicinati all'oggetto, stupiti. Il suono diventava sempre più forte e veloce, rendendo impossibile ascoltare quello che gli altri dicevano; aumentò ancora e ancora, ci ritrovammo per terra con le orecchie tappate e un dolore lancinante alla testa.
DIN DONG DIN DONG DIN DONG DIN DONG DIN DONG DIN DONG DIN DONG
Cessò improvvisamente. Faticammo ad accorgercene, con il rimbombo che infastidiva la nostra mente. Alzammo lo sguardo, sempre più confusi e spaventati.
L'orologio non c'era più.
Luciano tremava in un angolo, il cuore in gola. Era pallido - più di me - e mormorava frasi senza senso. Roberta camminava avanti e indietro per casa, controllando ogni cosa con estrema cura, sperando di trovare chissà quale marchingegno capace di spiegare tutti gli avvenimenti, o semplicemente qualsiasi cosa in grado di riportare la logica nella casa.
DIN DONG, urlò l’oggetto. Roberta e Luciano si scambiarono uno sguardo. Corsero via, andando nel corridoio dove - prima che sparisse - c’era l’orologio. Io camminai con calma. Sapevo benissimo cosa avrei trovato.
Si tenevano ben lontani da quello, guardandolo con una sorta di terrore e ribrezzo. Le lancette erano immobili, e così il pendolo, sospeso sul lato destro. Avevo l’impressione che ridesse di loro, così cominciai a ridere anch’io. Mi guardarono, ancora impauriti. Mi allontanai dai due, sempre ridendo. Immagino che fu in quel momento che presero la decisione di uccidermi.
«ELIANA!» strillava Roberta. «ELIANA!» camminava con passo pesante, la voce tra il furiosa, roca e isterica. Luciano era dietro di lei, timoroso, stringeva forte la pistola. «SEI STATA TU? EH? LI HAI AMMAZZATI TU?»
Ridevo, mi sembrava estremamente divertente. Corsi nel corridoio di fianco a loro. Sentirono i miei passi e spararono. Risi più forte.
Aprii la porta che avrebbe dovuto intrappolarmi in una camera, e invece mi ritrovai in un’altra stanza - più precisamente nell’entrata di villa Ceolipro.
DIN DONG, disse l’orologio. Era sul muro destro, imponente. Annuii, chiusi la porta e andai in soggiorno. Dopo poco, anche Roberta e Luciano entrarono.
Si guardarono confusi, Luciano cominciò a tremare, Roberta a sudare freddo.
«ELIANA!» gridarono, insieme, come un uomo solo.
Le loro voci mi raggiunsero, ma non mi interessava. Guardavo Lei.
Sedeva su una poltrona di velluto rosso, gli occhi fissi su di me. Era furiosa. Avrei dovuto essere spaventata, ma un torpore me lo impediva - una specie di calma interiore, come una porta chiusa che impediva alle mie emozioni di entrare e farsi strada. Non avevo paura di Lei, non avevo paura di Roberta o di Luciano. Non avevo per niente paura. «È stata una pessima idea cercare di derubare me.» disse.
I suoi capelli erano lunghi, neri, mossi, gli occhi di un blu profondo, indossava un vestito bianco, leggero, senza maniche, che arrivava fino alle caviglie, dei sandali anch’essi bianchi. Una macchia bianca sulla poltrona rossa.
«L’idea era di Sandra.»
«Lo so.» Picchiettava le dita sul bracciolo. Le unghie lunghe e curate - “Artigli” pensai.
«Hai qualcosa che mi appartiene.»
Indietreggiai. «Vieni a prenderlo, allora.»
Si aprì la porta del salotto, di colpo - io non l’avevo chiusa. Roberta e Luciano erano sulla soglia. Mi voltai verso di loro.
«Strega!» Roberta sembrava come impazzita. Mi voltai verso la poltrona. Era vuota.
Ricominciai a correre, ridendo dei miei inseguitori. Uscita fuori dalla sala con loro alle calcagna, mi ritrovai davanti ad una scala a chiocciola. Dalla porta appena chiusa non uscì nessuno - ero certa che fossero finiti da qualche altra parte nella casa, come se questa stesse cercando di proteggermi. O di intrappolarmi.
Sulle scale, seduta, vicina alla ringhiera, con pochi passi da fare per sparire alla mia vista, c’era Lei.
«Sandra l’ho conosciuta in galera.» spiegò.
«Non sapevo fosse stata in galera.»
Inclinò la testa: «Certo. Non ha voluto dirtelo.» adesso non sembrava più arrabbiata, era come se il mio divertimento si fosse trasferito su di lei. O forse mi stava semplicemente sottovalutando come preda.
«E perché non ha voluto dirmelo?» salii due gradini, fissandola. Se avessi distolto lo sguardo sarebbe svanita.
DIN DONG.
«Perché non le avreste creduto.» sorrise: «Le ho mostrato delle cose.»
«Tipo una televisione che si mette a parlare con lei? O un orologio a pendolo che svanisce e suona quando gli pare?»
Il sorriso divenne un ghigno - i denti erano affilati, ed erano troppi come quelli degli squali: «Tipo,» ammise la macchia bianca: «O forse molto peggio.»
Schioccò le dita. Il tempo di sbattere le palpebre e mi ritrovai davanti ad una parete trasparente, un enorme acquario. Roberta era dentro, con gli squali.
Luciano urlava, attaccato alla parete, con il culo a terra, gli occhi fissi sulla donna, cercando inutilmente di indietreggiare ancora.
Roberta sbatteva i pugni sul vetro. Lei apparve dietro, ghignava. I capelli neri galleggiavano rendendola meravigliosa. Luciano strillò più forte. Mentre Roberta cercava di rompere l’acquario, Lei si passò un dito sulla guancia, poi continuò giù sul collo, fino ad arrivare all’ombelico. La pelle di Roberta cominciò a tagliarsi dove Lei si toccava. Roberta indietreggiò cercando di guardarsi, senza capire come fosse possibile. Lei era scomparsa. L’acqua cominciò a tingersi di rosso e arrivarono gli squali.
Non risi più.
Mai più.
Luciano aveva un ciuffo di capelli bianchi.
«Ce ne dobbiamo andare da qui.» gli dissi, dando le spalle a Roberta.
«Ma non mi dire.» sibilò in risposta: «Sei stata tu?»
«No.»
«Sono stato io?»
«Nemmeno.»
«Bene. Okay. Grandioso. Stiamo impazzendo?»
Gli presi la mano. Sarebbe stato meglio se fosse sopravvissuto Giorgio - era più forte e più incazzoso, questo la Macchia Bianca lo sapeva di sicuro. Cominciammo a camminare per la casa, cercando di riuscire a raggiungere l’uscita.
DIN DONG.
Eravamo ai piedi dell’orologio, in una sala. L’uscita, semplicemente, non c’era più; ogni porta conduceva in un luogo diverso, o, peggio ancora, ci faceva tornare nella stessa camera da dove eravamo usciti. Le finestre non c’erano, questo aumentava l’angoscia. Avevamo fame, sete, ed eravamo sull’orlo della pazzia.
«Eravamo in due, nel castello del vampiro…» canticchiò Luciano, la voce impastata.
«Una sciabola volò, una testa sanguinò.» continuai. La percezione del tempo era completamente distrutta, non so dire quando ci alzammo per ricominciare la nostra ricerca.
So che sentimmo uno strano fruscio. Ebbi il tempo di rendermi conto che quel suono esisteva, poi una sciabola mozzò la testa di Luciano, arrivando dal nulla lanciata da nessuno. Mi schizzò sulla guancia il suo sangue. Vomitai accanto all’orologio.
«Ero solo io nel castello del vampiro…» dissi, appena finito, con la testa che mi girava.
«Una sciabola volò, una testa sanguinò!» cantò Lei, la voce forte come se fosse lì accanto a me, giocosa. Rise, appena finito il verso. Vomitai ancora.
È colpa mia, colpa mia, colpa mia, continuavo a ripetermi, mentre correvo all’impazzata, senza sapere dove stessi andando. È colpa mia, solo mia, solo mia.
Avrei dovuto buttare l’anello, mi dicevo, avrei dovuto dire di no a Sandra, avrei dovuto fermare Giorgio, avrei dovuto salvare Roberta, avevo causato la morte di Luciano cantando quella filastrocca. Le gambe e i fianchi che dolevano non fermarono la mia corsa.
DIN DONG.
Seguì il suono dell’orologio, mi trovai davanti ad una porta, aprii e.
Ero fuori.
Lo slancio mi aveva portata a correre sui gradini, rischiando di scivolare. Arrancai un po’, ma riuscii a superarli indenne. Il vento non era mai stato così meraviglioso, la luce del sole mai così splendente. Da far paura.
«Dammi l’anello.»
Lei era sull’ultimo gradino. Non aveva un’espressione particolare sul viso, sembrava tranquilla. Respiravo a fatica.
DIN DONG, mi avvisò l’orologio, da dentro casa.
«Perché?»
«Perché mi appartiene. Perché nessuno doveva permettersi tanto. Perché se lo meritavano.»
«Come faccio a sapere che non mi ucciderai?»
Sorrise. Denti da squalo. Così bianchi. «Non ne avrò bisogno.»
Una volta che toglierai l’anello, morirai. Non lo disse - le bastò guardarmi.
«Ha assorbito la tua energia, fin’ora. Si cibava di te.»
Sentì che il dito mi pulsava.
«Voi umani non potete sopravvivere ad oggetti simili, ovviamente. Gliel’avevo detto a Sandra. Non ha voluto ascoltarmi.» inclinò la testa: «Mi spiace, Eliana. Non c’entravi nulla.»
Non mi sembrava affatto dispiaciuta.
«Non voglio morire.» piagnucolai. Sentivo le lacrime agli occhi. Lei fece un grande sforzo per non ridere di me.
«Credi di avere scelta?»
Pensavo - speravo - che fuori di casa i suoi poteri diminuissero. Invece la terra comincio a tremare, dal terreno sbucavano delle radici. Gli alberi si avvicinavano sempre di più, tentai di scappare, ci provai davvero, ma fui avvolta dai rami. Mi trascinarono davanti a Lei, piena di graffi. Urlavo, nessuno mi sentiva.
Un ramo avvolse la mia mano per porgerla a Lei, le dita tese. Sfilò l’anello con calma, senza fretta. Respirare divenne difficile, le forze mi abbandonarono lentamente. Restai in piedi, quando gli alberi e le radici tornarono al loro posto, arretrai un po’, riuscii a voltarmi e a incamminarmi verso il bosco. Lei mi osservava, sorridente, potevo sentire il suo sguardo. Dopo pochi passi caddi al suolo, lentamente il mio corpo si sgretolò diventando polvere.
Sono certa che lei sorrise, mentre tornava dentro casa.
La donna di servizio guarda la serratura senza sapere cosa fare. Dall’esterno, la casa sembra la stessa, ma entrando non è sicura di sapere cosa troverà. Ha paura, la donna di servizio, ha paura della Padrona. Mette la mano sulla maniglia, spinge, e la porta non si apre.
Resta un attimo perplessa. Cerca la chiave dentro la borsa, la trova, e la gira dentro la serratura. Il cigolio dei cardini la fa rabbrividire.
Dentro, è il caos. La maggior parte dei mobili è per terra, distrutti. Trattiene il fiato quando arriva in salotto. La Padrona è sulla poltrona di velluto rosso, ha una fede in mano, ci gioca con le dita, il fuoco nel camino è acceso. Dietro di Lei c’è uno strano orologio a pendolo che la donna di servizio non ha mai visto in casa.
«Sono entrati i ladri.» le comunica, laconica.
«M-mi spiace…»
«Oh, ne sono certa, considerando che dovrai sistemare tutto tu.»
La donna di servizio guarda la fede. Il fuoco del camino la fa brillare in maniera sovrannaturale. Pensa, per un attimo, che non sia la luce del camino a renderla così inquietante. Scaccia subito quella sciocchezza dalla mente. Non è una donna superstiziosa. Lo sa che le cose che si dicono in giro sulla Padrona sono solo stupidaggini.
«Lo farò sicuramente, signorina. Non si preoccupi.»
«Io? Preoccuparmi? No di sicuro.» si alza, il vestito bianco ondeggia un po’ mentre cammina verso di lei. La donna di servizio arretra senza accorgersene. È spaventosa e magnifica, la padrona, con solo la luce del fuoco ad illuminarla.
«È molto bello il nuovo orologio.» afferma, velocemente, per dire qualcosa. La Padrona ghigna.
«Sì.» infila la fede al dito e si ferma davanti a lei.
«Anche l’anello.»
«Un regalino dei miei genitori. Come le chiavi di casa.»
C’è un sottinteso - la donna di servizio è sicura che ci sia - che non riesce ad afferrare.
«Fai attenzione.» alza la mano sinistra, tenendo le chiavi di casa in mano. «Capito?»
La donna di servizio controlla immediatamente le tasche: vuote. Guarda sconvolta la Padrona. Poi sorride: «I suoi genitori le hanno insegnato un sacco di trucchi interessanti, vero signorina?»
Il ghigno della Padrona si allarga - il sorriso sembra quello di uno squalo, per un momento. «Puoi giurarci.»
Lascia cadere le chiavi sul palmo aperto della donna di servizio. Nuovamente, si rende conto che le tremano le mani.
La padrona esce di casa, lasciandola sola nell’oscurità.
DIN DONG, suona l’orologio, come una voce umana che cerca di darle conforto.