[Tru Calling] La peggiore

Dec 28, 2008 06:55

Titolo: La peggiore
Fandom: Tru Calling
Personaggi: I membri della famiglia Davies: Richard, Meredith, Tru, Harrison (Nominati: Elise Davies, Jack Harper, Luc e Jensen)
Beta: cialy_girl
Prompt: Parenti (Strani) della weekly di fanfic_italia anche se ho come l'impressione di non aver centrato per niente il prompt *inserire lacrime amare qui*
Conteggio Parole: 1.983 (W)
Disclaimer: No lucro sì divertimento.
Rating: Giallo
Note:
* Dedicata solo ed esclusivamente a hikarylexy perchè mi ama anche se non me lo merito.
* Vincitrice del premio Oscar per miglior betaggio, è cialy_girl ù_ù
* La famiglia Davies è talmente disastrata che... AWWW *O*



Cinque minuti. Dopo essere tornata da lavoro, era riuscita a dormire per cinque minuti prima che il telefono prendesse a suonare senza sosta, strappandola dal dolce mondo di Morfeo per riportarla alla crudele e terribile realtà, fatta di cellulari che ti svegliano nei momenti peggiori. Lanciò una breve occhiata allo schermo, ben sapendo che solo una persona al mondo era capace di romperle le scatole anche involontariamente. Suo fratello aveva un talento naturale per rovinarle la vita, ecco tutto.
- Non ti ammazzo solo perché mi sei fratello. - aveva detto immediatamente, quasi ringhiando.
- Anch’io ti voglio tanto bene, sorellina! - il tono strafottente e allegro non migliorò il suo umore. Anzi. - Tutto a posto oggi? Nessun morto chiacchierone? -
- Harrison, meglio se arrivi al punto. Sono appena tornata da lavoro e come tutte le persone normali HO UN LAVORO che non implica rubare, spacciare droga, o gioco d’azzardo, o dio solo sa cosa combinavi tu, e come tutte le persone normali, dopo lavoro, mi stanco, e ho bisogno di dormire. Quindi dimmi cosa diavolo vuoi e sii breve. -
- Ehi! - replicò, risentito. - Io non facevo tutte quelle cose orribili! - Tru alzò gli occhi al cielo, allontanando il cellulare dall’orecchio mentre il fratello urlava la sua innocenza.
- E comunque, mia cara, volevo solo invitarti a cena, questa sera… verrai? -
Non sembrava una domanda. - Sì, va bene. Devi presentarmi qualche altra tua fidanzata trattino assassina? -
- Gnè gnè gnè - le fece il verso - No. Solo che ci saranno papà e Meredith, ciao! -
Riattaccò.
La ragazza rimase con il telefono vicino all’orecchio, ad ascoltare il continuo tu-tu-tu-tu-tu, certa che la voce di Harrison sarebbe tornata all’improvviso: “Ma figurati! Era tutto uno stupido scherzo!” ci sperò.
Ma non accadde. Affondò la testa sul cuscino cercando di soffocarsi.

Era davvero seccante essere lì. Era la cosa più seccante del mondo. Per tutto il giorno aveva pregato che qualcuno morisse e poi le chiedesse aiuto, in modo da avere una valida scusa per saltare la cena. Invece sembrava che tutti si rifiutassero di morire. Nemmeno Jack si era fatto vedere. Nulla di speciale, nulla di abbastanza sconvolgente da farle dire “Beh, stasera niente cena di famiglia.” Stava mandando maledizioni all’umanità intera. Come osavano essere tutti felici e contenti, mentre lei doveva penare così tanto?
- Sono felice che tu sia qui, Tru. -
Parlando di felicità. Mugugnò qualcosa in risposta al padre, senza troppa convinzione. E lui ovviamente non le prestò attenzione, quelle erano solo frasi preconfezionate che gettava in faccia ai figli per fingere di interessarsi a loro. Aveva chiacchierato con Harrison - ormai diventato il suo pupillo - e poi con Meredith. Ora le avrebbe fatto le stesse identiche domande poste ai due.
- A lavoro e con lo studio, tutto bene? -
- Una meraviglia. -
- E con… - cercò di ricordare il nome del suo attuale fidanzato: - Luc? - Fallendo.
- È morto. -
- Ah, sì… volevo dire… -
- Jensen. Lui invece è vivo. - ripensò nuovamente a Jack. Per ora.
- Scusami. -
Ed ecco la cosa peggiore: il silenzio imbarazzante. Portò alla bocca la carne, masticando con cura quasi maniacale. Cercava di mantenere l’attenzione fissa sul suo piatto per non soffrire maggiormente.
- Beh, papà… - ecco che la Cocca di Papà Numero Due si faceva strada. - Tu come stai, invece? -
- Benissimo. -
Certo, lui stava benissimo, con la sua vita perfetta, la sua perfetta seconda moglie e i suoi perfetti figli che pendevano dalle sue (perfette) labbra. No, non funzionava così, non con lei. Gli avrebbe dato battaglia fino alla morte, non tutto gli era dovuto, e soprattutto non meritava l’amore filiale dei tre. In qualunque caso, non avrebbe avuto il suo.
Harrison, come un bravo prestigiatore, tirò fuori un argomento a sorpresa (sport, le era sembrato di capire), che riuscì ad animare la conversazione. Fuori pioveva, si limitò a notare Tru. Capitavano cene così anche quando la mamma era viva, e mentre i due fratelli tentavano in ogni modo di attirare l’attenzione di Richard, lei e la mamma si scambiavano sguardi divertiti, e prendevano a chiacchierare a bassa voce, ridacchiando di tanto in tanto. Ma Elise era morta, e da allora affrontare quelle cene era una tortura.

L’acqua scendeva a fiotti dal cielo, sembrava che tutto volesse peggiorare quella serata. Ora morirà qualcuno, pensò, e io dovrò ripetere questa tortura una seconda volta. Almeno mi porterò l’ombrello.
- Vuoi un passaggio? - Meredith la guardava con occhi compassionevoli da sorella maggiore preoccupata. Non si era mai presa la briga di fare la brava sorella maggiore, ma in compenso lei c’era sempre quando aveva bisogno di aiuto. Sminuiva i suoi problemi e con la propria super carriera la faceva sentire una fallita, ma c’era, non era diventata una figura mitologica, al contrario del padre. Cosa che, però, stava cominciando a fare. Perché Meredith stravedeva per Richard, e tentava in ogni modo di seguire le sue orme.
- No, grazie. - il padre arrivò all’improvviso nell’entrata, si era fermato un attimo per parlare con il suo pupillo.
Guardò il cielo con indifferenza. - Bene ragazze. - si voltò verso di loro con indifferenza. - Ci sentiamo. Vi voglio bene. - le salutò con indifferenza.
- Noi pure, papà. - rispose la bionda, anche a nome di Tru, che però continuava a fissare lontano.
L’uomo non ci fece caso, o comunque non gli interessava. Scomparve nella pioggia come il fantasma che era sempre stato, per lei.
- Dovremo parlare, sai Tru? -
- Del fatto che ti droghi? -
Meredith alzò gli occhi al cielo.
- Ah, quindi funziona così. Tu puoi fare la santarellina, cercare di salvare la nostra famiglia disperdendo consigli a destra e manca, ma quando uno di noi prova ad avvicinarsi a te lo allontani, vero? -
- Tu invece cerci di avvicinarti alle persone solo quando ti viene comodo. -
Meredith incassò l’accusa. Uscì dal portico senza dire una parola di più, infischiandosene della pioggia. La ragazza ascoltò il suono dei suoi tacchi finché non sentì uno sportello aprirsi.
Scattò in avanti cercando di raggiungere la sua auto. Pensò che quello era il diluvio universale, e che sarebbe morta senza aver detto ai suoi fratelli quanto li amava.

La casa era talmente vuota che faceva male. Rimase sulla soglia, fradicia, ad osservare con cura ogni angolo, ogni mobile, qualsiasi cosa. Le sembrava tutto freddo e falso. Eppure aveva desiderato quell’appartamento con tutte le sue forze: dalla morte di Elise voleva andarsene dalla casa dove era cresciuta. A tredici anni aveva cominciato a scappare continuamente, ricordava bene le sgridate di Meredith, che urlava come un’ossessa e spesso la picchiava lasciandole dei segni rossi sul viso e sulle braccia, ogni volta che il padre la riportava indietro. Harrison piangeva quando lei era via, e appena ritornava le si aggrappava alle gambe e la supplicava di non andarsene, la notte si rannicchiava nel suo letto, con lei, terrorizzato all’idea che potesse scappare di nuovo.
Quando i suoi amici scappavano di casa, i loro genitori li abbracciavano forte, chiedevano se stessero bene, dicevano di essersi preoccupati.
Richard no, Richard le diceva di non farlo più, con una voce atona, come se in realtà non gliene fregasse niente. E Tru si convinse che era proprio così: a lui non gliene fregava niente.
Voleva allontanarsi da quell’uomo, la sua vicinanza (ma anche la sua lontananza) la rendeva nervosa e triste. Tru voleva uscire dalla vita di suo padre, il più presto possibile.
A diciassette anni, in effetti, aveva cominciato a vivere a casa di amiche che la ospitavano. Ogni giorno una diversa, pur di non dover tornare dal padre. I suoi fratelli avevano ormai preso le loro strade: Meredith studiava Legge, Harrison era un mezzo delinquente. All’epoca non aveva neanche provato a salvarli, troppo occupata a salvare se stessa. Richard non si accorgeva di nulla, restava fuori casa anche mesi, senza mai chiamare o agire come padre decente. Tru non sapeva come si comportassero i padri decenti, non ne aveva mai avuto uno.
Si tolse il giubbotto e buttò la borsa sul divano, poi cercò qualcosa - qualsiasi cosa - per distrarsi e interrompere i ricordi che la stavano divorando.

- Papà, sei triste? - due giorni dopo la morte della mamma. Stava giocando a nascondino con Harrison (cercava in ogni modo di distrarre il fratellino e se stessa), e aveva deciso di infilarsi nello studio di Richard. Lui sobbalzò quando sentì la sua voce, si affrettò a prendere una foto e a nasconderla in un cassetto. Tru sapeva che era la foto della mamma. Richard aveva la mania di nascondere le foto dei morti, non voleva né parenti né amici passati a miglior vita sui muri della casa o sui mobili. Elise litigava sempre con lui, riguardo alle foto.
- Scusami, tesoro? -
- Sei triste? -
La guardò stranito. - Triste? -
- Sembri triste. -
Ovvio, era morta la mamma. Però era strano, vederlo triste. Al massimo papà era dispiaciuto.
- Tu sei triste, Tru? -
- No. La mamma ha detto che va tutto bene. -
- La mamma? Quando? -
- Al funerale. Meredith dice che ho detto una bugia ma non è una bugia! La mamma mi ha parlato papà, davvero, eravamo in chiesa e non si dicono le bugie in chiesa… - di colpo era incredibilmente spaventata e disperata, le lacrime le rigavano il volto. - Mi credi, vero? - corse verso di lui come se fosse la sua unica salvezza. - Mi credi? -
La guardò per qualche istante, poi la prese in braccio, cosa che non faceva da anni, e la strinse forte a sé.
- Sì, ti credo piccolina. -

Stava piangendo anche in quel momento, senza capire il motivo, esattamente come all’epoca, mentre con furia lavava i piatti. Suo padre le aveva creduto quella volta, ne era certa. E le era stato accanto - quell’unica volta, quel ricordo prezioso che conservava in fondo al cuore, nascondendolo a tutti.
C’erano tante cose che lei nascondeva. Nascondeva l’ultimo ricordo della mamma, il rumore assordante dello sparo, il fortissimo odore ferreo del sangue, il terrore che l’uomo tornasse per prendersi anche lei.
Si era nascosta nell’armadio e aveva visto tutto. La pistola. L’assassino. La mamma. Il sangue.

(sua madre aveva guardato negli occhi la morte, senza abbassare lo sguardo)

Chiuse il rubinetto, si asciugò frettolosamente le mani e gli occhi. Sua madre non aveva abbassato lo sguardo perché lei era abituata, a combattere contro la morte, come adesso lo era Tru. Le aveva lasciato un dono (una condanna): poter salvare le vite, far in modo che le persone abbiano una seconda possibilità.
E la sua famiglia non ne sapeva niente. Elise non aveva mai detto nulla ai figli, probabilmente nemmeno Richard sapeva nulla. Perché? Perché non aveva condiviso quel dono (condanna) con la sua famiglia? Tru non aveva nessun ricordo della mamma che scappava via senza ragioni, né ricordava di averla mai vista agitata. Forse, aveva perso il suo potere. La condanna era finita e quindi non c’era più motivo di parlarne.
Egoisticamente, non vedeva l’ora che capitasse anche a lei.
Il segnale della segreteria telefonica si accese.
- Ehi, Tru… - suo fratello. Due volte in un giorno, e sempre nel momento meno opportuno. - Lo so che ci sei, rispondi, dai. - attese qualche secondo: - Va bene, ok, ho sbagliato. Non ti piace stare in famiglia, lo so. Però ogni tanto ne abbiamo bisogno, no? E avresti potuto anche essere un po’ più carina. Non gentile, ma carina. Rivolgere la parola a papà invece di mugugnare. È già grave che tu abbia dimenticato che giorno sia oggi. -
Cosa diavolo stava dicendo?
- Tru, secondo te, perché vi ho invitati? - perché voleva farla soffrire, no? -È l’anniversario della morte della mamma. Io… avevo bisogno di voi. E tu non c’eri. Da quando è morta la mamma non ci sei mai… - l’ultima frase l’aveva bisbigliata. - B-beh in fondo non importa. Ci sentiamo appena qualcuno muore. Ciao. -
Quella notte, Tru la passò a piangere. Pensava che la persona peggiore della famiglia fosse suo padre. Si sbagliava. Era lei.

[fine]

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