Titolo: Le figlie del Lupo
Fandom: Originale, Sovrannaturale
Beta:
cialy_girlRating: PG14
Parole: 7.129 (W, undici pagine word °_°)
Prompt:
Oro,
Criticombola-
Fairy Tales,
FW.
Note: Volevo dire un sacco di cose, ma me le sono dimenticate tutte *sìssì*
- La stesura di questa fic è stata IL MALE PURO, ci ho sudato sangue, ed è stata una tortura lenta e dolorosa. Ci tenevo a farvelo sapere, ecco.
- Linda meriterebbe un tempio per aver betato 'sta cosa.
Disclaimer: Mi appartiene, non è mai successo, non si ispra a fatti realmenti accaduti/persone esistite, qualsivoglia somiglianza nelle descrizioni di luoghi/persone/streghe/avvenimenti è da considerarsi puramente casuale, non ci lucro.
Sono sempre state amiche per la pelle, loro, ragazzine con gli stessi gusti e gli stessi sogni nel cassetto, la stessa voglia di andarsene da un paesino troppo piccolo e soffocante. Martina era certa che nulla - nessuno - sarebbe riuscito a scalfire quell’amicizia, era sicura che Marianna non le avrebbe mai fatto del male, e sbagliava.
La spinge contro il muro con una forza che Martina non credeva possedesse. Le ragazze che la accerchiano ridono: «Ben fatto, Maryanne!» dice l’americana, la leader del gruppo, con quel suo accento odioso. Marianna non le corre incontro per aiutarla, ridacchia con le altre oche e la fissa come se fosse qualcosa di disgustoso. Cerca di ricacciare indietro le lacrime e il dolore, di chiuderlo da qualche parte per sembrare forte e meno patetica di quanto già non sia. Si rialza, prova a sistemare la gonna e le guarda. I loro sorrisi sono tremendi.
Tre di loro - esclusa Marianna, che non fa parte di quella compagnia di pazze, deve trattarsi certamente di un errore o di un incubo - sono nella sua stessa classe, le altre tre fanno parte di sezioni diverse. Una sola è di prima - ed è fuori dal bagno per controllare che nessuno cerchi di entrare -, le altre o di seconda, come lei, o di terza media. Sono le più belle della scuola e questa non è la prima volta che si riuniscono attorno ad una ragazzina esterna al loro gruppo per - sbranarla, diceva Martina a Marianna, e lei annuiva - dimostrare la loro immensa superiorità, come avevano spiegato al Preside quando aveva chiesto cosa stessero facendo con una primina. E sono figlie di papà, le stronze, e se lo possono permettere. Insultano chiunque, facendo a pezzi l’autostima degli altri, si comportano come se fossero le uniche degne di nota in tutta la scuola, e molti le guardano come se fosse vero - rendendo ancora più realistico qualcosa di falso, perché a quell’età non è una questione di bellezza, ma di atteggiamenti; però sono ancora troppo piccoli per rendersene conto e quindi per potersi difendere. Ogni mattina entrare a scuola con il terrore di essere prese di mira da quelle è straziante, ogni mattina spesa a sperare che capiti ad un'altra - e a sentirsi in colpa quando, effettivamente, capita ad un'altra, voltare il capo e sperare che passi presto.
«Così, la nostra Martinucciola…» dice l’americana, avanzando, le gonna che ondeggia ad ogni suo passo, lasciando ben in vista le belle e lunghe gambe. In realtà l’unico americano che ha in famiglia è suo nonno, che viene dal Texas, ma lei parla e agisce - se la tira, soprattutto - come se fosse un’americana doc. La gente la chiama fake, appena volta le spalle: «Per la terza volta non mi hai lasciato copiare la verifica di matematica…»
«Perché tu ti fai beccare sempre, e poi accusi me di aver copia-!»
«Shut up! Chiudi quella fogna, ‘kay?» non la tocca, ma Martina si sente come se avesse preso uno schiaffo in piena faccia: «Dicevo. La troia, qui, non mi ha fatto copiare. Di nuovo.»
Le altre ragazze - anche Marianna - scuotono la testa.
«E questa è una cosa very bad. Sbaglio, girls?»
Un coro di “No”, “Hai ragione” e “Puniamola” invade il bagno.
«Mi hai fatto prendere un brutto voto, e questo alla mia mamma non piace tanto. Devi solo riprovarci e ti assicuro che, tra noi due, sarai tu quella che ci rimetterà di più. Mi hai capito?»
Annuisce, due lacrimoni le solcano le guance.
«Che brava ragazza, che sei. A very good girl! Sbaglio, ragazze?»
Questa volta nessuna annuisce.
«Mah. Se si vestisse un po’ meglio, invece di andare in giro come una morta di fame.»
«Guarda che lei è una morta di fame.»
«Dovrebbe imparare a tirarsela meno.»
«Ha una faccia da culo che ti viene voglia di picchiarla solo per cercare di sistemarla un po’.»
«Non vedi che capelli orrendi? E quegli occhi da pesce lesso?»
Poi è Marianna che parla: «Secondo me troverà facilmente marito. Ci sono tante scimmie che potrebbero innamorarsi di lei, allo zoo.»
Ridono tutte, l’americana le dà una pacca sulla spalla, le ripete che è meglio passarle qualsiasi compito lei desideri, e poi escono.
Si appoggia al muro dove l’hanno sbattuta, scivola per terra e scoppia a piangere.
Marianna se la sono presa quando è diventata la nipote di un politico, l’hanno convinta a sbattere gli occhioni davanti allo zio ed è lui che l’accompagna ogni giorno dalle sue amichette, frequentando i loro genitori e aumentando il prestigio delle loro famiglie.
Non credeva sarebbe mai accaduto nulla del genere. Non sa chi odiare, se Marianna, quelle stronze, il politico o se stessa. Un giorno Marianna capirà, si dice, e tornerà da lei strisciando.
Però non riesce ad immaginarsi mentre la perdona, e nemmeno mentre tornano a quell’amicizia così speciale. È tutto finito per un motivo idiota, e questo le fa male.
Per una settimana sopporta i soprusi. Gli accerchiamenti, le battute, le spinte e alcuni graffi, le frecciatine e tutti i loro ordini, il modo in cui le tirano i capelli durante la lezione di algebra - perché la professoressa, tanto, non dà mai retta al gruppetto. Pensa che può farcela, e sbaglia di nuovo, ogni frase e ogni occhiata di Marianna sono come una coltellata. E il desiderio di farle provare lo stesso dolore aumenta di giorno in giorno.
Sono sempre in gruppo, come degli animali. Nello stesso istante in cui vede Marianna sola, nel corridoio, sa che questa è la sua unica possibilità. Corre e le si affianca: «Mary!» esclama, con un tono contento - perché è davvero felice di poterle parlare senza quelle intorno, perché forse non la odia come pensava. Sul volto dell’amica compare un’espressione di stupore, quasi si chiedesse come osi rivolgerle la parola: «Ma che diavolo vuoi, scimmia?»
Martina accusa il colpo, anche se cerca di fingere il contrario: «Parlarti! Si può sapere cosa ti è successo? Perché ti comporti così?»
Si truccava raramente, prima, ora invece ha sempre la faccia piena di cosmetici - si mette un sacco di matita sugli occhi, come le quarantenni: «Perché sono felice.» cammina più velocemente cercando di sbarazzarsi di lei: «Mi hanno accettata e ora sono una di loro. E se tu fossi una vera amica, saresti felice per me. Ma non pretendo nulla del genere da una scimmia, quindi stai pure tranquilla.»
Martina si ferma, e la lascia andare senza disturbarla più.
È una delle poche che il gruppo non si è mai azzardato a toccare; tutti la chiamano Cappuccetto Rosso, gli unici a ricordare il suo vero nome sono i suoi compagni di classe. La chiamano Cappuccetto Rosso perché indossa sempre giubbotti o maglie con cappucci rossi, persino d’estate le magliette senza maniche ne hanno uno. Sembra che, nel suo armadio, ci sia posto solo per vestiti di questo genere.
Abita nel suo stesso paese, prende il suo stesso autobus, percorre le stesse vie, compra negli stessi negozi, ma non le ha mai rivolto la parola.
Perché tutti lo sanno, e non solo in paese. Lo sanno il gruppo di stronze, lo sanno i suoi compagni di classe, lo sanno i professori. Alcuni non ci credono e scrollano le spalle, fanno i superiori, ma intanto le stanno alla larga e sono pochi quelli che osano avvicinarsi.
La nonna di Cappuccetto Rosso abita oltre il bosco, ed è una strega.
Le oche le hanno portato via la sua migliore amica, Marianna si è venduta per niente. Elenca di continuo tutti motivi che l’hanno spinta fin lì, come a volersi scusare.
Entra timorosa nella classe di Cappuccetto Rosso alla fine delle lezioni, e la trova al suo banco. Alza appena la testa, invitandola ad avvicinarsi.
«Io… io vorrei incontrare tua nonna.»
«Nome.» risponde, senza battere ciglio, afferrando un libricino rosso dallo zaino.
«M-Martina… Martina Delfini.»
«Il nome basta e avanza. Per giovedì, alle nove di mattina, davanti al bosco, dove comincia il sentiero, proprio dietro alla chiesa. Pensi di potercela fare?»
Ci pensa un secondo prima di rispondere: «Sì.» Cappuccetto Rosso scarabocchia qualcosa sul quadernino.
«Bene. Il prezzo è trecento euro. Ti spiegherò ogni cosa quando saremo lì. Non arrivare tardi, odio i ritardi.»
«Trecen- trecento euro?! Ma da dove li prendo, trecento euro?!»
«Li troverai.»
«Ma se non-»
Cappuccetto Rosso le mostra l’agenda: sotto il prossimo giovedì c’è scritto il suo nome, con inchiostro rosso.
«Ormai hai preso un impegno. Vedi di mantenerlo.»
Resta a bocca aperta, sconvolta.
«Se si tratta di un’altra persona, porta anche qualcosa che gli appartenga, come un ciondolo, o un anello. Meglio sarebbe una ciocca dei suoi capelli. Più sono le persone, più tempo dovrai stare con la nonna, ricordatelo. I soldi, invece, li devo avere per mercoledì. Puoi metterli nella cassetta delle lettere di casa mia, sai dove abito, vero?»
Annuisce.
«Allora a giovedì, Martina.» si alza ed esce dall’aula.
I soldi li mette insieme facendo gli occhioni ai nonni, fingendo di voler comprare un nuovo computer. Si fa dare più del necessario, ed è con quegli avanzi che riesce a pagare Cappuccetto. Trova un ciondolino di Marianna a casa sua, e gli oggetti delle stronze sono anche più facili da rubare - quelle pensano che nessuno oserebbe toccare nulla di loro, lasciano tutto in giro per la scuola e vengono costantemente fregate, poi si incazzano con un ragazzino a caso, senza mai trovare il colpevole.
È tutta una grandissima balla. In questo momento Cappuccetto Rosso si sta godendo i suoi trecento euro, ridendo alle spalle di una stupida credulona. Martina ha superato la chiesetta ed è arrivata davanti al bosco, alle nove meno cinque, e sta aspettando. Ma ovviamente non verrà, è solo uno scherzo di cattivo gusto. D’altra parte, Cappuccetto Rosso fa solo bene a prendere in giro gli idioti che vanno da lei a darle della strega. Fa solo bene. Almeno si è evitata una giornata di scuola, ecco. Gliela faranno pagare domani, le oche (e Marianna).
Invece Cappuccetto Rosso arriva.
Sente il rombo di una moto e lei è lì, aggrappata ad un ragazzo. Si fermano davanti a lei. Scendono entrambi, Cappuccetto si toglie il casco e lo allunga al ragazzo, prende qualcosa dal porta-oggetti (un mantello rosso e un cestino), poi si avvicina a lei.
«Hai portato tutto?»
«Sì!»
«Perfetto. Dammi.»
Cappuccetto infila ogni oggetto in una bustina bianca preso dalla tasca, poi dentro il cestino. Lo appoggia a terra e le passa il mantello sulle spalle, legandolo. Pizzica, la stoffa, ed emana uno strano calore che ha qualcosa di appiccicoso. «Ma è normale che…» prova a chiedere, ma Cappuccetto la interrompe annuendo.
«Devi solo seguire il sentiero. Ci vorrà un quarto d’ora di camminata, prima di arrivare alla casa. È sotto tre grosse querce.»
«Tutto qui?»
La ragazza le allunga il cestino: «No.» dice, quando lei lo afferra: «Tieni il cappuccio sulla testa e non dare retta al Lupo.»
«… il lupo? Mi prendi in giro?»
«Non dargli retta.» replica, con tono infastidito: «E sappi che sono una persona seria, io. Non prendo in giro proprio nessuno. Ignoralo, fingi che non ci sia, tira dritto. Se sei fortunata non cercherà di avvicinarsi più di tanto.»
«E se non lo sono?»
«Tira dritto e basta, camminando. Non correre, perché ti scambierebbe per una preda. Non toglierti il mantello e, qualunque cosa accada, non lasciare il sentiero e non fermarti.»
«Che diavolo dovrebbe succe-»
«Te la ricordi la favola di Cappuccetto Rosso?»
«Credo di sì…»
«Cosa dice il Lupo per farsi aprire dalla nonna?»
«Di essere Cappuccetto Rosso, e che le ha portato da mangiare.»
«Vino e un pezzo di focaccia. È quello che devi dire anche tu quando la nonna ti chiederà chi sei. Bussa tre volte, lei ti domanderà chi sei. Rispondi: “Sono Cappuccetto Rosso, nonnina, ti porto un pezzo di focaccia e del buon vino.”»
Martina scuote la testa: «Va bene, è assurdo. Finiamola qui, mi hai già presa in giro abbastanza. Tieniti pure i soldi.»
Abbandona il cestino per terra, si allontana di qualche passo da Cappuccetto e cerca di sciogliere il nodo del mantello, ma la mano dell’altra si posa sul suo braccio, e la stringe forte.
«Hai preso un impegno con noi, Martina. Non è proprio il caso di deluderci. C’è una nonna malata che ti sta aspettando, tutta sola in mezzo al bosco, e tu andrai a trovarla. Hai deciso di giocare, e giocherai alle nostre regole. Sono stata chiara?»
Gli occhi di Cappuccetto sono marroni con riflessi dorati, e mettono i brividi. Non li aveva mai notati, i suoi occhi. Si rende conto, all’improvviso, che sono sole, che c’è solo quel tipo, che nessuno sa dove si trovi, che, se le accadesse qualcosa, se Cappuccetto le facesse qualcosa…
«Va… va bene.»
«Certo che va bene. Non può andare in altro modo.» raccoglie nuovamente il cestino, e nuovamente glielo porge: «Cosa devi dire alla nonna?»
Martina sospira e si sente immensamente stupida quando risponde: «Sono Cappuccetto Rosso, nonnina, ti porto… ti porto un pezzo di focaccia e del buon vino.»
«Esatto.»
«E lei…»
«Cercherà di esaudire i tuoi desideri. Come tutte le brave nonne.»
«Per il ritorno? Ci sono strane regole pure per il ritorno?»
«Di quello non devi preoccuparti, se arrivi nel modo giusto tornerai nel modo giusto. Basta che non dai retta al Lupo. Lui non è cattivo, cerca solo di difendere il suo territorio e la nonna. Quindi evita di fare stronzate o strani scherzi alla vecchietta, perché te la farà pagare. E sii gentile con lei, sii educata.»
«Pensavo che il Lupo odiasse la nonna…»
«Ci sono molte versioni della storia, Martina. La nostra preferita comincia con il Cacciatore che cerca il Lupo per ucciderlo, per portare alle donne un falso dio da adorare.»
«Ma ce l’ha fatta. Il cacciatore ha vinto.»
Cappuccetto Rosso sorride: «Puoi ucciderne una, puoi ucciderne mille, non puoi ucciderle tutte.»
Si accorge che sta grattando il manico del cesto. Si ferma immediatamente e tenta di recuperare il controllo.
«Non me lo hai detto che sarebbe stato così complicato.»
«Esiste qualcosa che non lo sia?»
Il compagno di Cappuccetto accende la moto. Si voltano entrambe, e Cappuccetto gli va incontro. «Obbediscimi e non ti capiterà niente di male.» dice, prendendo il casco: «Se senti delle urla, non preoccuparti, sono gli idioti che hanno fatto di testa loro e si sono lasciati catturare. Lui li rende immortali per poterli torturare in eterno.» sale sopra la moto, e prima di mettersi il caso si raccomanda: «Attenta al Lupo, Martina.»
Si allontanano con un rombo. Martina ricomincia a grattare il manico del cestino con più forza di prima.
Camminare nel bosco non le spiace. C’è un buon profumo di terra, tira un vento leggero e si possono sentire gli uccellini cantare. Si calma, ad un certo punto. È certa che sia un grosso scherzo, che Cappuccetto l’abbia semplicemente presa in giro, ma ora come ora va bene, l’importante è distrarsi un po’, abbandonare il mondo civile dietro di sé, lasciare perdere tutta quella mole di doveri e di diritti calpestati.
Si immerge in quell’atmosfera serena senza rendersene completamente conto e, per la prima volta dopo un sacco di tempo, riesce a godersi davvero un momento di tranquillità e la paura delle oche o l’angoscia per quello che Marianna le ha detto (l’umiliazione) non la feriscono più. È tutto troppo distante perché possa far male. Nasce uno strano - e stupido, ma piacevole - sentimento di appartenenza, come se il bosco la stesse cullando, una madre gentile che consola la figlia. È bellissimo sapere di essere sola, sapere che nessuno la sta giudicando o catalogando, sapere di non dover sottostare a chicchessia. C’è solo lei, e il bosco.
Martina non lo sa, ma sbaglia ancora.
Inizialmente è solo un’ombra, uno scricchiolio di troppo, un ramo che si spezza. Dei suoni felpati che accompagnano ogni suo passo, le ombre che si allungano, il freddo che si fa più intenso, il mantello che sembra volerla bruciare viva (pizzica, pizzica così tanto). È solo la sua immaginazione, si dice. Non c’è proprio niente, qui nel bosco (niente che possa salvarla, almeno). Nell’esatto istante in cui il suo passo diventa un po’ più veloce sente come (qualcosa) un ansimare (un ringhio), e le parole di Cappuccetto Rosso (quella vera) rimbombare nella testa: “Non correre, perché ti scambierebbe per una preda.”
Ma per favore. Non c’è niente, lì. (E allora perché correre?)
Martina rallenta (di poco), il mantello non smette di pizzicare (puntini furiosi che la stanno morsicando, come a volerla avvertire del pericolo) e nemmeno quello strano fruscio si dilegua (è solo il vento, solo il vento).
Non è il vento.
È difficile, per lei, comprendere appieno cosa stia percependo, come se la collera e il sospetto avessero preso forma (non umana) e fossero dietro di lei, pronti a squartarla al primo passo falso (come se aspettassero un suo errore).
Suggestione, nient’altro. Tu cammina e piantala con queste idee del cavolo. Ti sei fatta incantare da Cappuccetto Rosso, tutto qui.
Come a voler smentire i suoi pensieri, Lui ringhia. Martina si ferma di colpo, gli occhi spalancati e la fronte madida di sudore. Si ferma perché il terrore non le permette di avanzare, si ferma perché il Suo ringhio non si è fermato (è un rumore costante, continuo). C’è un lupo, dietro di lei (il Lupo, la corregge qualcosa), e ha il sacrosanto diritto di essere spaventata a morte. Cerca di non fare rumore, respira appena, prova a mettere in moto in cervello. Poi sente qualcosa di viscoso, sotto le scarpe, abbassa lo sguardo.
È nero, come un serpente, privo di occhi e di una reale consistenza. È freddissimo e anche con addosso i vestiti, Martina si sente gelare dove lui passa - sale appena sulla gamba, poi torna giù verso la terra. Deglutisce, e avverte il Lupo mentre si avvicina. Non può fare nulla (ha paura del Serpente, sa che deve aspettare che se ne vada da solo, prima di poter tornare a camminare), quasi si arrende all’idea di essere sbranata (certa che non passerà alcun cacciatore, certa che il Lupo sarà abbastanza furbo da non ingoiarla intera). Stringe forte il manico del cestino e chiude gli occhi.
Il Lupo è vicinissimo. Smette di ringhiare per qualche istante - le annusa il mantello - poi ricomincia ma, incredibilmente, lo sente ritirarsi. Martina tiene ancora gli occhi chiusi, mentre il Serpente passa. Ha paura di essere già stata ingoiata, ha paura di avvertire in quel modo così strano la presenza non-presenza del Lupo a causa del divoramento. Invece il Serpente se ne va - sibila appena, come ne fosse contento, come se l’avesse accettata -, Martina apre gli occhi e c’è ancora il bosco.
Muoviti, stupida.
Ricomincia a camminare sentendosi la testa leggera e con gli occhi del Lupo puntati addosso. Però ne è consapevole, completamente consapevole, e questo un poco la tranquillizza.
Sono passati dieci minuti, e in dieci minuti non si è mai fermata né ha mai rallentato (non con il Lupo che la segue così da vicino, non oserebbe). Ha fame, sete, e vorrebbe solo riposarsi. Il ticchettio del suo orologio l’avverte dello scorrere dei secondi che però sembrano prendersi gioco di lei, quasi si divertissero a fluire più lentamente. Tic - tac, tic - tac, e intanto i minuti non arrivavano mai (mentre Lui è così vicino).
È quando giunge ad una curva che percepisce distintamente il Lupo fermarsi - se lo immagina chiaramente con le orecchie alzate, lo sguardo attento concentrato altrove, distratto da chissà quale altro corpo estraneo entrato nel Bosco. Il sollievo l’assale come un’ondata, con la mente sgombra di preoccupazione vede i fiori.
Erano nascosti alla sua visuale a causa della curva, ma sono i più belli e profumati che abbia mai visto. Non ne riconosce nemmeno uno, ed è certa che nemmeno esistano, in natura, però quei colori accesi e l’enorme distesa - sono così diversi l’uno dall’altro, poi, davvero meravigliosi - la fanno rallentare. Il desiderio di coglierne almeno uno (e perché no? Sono tantissimi) l’assale completamente.
Non fermarti!
Scrolla la testa, continuando con la sua andatura lentissima.
Ma sono così tanti, ed è presto, potrei raccoglierne uno soltanto…
Non fermarti!
Hanno il profumo di casa e di un amore sincero, hanno l’aspetto delizioso di fiori da giardino. Sono come un sorriso, come una carezza.
Guarda nel fango, guarda cosa c’è nella terra dove sono radicati.
Martina distoglie l’attenzione. Cappelli, sciarpe, brandelli di vestiti, orecchini, anche un orologio (così simile al suo), tutti oggetti vicini ai fiori. Non capisce finchè non vede anche una ciocca di capelli, stoffa rossa (appartenente ad un mantello, ne è certa) e, infine, una mano che sbuca dal terreno - in via di decomposizione - e che, sotto i suoi occhi, viene ingoiata dal fango. Sposta lo sguardo, stringe forte il cestino.
Non mi fermo. Non mi fermerò più.
La casa si trova sotto tre grosse querce. È costruita con mattoni rosa, la porta è di un marrone chiaro, sulla terrazza c’è una sedia a dondolo, le tende dietro le finestre sono di un bianco pallido. I tre gradini da superare per entrare nella terrazza le sembrano una scalata sul monte Everest, solo che arrivando in cima non c’è nessun senso di trionfo ad accoglierla. È stranissimo essere riuscita ad arrivarci, sa di ragazzini che per halloween si sono incamminati per lo stesso sentiero, speranzosi di poter disturbare la nonna di Cappuccetto Rosso, farle qualche dispetto o provare qualche brivido, senza mai riuscire a trovarla. Bussa tre volte - non si è accorta che la mano le trema così tanto.
«Chi è?» domanda qualcuno da dentro la casa (la nonna, o il Lupo che l’ha ingoiata e che si finge lei).
«Sono Cappuccetto Rosso, nonnina, ti porto un pezzo di focaccia e del buon vino.»
«Oh, cara Cappuccetto! Entra, entra pure!»
Implorando qualche Dio misericordioso, Martina posa la mano sul pomello. Il suo orologio fa le nove e sedici.
Una vecchia donna tutta rugosa, con pochi denti ancora rimasti alle gengive, i capelli bianchi, lunghi e maltenuti, ricurva su un bastone e vestita completamente di nero, con degli occhi maligni… ecco come è certamente, la Nonna. E ridendo sguaiatamente indicherà alle sue bestie Martina, perché la divorino.
Si ammonisce da sola. Questi viaggi mentali non le fanno affatto bene, sono solo stupidi parti della sua mente sotto stress, e la deve finire. Entra con l’intenzione di attenersi il più possibile alla realtà dei fatti (è solo un grande scherzo ai suoi danni, questo).
Ma appena i suoi occhi vedono la casa - e la nonna - non riesce a trattenersi dal rimanere incredibilmente sconvolta.
È tutto semplicemente delizioso. Le pareti tinte di un rosa seppia, i mobili castano chiaro, tutti i soprammobili che rappresentano figure dolci (un gattino, un cagnolino), i dipinti alle pareti (animali o bambini sorridenti), l’odore di torta e Lei. Si volta e le sorride. Non è vestita di nero, ha un grembiule azzurro sopra un vestito viola chiaro, dei bellissimi denti (sarà una dentiera?), gli occhi dolci, castani - dai riflessi dorati -, i capelli bianchi ma tenuti ordinati in una ciocca, le rughe ci sono ma sono poche e non la rendono affatto brutta. Sono semplicemente naturali, perché lei ormai è già nonna. Stava mescolando qualcosa dentro la pentola, ma ha lasciato tutto, posando il cucchiaione sul lavandino, per venirle incontro.
«Piccola mia!» esclama, posandole due baci sulla guancia: «Ma perché non entri in casa?» la spinge gentilmente dentro e chiude la porta dietro di sé.
«Sono proprio felice che tu sai riuscita a venire, Cappuccetto! Ho appena sfornato una torta alle mele, ne vuoi assaggiare un pezzo?»
Effettivamente, è affamata. È il suo stomaco a rispondere per lei, e la nonna, al suono, ne ride: «Direi che questo è un sì! Vuoi anche una bella bibita fresca, vero? Il viaggio è un po’ stancante.»
«Oh… beh, sì, se non la disturba… grazie mille.»
«Ma quale disturbo!» ride ancora la nonna: «Accomodati sul divano mentre prendo tutto.»
Martina obbedisce, sedendosi con il cestino sopra le gambe. La cucina è dietro di lei, non ci sono porte ma solo un muretto a dividere le due zone, può sentire la nonna mentre cammina avanti e indietro. Quando i suoi passi si avvicinano si ritrova a sperare che non si sia trasformata in chissà quale orrendo mostro come nei peggiori film horror, ma la nonna non subisce nessun mutamento. Sorride ancora, posa sul tavolino davanti a lei un vassoio con dei dolcetti, due bicchieri pieni di spremuta, la borraccia con l’aranciata, e un piattino con la torta: «Serviti pure, piccina!»
Sposta il cestino al suo fianco e non se lo fa ripetere, mentre la nonna si siede sulla poltrona alla destra della ragazza. Le viene naturale esclamare: «Ma è buonissima!» al primo morso della torta perché, effettivamente, è la più buona che abbia mai mangiato.
«Sono felice che ti piaccia.» dice contenta la nonna, sorridendo soddisfatta. La mano va sul cestino, lo avvicina a sé e sbircia il contenuto: «Vediamo cosa mi hai portato…»
Martina sa che dovrebbe essere almeno un po’ spaventata e nervosa, ma proprio non ci riesce, non con quella atmosfera così familiare. Continua a mangiare tranquillamente la torta, ignorando la nonna che afferra il sacchetto bianco e ripone il cestino sul tavolino. Si versa un po’ di spremuta - buonissima, ma questo lo immaginava - e rinnova i complimenti. La nonna ride di nuovo, il fatto che sembri felice la mette di buon umore.
«Hai avuto qualche difficoltà ad arrivare qui, piccola mia?»
Posa quel poco che resta della torta e pensa bene prima di parlare: «Mi sono dovuta attardare perché un serpente mi ha attraversato la strada… e il Lupo mi ha spaventata un po’.»
«Il Serpente? Che strano, è da un po’ che non si faceva vedere. Chissà chi l’ha liberato.» porta il dito indice alle labbra e sembra presa dai suoi pensieri. Martina non ha la minima idea di cosa stia dicendo, ma preferisce rimanere in silenzio per non disturbarla. Poi la donna sventola la mano: «Oh, che importa! In ogni caso non ti ha morso, no?»
«No, no, è solo… passato.»
«Questo è un buon segno, piccola, proprio un buon segno!» sbatte le mani in un applauso, si alza: «Allora, cosa ti ha portato qui, bambina mia?»
Stringe il tessuto della gonna: «Io sono… vorrei che le persone smettessero di farmi del male.»
L’altra ride: «Questo è impossibile, bambina mia.»
«Allora mi basterebbe che la smettessero quelle.»
La nonna annuisce: «Sei già più ragionevole. Vieni con me, tienimi compagnia, dobbiamo trascorrere insieme un po’ di tempo.» prende il vassoio con dentro ancora i dolcetti e l’aranciata.
Martina si alza e la segue in cucina. Dà un’occhiata veloce al suo orologio: segna ancora le nove e sedici.
Seduta sulla sedia, con il mantello sullo schienale, Martina osserva la nonna canticchiare allegra e mettere strane polverine nel pentolone - il pentolone dentro il camino, come ogni strega che si rispetti. C’è un buon odore, in casa, di dolci appena sfornati. Ogni tanto mangia qualcosa - si rovinerà l’appetito, così, ma dannazione, sono proprio buoni - o si mette a chiacchierare del più e del meno, cercando di trovare un argomento che piaccia alla strega.
Non ama parlare né di politica né di attualità, però segue lo sport e adora il nuoto. È interessata alla scuola e al suo futuro, ride ad ogni sua battuta. Alla fine Martina si trova talmente a suo agio che le viene naturale parlare: «C’erano dei fiori, qui vicino, davvero stupendi.»
«Oh, sì, lo sono.» e le lancia uno sguardo benevolo ma che ha una certa dose di rimprovero, dentro.
«Non ne ho raccolti nessuno!» si difende, immediatamente.
«Ne sono certa piccina, altrimenti non saresti qui. Non si coglie dall’altrui giardino, è una regola d’oro.»
Ricomincia a stringere la gonna. Non è sicura di voler porre quella domanda, ma alla fine la curiosità ha la meglio: «Perché il mantello? E perché dei fiori, del Lupo… voglio dire…» scuote la testa e chiede scusa.
La nonna continua a darle le spalle per qualche secondo - ammesso e concesso che il tempo scorra, in quel luogo - poi prende uno straccio dal mobile e si asciuga le mani, voltandosi: «Non ti ho mai raccontato la fiaba di Cappuccetto Rosso, bambina mia? Che razza di nonna degenere ti è capitata?»
«Puoi farlo ora.» risponde con prudenza la ragazza.
«Oh, che bimba in gamba!» molla lo straccio sul mobile più vicino, riprende il cucchiaione e mescola il contenuto del pentolone mentre racconta.
Tanto tempo fa, in questa stessa casa, abitavano una madre e una figlia. Erano due persone buone e generose, andavano fino in Paese per aiutare i più bisognosi, curandoli con le erbe e i segreti che il Bosco aveva rivelato loro. La madre era sempre stata a conoscenza dell’esistenza del Lupo, ma, senza sapere di cosa realmente si trattasse, metteva la figlia in guardia da esso. A volte lo sentivano aggirarsi vicino alla casa, privo di intenzioni maligne, ma troppo forte e potente perché non potesse essere anche nocivo.
Accadde un giorno che la ragazza dovette andare in Paese da sola. La madre la mise sull’attenti, ma la figlia era più vicina alle Arti di lei, più attratta dalla Verità di quanto non lo fosse la madre. Così, quando per la strada del ritorno incontrò il Lupo, invece di spaventarsi o fuggire gli lasciò il contenuto del suo cestino: un pezzo di focaccia e una borraccia di vino davanti a sé, come un regalo. Il Lupo le permise di passare senza farle alcun male, e accettò di buon grado l’offerta. S’incontrarono ancora, e quando la madre se ne rese conto poté solo adeguarsi. Il Lupo le insegnò molte cose, più di quanto il Bosco fosse riuscito, e alla fine la figlia divenne più sapiente della sua stessa madre, cosa che rendeva orgogliose entrambe. Non c’era alcuna invidia, solo complicità, e così andò avanti per molto tempo.
Ma un brutto giorno la ragazza rivelò alla madre di aspettare un bambino. La donna s’infuriò, cacciò fuori di casa lei e l’essere che considerava immondo, nato da una relazione immorale. Pianse molte notti per il destino della figlia.
La ragazza andò in paese alla disperata ricerca di qualcuno che le costruisse una casa vicino a quella della madre. Tutti, però, erano a conoscenza dell’esistenza del Lupo e nessuno volle aiutarla. Alla fine si accontentò di una piccola casetta vicina al bosco, a quindici minuti di distanza dalla casa materna.
Fu il Lupo a rivelarsi alla madre, per avvisarla che la sua bambina stava per mettere al mondo una figlia. Le si mostrò sull’uscio di casa, senza entrare, senza violare la sua libertà. La donna, grazie al Lupo, arrivò in tempo e aiutò sua figlia a partorire. Ne nacque una bambina bellissima, i capelli scuri e gli occhi verdi con pagliuzze dorate. Le due donne fecero pace e vissero come una vera famiglia.
Quando la bambina compì dodici anni, la nonna le regalò un meraviglioso mantello rosso, che la piccola non volle più togliersi, e da allora tutti la chiamarono Cappuccetto Rosso. Era lei ad andare spesso a trovare la nonna, alla quale era molta affezionata, ed era lei la più capace nelle Arti.
La voce delle sue capacità raggiunse anche persone pericolose e spaventate, gente che giudicò le tre donne colpevoli di reati mai commessi. Cappuccetto Rosso uscì di casa presto, per andare a trovare la nonna, e poco dopo il Cacciatore bussò alla porta di sua madre. Bruciò la casa con ancora la donna dentro, e s’incamminò per trovare Cappuccetto Rosso e la nonna, seguendo le tracce lasciate dalla piccola.
Il Lupo era a casa della nonna, che osservava nell’acqua il dolore della figlia. Lei piangeva per il destino infame capitato alla loro famiglia, e chiese al Lupo di salvare almeno la bambina e di impedire al Cacciatore di riuscire a prendere lei viva. Lui decise di accontentarla e le diede una morte dignitosa. Quando Cappuccetto Rosso arrivò, trovò la nonna distesa sul letto, come addormentata. Le si accostò, spaventata, e per il Lupo fu semplice ingoiarla mentre si avvicinava, quando ancora non se l’aspettava.
Il Cacciatore trovò il Lupo con il mantello di Cappuccetto tra i denti. Prese l’accetta e riuscì a colpirlo più volte, in quell’ambiente chiuso. Il Lupo non tentava di ferire il Cacciatore, si limitava a schivare, quando poteva. Cadde esausto sul pavimento, e in quel momento il Cacciatore gli tagliò la testa. Aprì la pancia e ne fece uscire Cappuccetto Rosso, sporca di sangue e di lacrime. Le raccontò l’accaduto e le disse che non sarebbe stata ritenuta colpevole di nulla, che se si fosse unita alla vera religione e avesse adorato il loro Dio le avrebbero perdonato le sue colpe. Lei annuì, continuando a singhiozzare. Il Cacciatore si voltò per uscire di casa, fingendo di voler cercare aiuto - il suo scopo era di bruciare Cappuccetto Rosso viva, come la madre -, ma appena le girò le spalle fu come se un fulmine lo avesse colpito. Urlò di dolore e cadde a terra. Prima di svenire Cappuccetto Rosso si avvicinò a lui, lo guardò in faccia e gli sputò addosso: «Pagherai le tue colpe per l’eternità.»
Lo trascinò nel Bosco e lo diede in pasto ai Serpenti. Ancora adesso si possono sentire le sue urla di dolore.
Cappuccetto Rosso maledì gli umani e la strada che la portò da loro, fece un incantesimo in modo che nessuno, senza il suo permesso, potesse trovare la sua casa, lasciando agli umani le loro malattie e le loro morti, e visse nel Bosco per sempre, felice e contenta, commemorando la memoria della nonna e della madre.
Martina ha trattenuto il fiato. Lo rilascia con calma, senza fretta, continuando a stringere la gonna.
«Quindi è morto. Il Lupo è morto.»
«Lo hai sentito nel bosco, il Lupo, piccola mia?»
Annuisce.
«E credi che basti così poco per ucciderlo?»
Scuote la testa, lentamente: «Niente può ucciderlo.» bisbiglia.
«No. Non c’è nulla che possa farlo. Possono uccidere noi, possono ucciderne tante…»
«Non potranno mai uccidervi tutte.»
«Lui non lo permetterebbe, e nemmeno Lei.»
Martina assottiglia gli occhi: «C’è una Lei?»
«C’è una Madre, ma vive nelle cose nascoste e nell’oscurità. Il Padre è sole e luce, è sempre più facile da trovare. Prima di scoprire la Madre, devi capire chi sei. Non tutte riescono a trovarla, a volte si dubita della sua esistenza, ma il suo amore ci raggiunge sempre, anche quando non ne siamo consapevoli.»
Martina annuisce nuovamente, a disagio.
«È pronto.» dice la nonna, e il fuoco si spegne.
Il liquido ambrato è dentro una boccetta di vetro.
«Puoi farglielo bere o rovesciarglielo addosso.» spiega la nonna: «Tre gocce per ognuna.»
«Cosa succederà?»
«Il tuo desiderio si realizzerà: non potranno più farti del male.»
È la cosa peggiore che possa capitare, un desiderio realizzato, aveva detto qualcuno. La nonna le carezza dolcemente la guancia: «Io ti posso dare le armi, sta a te decidere se usarle o meno.»
Non è infastidita da quel contatto fisico - le risulta piacevole, per la verità. Sorride in risposta.
«Ho capito.»
Sbatte nuovamente le mani: «Bene piccina, adesso è meglio se vai, non vorrei che tua madre stesse in pensiero.»
Martina guarda il suo orologio: nove e sedici. Deve essersi bloccato.
«Hai ragione.» si alza e la nonna le sfila il mantello: «Ma… come faccio a tornare a casa? Senza il mantello, dico?»
La nonna sorride: «Non è una cosa che faccio spesso, sai, però vorrei che fosse Lui ad accompagnarti, se non ti spiace.»
L’unica risposta che riesce a comporre (un “Ah…”) non basta per far desistere la nonna, né per toglierle di dosso la voglia di sapere.
Le ha legato la boccettina al collo, come una collana. Il mantello è sull’appoggia panni, il cestino sul tavolino. Senza quei due oggetti si sente nuda ed esposta. La nonna la accompagna verso l’entrata, e ancora prima che apra la porta Martina sa perfettamente cosa c’è. Lo percepisce come lo ha percepito nel bosco, dietro di lei.
«Stai tranquilla, piccina. Sei mia nipote, non ti farebbe mai del male.» si accorge solo in quel momento che sta tremando un po’. Regala un sorriso tirato alla nonna nella speranza di tranquillizzarla, poi la donna apre la porta, e sulla soglia di casa c’è il Lupo.
Ha una folta pelliccia nera - di un nero che non sembra neanche reale tanto è scuro -, da seduto le arriva al mento, come altezza, le orecchie appuntite sono tese in alto, sembra avere un’espressione terribilmente seria e ha gli occhi dorati - ma più che dorati sembrano avere il colore del sole, e Martina distoglie lo sguardo spaventata all’idea di bruciarsi i propri e incapace di sostenerlo ancora. Il Lupo fa un verso strano - come di un cane che vuole attirare l’attenzione, inclina la testa e guarda la nonna.
«Oh, è solo un po’ timida.» gli spiega.
Spinge delicatamente la ragazza verso il Lupo. Quello abbassa la testa e Martina accarezza la pelliccia - così morbida e fresca. Si ritrova a ridacchiare a mezza voce quando il Lupo chiude gli occhi e sembra felice delle sue coccole.
Non capisce nulla di quello che succede dopo, non sa spiegarsi perché lo segue fuori dalla casa, salutando la nonna. È come in trance quando lui si accuccia, gli sale sopra senza farsi problemi di sorta, tenendosi forte al pelo ma attenta a non fargli male. Il Lupo scatta immediatamente. Corre fortissimo per il Bosco, evitando ogni albero e saltando ogni ostacolo con una velocità incredibile. L’adrenalina entra in circolo in poco tempo, Martina ride e urla di gioia senza riuscire a trovare un paragone decente per quello che sta vivendo. Fissa il paesaggio da sopra il Lupo, vede quello che vede Lui, sente quello che sente Lui, e ad un certo punto le pare di essere il Lupo, di vedere tramite i suoi occhi, di correre con le sue zampe.
Ci mettono un attimo ad uscire dal Bosco, poi restano tra le ombre per raggiungere la casa di Martina. Ogni edificio e particolare le pare completamente diverso con questa visuale.
Lui si blocca di colpo davanti a casa sua, e l’incantesimo si infrange così. Martina continua a ridere piano, ha il volto arrossato ed è lievemente sudata. Scende, si passa una mano tra i capelli. Il Lupo le si struscia su una gamba, e lei ridendo più forte lo abbraccia. Ha il profumo confortante del Bosco. Quando Lui si allontana osserva nuovamente quegli occhi dorati, e non le sembrano per nulla malvagi.
Rientra con la boccetta legata al collo.
«Ma che diavolo ci fai tu, qui? Non dovresti essere a scuola?» le domanda sua madre, appena mette piede in soggiorno.
Martina fissa l’orologio appeso al muro: nove e sedici. Ha il respiro pesante per la corsa (che hanno fatto insieme) e scuote le spalle senza sapere cosa rispondere.
«Beh? Cosa ti è successo, stai male?» la madre la raggiunge per posarle una mano sulla fronte, ma Martina ne ride.
«Sto benissimo. Ho trovato mio padre.»
L’euforia e il buon umore non le passano nemmeno il giorno dopo, nonostante la sgridata della mamma. Le sembra di volare invece di camminare, non riesce a togliersi quel sorrisone ebete dalla sua faccia.
«Ehi, guardate, la scimmia!»
La accerchiano in corridoio. Anche loro sorridono.
«Che bella pettinatura, Martina! Hai scoperto l’uso della spazzola?»
«Carina anche la maglietta, mia nonna ne ha una uguale.»
Martina smette di sorridere. Prova una pena così forte nei confronti di quelle ragazzine, così patetiche e squallide - non sono nemmeno così belle come vogliono far credere. Le osserva per qualche secondo senza ascoltare i loro insulti, poi tira dritto dando uno spintone a quelle che si erano messe in mezzo per sbarrarle la strada. Urlano qualche minaccia per il suo comportamento, stupite e scandalizzate, ma Martina neanche le sente.
È dispiaciuta per aver fatto sprecare tempo alla nonna. Guarda la boccetta, in mensa, e si rende conto che proprio non ne vale la pena. L’altro ieri le sembravano così forti e indistruttibili e non capisce come abbia potuto dar loro tutto quel potere, permettere di farle male quando non valevano nulla. Rimette la boccetta in tasca; in quel momento Cappuccetto Rosso si siede davanti a lei.
«Le sei piaciuta.» dice tranquillamente, morsicando la sua pizza. Martina resta in silenzio con gli occhi ben aperti. Credeva che non l’avrebbe mai più rivista, e invece eccola lì.
«Oh.»
«Già. “Oh.” Le farebbe piacere se tornassi a trovarla.»
È sul punto di esclamare che, certamente!, sarebbe felice di tornare dalla nonna, ma si blocca di colpo. Rivive in un secondo quello che è stato il cammino nel bosco la prima volta.
«E questo cosa comporterebbe?»
Cappuccetto sorride, furba: «Vedo che impari in fretta. Beh, se torni dalla nonna senza alcun desiderio da esprimere, allora lo fai perché vuoi che lei ti insegni qualcosa.»
Non le serve chiedere a che genere di materie si riferisca: «E ovviamente non potrei tornare indietro.»
«No, qui è diverso, si tratta di spiritualità. Se cambi idea te ne vai senza problemi, non c’è pericolo. Anche se tradisci il Padre e la Madre mettendoti a predicare un falso Dio non ha importanza, non finchè non ci tradisci dicendo cose ai non adepti. Dopo averli rinnegati, ovviamente, non potrai nemmeno usare le nostre Arti e gli insegnamenti della nonna, sono cose che appartengono a noi.»
«Oh.»
«Sì, beh, ci sono regole da rispettare, niente di che. La tua risposta?»
«Io… credo di volerci pensare.»
«Mpfh.» ridacchia Cappuccetto: «Lo hai guardato negli occhi, Martina. Che puoi volere di più?»
Effettivamente non sa cosa rispondere.
«È stato…» bisbiglia.
«Sì, è stato.»
«Va bene.» esclama, e ne è stupita lei quanto Cappuccetto. «Mi piacerebbe… insomma… la nonna è così…»
«Io non avrei scommesso nemmeno sul tuo arrivo alla casa.» ridacchia nuovamente Cappuccetto.
Martina arrossisce un po’, e ammette che nemmeno lei ci avrebbe scommesso.
«Bene ragazza dall’immensa fiducia in se stessa, farò in modo che la nonna sappia che tornerai a trovarla.»
«Devo pagare ancora?»
«Quello è solo per gli ospiti, tu stai per diventare una di famiglia.»
«E il mantello? Il cesto?»
«Non servono, Lui ormai ti conosce.»
«Ma allora tu… perché.»
Cappuccetto la fissa negli occhi mentre risponde - occhi dai riflessi dorati: «Perché lo sappiano tutti. Il Lupo è ancora vivo.»
«E non morirà mai.»
«Non lo farà.»
Marianna è di nuovo sola, davanti al cancelletto. In realtà è sempre sola da quando ha smesso di esserle amica, anche e soprattutto quando è circondata da quelle. La nota appena mentre si avvia verso l’auto di sua madre.
«Ehi, Martina!»
Si volta priva di speranza o rabbia nei suoi confronti, solo una vaga curiosità.
Marianna sembra a disagio mentre la guarda: «Ti sei messa le lenti a contatto?»
Aggrotta le sopracciglia senza capire.
«Gli occhi. I tuoi occhi. Hanno dei riflessi dorati. Non li hai mai avuti così.»
Prima di voltarle le spalle Martina le sorride, come se si trovasse di fronte all’essere più debole e patetico dell’universo.