Titolo: Così passa la gloria del mondo
Fandom: Originale, generale
Beta:
cialy_girlRating: Pg16
Parole: 4.671 (W)
Prompt: And the greatest books are talking about this: why must everybody die to exist? (Charlotte Martin, “Veins”)
Note: Partecipa al concorso indetto da Harriet,
Ragazze al pianoforte* Titolo preso da un proverbio/modo di dire latinoso.
* LO SO, ODDEA, UNA FIC IN QUESTI LIDI!!! CHE COSA INCREDIBILE, QUALE MIRAGGIO!!!! xD
Disclaimer: Miooh
Sono molte le strade che ci portano al nostro Destino,
ma nessuna è diretta come la guerra.
David Durham
Non la ricorda come una notte particolare, più tranquilla o magica di altre, era una delle solite notti in cui il rimbombo delle bombe si sentiva in lontananza, e il rumore dei passi affrettati degli altri condomini riempiva la stanza.
Però la televisione funzionava.
La ricezione era migliore del solito - ovvero quasi decente -e, dopo qualche secondo, concentrandosi, Stefania riuscì ad annullare i rumori rimanenti, a godersi quel suono delicato.
Aveva dodici anni, ed era la prima volta in tutta la sua vita che sentiva la musica di un pianoforte.
Ne aveva visti alcuni in certe riviste, enormi oggetti neri su cui, di solito, era chinato qualche vecchio, ma in quel momento, davanti ai tasti, si trovava un ragazzino magrissimo e pallido. A detta del presentatore era un coetaneo di Stefania e si chiamava Vento.
Fece appena in tempo a pensare che quello era il nome più brutto del mondo, che non c’era nulla di bello nel vento - porta le radiazioni, i residui delle armi biologiche e di conseguenza le epidemie in Europa -, che Vento cominciò a suonare.
In realtà, non era la musica ad averla incantata - diciamo che era stato più che altro un aiuto -, ma il suo collo, i capelli neri, gli occhi attenti e le dita lunghe. Quando finì la composizione, il ragazzino si voltò a guardare il pubblico in visibilio con un’aria un po’ spaesata, come se si fosse dimenticato della loro presenza, poi si alzò e fece un sorriso triste, inchinandosi.
Per tutta la settimana seguente gironzolò attorno alla madre supplicandola di portarla a Milano, dove viveva Vento, snocciolando scuse come il desiderio di avere un autografo o una foto del ragazzo. In realtà Stefania era molto curiosa di vederlo da vicino, non sapeva come fosse fatta la gente ricca, e soprattutto non capiva come un ricco potesse sorridere in quel modo e sembrare così triste. Sua madre provò a riportarla alla ragione, ricordandole che l’accesso per Milano - e per tutte le grandi città Europee in cui Vento avrebbe potuto trovarsi - era limitato, che i non residenti avevano bisogno di permessi speciali per potervi entrare, permessi che loro non avevano, e che anche con quelli era difficile contattare un pianista.
“E allora come lo incontri, un pianista?” piagnucolò nuovamente Stefania.
“I pianisti si incontrano solo con gli altri pianisti.” Cercò di tagliare corto lei, e funzionò.
Li chiamarono sempre disordini, senza mai azzardarsi a dire ad alta voce il vero nome degli avvenimenti che stavano sconvolgendo l’Europa.
Poco dopo la nascita di Stefania i disordini cominciarono a manifestarsi in Grecia, mentre nel Parlamento Europeo la destra estremista prendeva sempre più potere e in tutti gli Stati dell’Unione la maggior parte dei Governi venivano mantenuti dallo stesso Partito Internazionale.
Diedero tutta la colpa alla crisi se il lavoro non c’era, diedero la colpa all’istituzione scolastica dicendo che non sapeva amministrare i fondi, quando i ragazzi uscivano ben poco colti dalle scuole pubbliche, diedero la colpa ai clandestini se la criminalità aumentava e la gente diventava sempre più povera mentre quella più ricca si arricchiva ancora di più, diedero la colpa alla pigrizia della gente che viveva al sud dell’Europa quando il lavoro scomparve quasi completamente soprattutto in quelle zone, conquistarono fiducia e affetto da un certo tipo di elettori e riuscirono a farsi nominare in quasi tutta Europa.
Questo aumentò in maniera esponenziale i disordini. Per tre anni ci furono scontri con le forze armate e il popolo, e mentre i politici sorridevano in televisione, tranquillizzando i propri elettori - erano avvenimenti da poco, nulla di preoccupante, assolutamente -, le telecamere distolsero lo sguardo dai sobborghi e presero a inquadrare i grandiosi palazzi nelle città in cui i ricchi si erano trasferiti, città che grazie ai vari decreti-legge immediatamente approvati dai Governi, divennero sicure e tranquille, mentre i disordini aumentavano e si espandevano in tutto il territorio.
Alla generazione di Stefania nessuno disse che il vero nome dei “disordini” era “guerra civile”.
Per un lungo periodo di tempo, le forze armate riuscirono a contenere qualsiasi manifestante, poi, però, i problemi del resto del mondo sfociarono in una guerra dalla quale nessun Paese riuscì a sottrarsi.
Tolsero l’esercito dalle strade, lasciarono le caserme piene solo nelle città davvero importanti, mandando al di fuori dell’Europa più soldati del dovuto.
Ne tornarono pochi e ne servivano altri. Fu ripristinato l’obbligo del servizio militare, e nelle scuole, dopo i drastici tagli ai fondi di quelle pubbliche, venne introdotta una nuova materia, al posto di educazione fisica e civile, togliendo anche delle ore alle materie minori, come artistica e musica: educazione militare. A detta dei politici, serviva ad instaurare nei ragazzi il rispetto nei confronti del Governo e a prepararli per la vita.
In tempi come questi, le famiglie come quelle di Stefania non si interessavano molto alla musica.
Ma lei aveva visto quel ragazzo.
Frequentava la seconda media, in una cittadina grande ma smorta. Cominciò a studiare da sola il pianoforte, cercando libri in biblioteca e utilizzando il pianoforte nell’aula di musica - quella che non usavano praticamente mai.
Durante le lezioni, nessuno si lamentò mai del rumore.
Inizialmente, era un modo un po’ sciocco per incontrare Vento. Poi serviva solo a sconfiggere la noia, poi lo trovava divertente, poi, ammise con se stessa, l’ultimo giorno di scuola in quinta media, aveva smesso di essere un mezzo. Quella musica era diventata parte integrante di tutto quello che era, per il semplice fatto che lei glielo aveva permesso.
Fu tra i pochi ragazzi che si iscrissero alle superiori e cercò l’unica scuola con un pianoforte. Quei tre anni volarono in fretta.
“Io. Sono. Un. Fottuto. Genio.” Mentre lo diceva, Lelia si assicurò di scandire bene le parole. Stefania la guardò senza dire una parola, quasi rassegnata.
“Tu finirai fatta a pezzi in un vicolo.”
“Macché.” Replicò quella, sorridente: “Mi pungerò con un fuso, ovviamente, e cadrò addormentata finché il mio principe non mi sveglierà con un bacio!”
Stefania rise, strofinandosi le mani. Lelia continuò a parlare allegra e saltellarle intorno mentre l’amica cercava di scaldarsi alla meglio. In giro non si vedeva anima viva.
“Tutto! Posso trovare tutto! Qualunque cosa!” Stava dicendo la ragazza, ubriaca di felicità.
Per sbarcare il lunario, Lelia aveva deciso di cercare gli oggetti smarriti per conto dei legittimi proprietari. O di mettere in vendita quelli assolutamente irreperibili. A quindici anni aveva trovato il portafoglio di un boss mafioso che stava per strozzare pubblicamente un povero ladruncolo e da quel momento in poi non aveva più smesso. Era in gamba, questo Stefania doveva ammetterlo, ma continuava a pensare che non ne avrebbe ricavato nulla di buono.
“Lelia, tesoro, sto per congelare. Siamo arrivate o no?”
“Sì, ormai ci siamo.” Sorrise lei, affrettando il passo. “Avrai il grande onore di entrare nel mio covo del tesoro! Non sei emozionata?”
“Vuoi la verità o vuoi che ti accontenti?”
Lelia si voltò, inclinò la testa, sbatté le palpebre e la guardò con aria scherzosamente supplicante.
“È tutta la vita che aspetto questo momento.” Rispose Stefania. Lelia rise, le prese la mano e cominciarono a correre.
Lelia aveva nascosto la refurtiva in una stazione di polizia in disuso.
In un primo momento, Stefania rifletté se fosse il caso di mostrarsi indignata o sconvolta, ma arrivò alla conclusione che, tanto, Lelia non l’avrebbe ascoltata.
“Lia, solo tu.” Sbuffò, mentre quella apriva il portone principale con delle chiavi.
“Ho cambiato la serratura. Sai, ormai non viene più nessuno qui, ma non si sa mai.”
Stefania roteò gli occhi.
Nel seminterrato c’erano, effettivamente, un sacco di oggetti. Un paio di macchine d’epoca, persino, e roba strana che non aveva mai visto in vita sua. Lelia si faceva luce con una torcia, soffermandosi sulle cose più interessanti.
“Ehi, guarda questo!” Corse ad afferrare un involucro lungo, con decorazioni dai colori chiari sulla superficie. Quando lo mosse, fece lo stesso suono della pioggia.
“Ok… punto per te.” Ammise Stefania, prendendolo in mano e studiandolo.
“E guarda qui! Guarda qui!” Si allontanò per prendere qualcosa da un mobile piuttosto antico, e quando tornò da lei aveva in mano un piccolo pacchettino rettangolare.
“Sarebbe?”
“Gomme da masticare.” Rispose quella con un sorrisone.
“Ma non dire balle!” Sbottò l’altra, abbandonando il bastone della pioggia, cominciando a guardarsi in giro.
“Te lo giuuuro!” Replicò quella, avvicinandosi. Scartò il pacchetto e mostrò il contenuto sotto il naso dell’amica. “Guarda.” Disse, prima di mangiare. Stefania si fermò, e la fissò male quando lei fece una bolla.
“Come ci è arrivata fin qui? Non c’è nessuno che può vendere o trasportare quella roba. E a nessuno interessa. Sicura che dentro non ci sia droga o che?”
Lelia rise, scuotendo la testa: “Sei sempre così sospettosa!”
“È un mio grande pregio.” Borbottò. Poi adocchiò qualcosa dietro alle spalle di Lia.
La superò velocemente, camminando spedita, trovandosi di fronte ad un pianoforte. Spolverò la superficie con la mano.
“Quella è una nuova entrata.” Le spiegò, fiera. “Apparteneva a non so quale insegnate di musica… i suoi nipoti lo volevano buttare.”
“E sei arrivata tu.” Stefania si sedette sullo sgabello.
“Ovvio.”
“Ha nove tasti in più…” rifletté, ad alta voce. Scoperchiò la tastiera.
“Ste, ci sono diecimila oggetti più interessanti di quel robo! Perché non-“
Appena suonò la prima nota, Lia lanciò un urlo terrorizzato. Stefania la guardò stranita.
“Non l’hai mai toccato?”
“Non ne avevo motivo.” Ammise, guardandola come se avesse appena fatto chissà quale sortilegio.
Dopo la fine delle superiori, non era riuscita a mettere le mani su nessuno strumento musicale. Per un po’ aveva pensato di rubare il pianoforte della scuola, ma, anche se ci fosse riuscita - e nessuno si sarebbe davvero curato della scomparsa -, non avrebbe avuto nessun luogo in cui metterlo, la casa era troppo piccola. Poi i problemi si erano ammassati uno sopra l’altro, e alla fine, semplicemente, credeva di aver dimenticato qualsiasi cosa al riguardo, come se si fosse trattata di una storiella estiva.
Cercò di richiamare alla mente qualche spartito, e si stupì di riuscire a visualizzarne chiaramente così tanti.
“Ma lo sai suonare quel robo?”
Stefania sorrise.
Le dita, praticamente, lavorarono da sole. Inceppò un sacco di volte, ma Lelia non era un’esperta e non se ne accorse. Era davvero piacevole e rilassante, e allo stesso tempo impegnativo ritrovarsi lì dopo quasi due anni, tanto che ad un certo punto pensò di essere sull’orlo delle lacrime.
Suonò finché le dita cominciarono a far male, abbassò le spalle e sospirò.
“Porca puttana.” Commentò Lelia.
“Non mi avevi detto che sapevi suonare quell’affare.”
Stefania premette la mano sul Sol.
“Già. È una storia piuttosto imbarazzante.”
“La voglio sentire.” La ragazza prese una valigia lì vicino, si avvicinò all’amica e si sedette. Stefania rise appena.
“Ma niente di che, avevo dodici anni e ho visto questo ragazzino in televisione… stava suonando il piano. Aveva un’aria così infelice, sai, era circondato dal lusso e dagli applausi e sembrava assurdamente triste… tranne mentre suonava.” Rifletté: “Era solo concentrato, mentre suonava, ma appena toglieva le mani dal pianoforte…” Suonò un Mi: “Non lo so. Ero curiosa. Volevo incontrarlo, e mia madre mi aveva detto che solo i pianisti incontrano gli altri pianisti. Così, a scuola ho cominciato ad usare il pianoforte quando c’erano materie che mi annoiavano. Qualche professore mi ha anche aiutato, ma venivano tutti trasferiti dopo due, tre anni, sai come funziona.”
Lelia emise un gridolino di gioia: “Ti eri innamorata!!! Quanto è tenero!”
“Piantala.” Ridacchiò quella.
“E poi sfotti me se aspetto il mio fuso! La romanticona!” le diede un pizzicotto sulla guancia, Stefania si difese appena.
Dieci giorni dopo pensò che una cosa del genere, da Lelia, doveva proprio aspettarsela.
“Non ho bisogno di un lavoro.” Bofonchiò, guardandola malissimo.
Lelia si agitò: “E invece sì!”
“Bene, allora mi correggo: non ho bisogno di lavorare come tua segretaria!”
“Tesoro.” Lelia si sedette sul divano al suo fianco, le mise una mano sul ginocchio e la guardò con pena: “Ne hai.”
Stefania ispirò forte e si portò una mano ai capelli.
Tra i suoi clienti, Lelia poteva vantare anche gente relativamente famosa, che per qualche assurda ragione la ingaggiava e addirittura pagava per recuperare oggetti smarriti. Una di queste le aveva proposto un lavoro a Milano, in un hotel, e Lelia era convinta che mandare Stefania a fare la pianista - come copertura - per farsi contattare dalle persone famose che desideravano assumere l’amica fosse una buona idea.
“Non sono nel traffico di armi o di droga!” si era affretta a spiegare: “Solo… certe cose che posso recuperare non sono esattamente… legali, sai. Aromi, cibi tipici o vestiti che provengono dall’Asia, da zone contaminate e messe in quarantena…”
“Fantastico, è anche peggio delle armi o della droga.” Aveva puntualizzato Stefania: “Non saranno in molti i pazzi come te, che spacciano quelle schifezze.”
“Infatti!” Lelia era saltata su, allegra: “Praticamente non ho concorrenza!”
Il pianoforte dell’Hotel aveva un’aria antica, ma era stato mantenuto bene. A Stefania sembrava incredibilmente imponente e spaventoso, come se la guardasse male, poco convinto delle sue capacità.
Il proprietario la incontrò nel pomeriggio, pareva divertito e stupito dal fatto che una ragazza proveniente da certe cittadine volesse fare un lavoro del genere.
“Secondo Leli… secondo la nostra amica in comune, è meglio mettermi in una posizione non troppo esposta.” Spiegò, ripetendo pari pari le parole dette da Lelia. “Così da scegliere i clienti che se lo possono permettere.”
L’uomo annuì. “Beh, se non andrà bene con il pianoforte possiamo optare per un’altra soluzione.”
“Sì.” Rispose, ma non lo pensava davvero. Se non le avesse lasciato suonare il piano, se ne sarebbe andata. Stefania si morse il labbro quando si rese conto che, grazie a Lelia, aveva ritrovato l’amore per la musica.
“Però mi lasci provare.” Sussurrò, e nonostante alle orecchie del proprietario quella frase sembrò buttata lì, nella mente di Stefania era una supplica disperata.
Quando finì di suonare, gli applausi del proprietario erano i più forti di tutti.
*
Di solito accompagnava, con la musica, qualche cantante; dopo la prima parte del concerto si avvicinavano i primi clienti di Lelia, con le loro strane richieste. Istruita dall’amica, si comportava in modo un po’ misterioso e saccente. Era lei a impacchettare gli oggetti ritrovati e a metterli davanti alle porte delle camere, quando la cosa era possibile, altrimenti lasciava chiavi con indirizzi di garage affittati - a nome del cliente, ovvio - dove potevano trovare ciò che desideravano.
Secondo Stefania era scioccamente teatrale, secondo Lelia era una questione di marketing raffinato che le avrebbe portato nuovi clienti.
Quando, effettivamente, i clienti aumentarono, Stefania cominciò a pensare che del genere umano non aveva capito niente.
Per mesi funzionò - quasi - tutto alla perfezione, la fama di Lelia cresceva, e così i soldi nelle tasche delle due. La cosa incredibile era che entrambe amavano il proprio lavoro, che, in qualche modo, avevano trovato una sorta di limbo-felicità e non riuscivano a goderlo appieno, un po’ per le troppe bruciature del passato, un po’ per quel futuro con cui non erano mai scese a patti.
Le bombe non colpivano Milano da tempo, ma il rumore delle guerriglie si sentiva perfettamente dal loro appartamento.
*
In tutti quegli anni, Stefania non aveva mai sentito la sua voce.
“Ho perso una cosa. Mi hanno detto che puoi aiutarmi a ritrovarla.”
Eppure, quando parlò, fu certa che fosse lui.
Si prese un po’ di tempo per respirare, poi, lentamente, alzò lo sguardo. Vento la guardava pacifico, sorridente, i suoi occhi chiari sembravano limpidi.
“Dipende.” Rispose. Voleva assolutamente abbassare lo sguardo, ma riuscì a farsi coraggio.
Vento inclinò la testa.
“Posso pagare.”
“Siamo a Milano.” Gli fece notare Stefania: “Qui tutti possono pagare.”
Vento abbassò la testa, senza perdere il sorriso: “La cosa che ho perso… è molto importante.”
“E saresti disposto a darmi qualsiasi cosa per riaverla?”
“Sì.” Affermò, sempre pacato.
“Anche se ti chiedessi la tua anima?”
Il sorriso di Vento divenne amareggiato.
“Io non ce l’ho, un’anima.”
Stefania avrebbe voluto rispondergli che era impossibile, che per suonare così bene devi per forza avercela, un’anima, ma la sceneggiata di Lelia si fermava lì, e per tutto quello che il Destino le aveva concesso, non desiderava affatto metterlo alla prova.
Il ragazzo prese un taccuino e una penna, scrisse qualcosa velocemente e glielo porse.
“Dallo a lei. Capirà.”
Le sfiorò una spalla e si allontanò.
Stefania strinse il biglietto più del necessario.
“Vento.”
Annuì, sovrappensiero: “Vento.”
“OH MIO DIO!” Lelia si alzò di scatto. Stefania non fece una piega: era abituata agli scatti dell’amica, da quando vivevano insieme. “Avete fatto sesso.” Affermò Lelia, guardandola negli occhi.
“Non mi aveva mai visto prima di allora.”
“Avete fatto sesso sul pianoforte.”
“E stava cercando te.”
“Avete fatto sesso violento sul pianoforte.”
“Il tuo romanticismo è commovente.” Afferrò il biglietto tra l’indice e il medio. Lelia lo osservò senza prenderlo.
“Cos’è?”
“Ha detto di darlo a te.”
“E cosa c’è scritto?” Domandò, ancora. Stefania lo lasciò volare sul tavolo.
“Non lo so, è in una lingua straniera.”
Solo allora Lelia si decise a raccoglierlo con sospetto. “Rumeno…” Mormorò. Poi i suoi occhi si spalancarono. Portò una mano alla bocca, la sua fronte si aggrottò.
“Che dice?” Chiese Stefania, ma per tre settimane non ebbe risposta.
Lelia, il giorno dopo, incorniciò il biglietto e lo appese nel suo ufficio - che era anche la cucina e il soggiorno. Ogni tanto gli lanciava occhiate pensierose, poteva restare delle ore a fissarlo a braccia incrociate, senza dire una parola. Il che era un miracolo.
Stefania la conosceva e non le chiese più cosa fosse: ormai aveva imparato a rispettare le tempistiche di Lelia.
Vento era andato via da tempo quando Lelia si avvicinò al biglietto.
“’Fanculo.” Disse. “Dai allo stronzo l’indirizzo della caserma.”
Stefania assottigliò gli occhi: “Solo otto persone conoscono quell’indirizzo. Non ti fidi praticamente di nessuno.”
“Se è così strano da piacerti, non ho di che preoccuparmi.”
“Lia, cosa c’era scritto sul biglietto?”
La ragazza la guardò negli occhi: “Se non mi permetti di regalarti il fuso, principessa, come puoi addormentarti?”
“… eh?”
“Era la mia fiaba preferita.” Bofonchiò: “Mia madre me la raccontava spesso. Ho messo in giro la voce che desideravo trovare un fuso… sai che sono stati distrutti quasi tutti?”
Stefania incrociò le braccia: “È quello l’oggetto che stavi cercando, quindi.”
L’altra annuì.
“Da tutta la vita.”
Considerando le conoscenze di Lelia, Stefania non si stupì di vedere Vento nella hall, il giorno dopo.
Non solo Vento era perfettamente a suo agio nella caserma, in mezzo a tutta quella cianfrusaglia, ma sembrava perfino che fosse il posto giusto, per lui. Era adatto. Stefania non capiva come fosse possibile.
Lelia se ne stava seduta davanti ad una scrivania preziosa, con i piedi sul legno antico (in tempi come quelli, il rispetto era qualcosa di molto astratto e lontano), intenta a fissare ogni minima mossa del ragazzo, studiandolo attentamente.
“Se stai cercando di fregarmi sei morto.” Disse, ad un certo punto. Vento non ci fece caso.
“Mi piace questo posto.” Rispose semplicemente. Si voltò: “È vero che puoi trovare qualunque cosa?”
Lelia sorrise: “Sì.”
“Però non hai trovato il fuso.”
“Tu sei qui, mi pare. Ed hai un fuso.” Scrollò le spalle. Vento sorrise.
“Nessuno può contrastare Ananke, giusto?”
“Se sei così idiota da chiedere quale sia il tuo destino, non puoi pretendere che non si avveri.”
Oh, il melodramma. Stefania non poté fare a meno di roteare gli occhi.
Ma dopo quella frase, cadde un silenzio strano. Vento restava fermo nel bel mezzo del seminterrato, con le spalle lievemente ricurve e lo sguardo perso. Era indeciso.
“D’accordo.” Si voltò ad osservarle. Sembrava essere sceso a patti con se stesso. “Ti darò il fuso, se in cambio troverai qualcosa per me.”
Vento era un “Orfano della guerra”, così li avevano definiti i media - e all’epoca, i media contavano tantissimo. Bambini concepiti in aree contaminate o a rischio, non solo dalle popolazioni, ma anche dai soldati presenti: in un periodo in cui i governi erano capaci di confinare per mesi e mesi truppe nello stesso posto senza altri ordini, per controllare che non fossero afflitti da chissà quali malattie, quella era un’inevitabile conseguenza.
La situazione venne fuori a causa della foto di una soldatessa con il pancione, il viso sporco di sangue, il fucile in mano e lo sguardo attento rivolto verso le strade. Immediatamente si scatenò lo scandalo, e quando scoprirono che i bambini - di solito nati deformati, o con gravi malattie - venivano abbandonati, i ricchi signori decisero di mettersi in prima linea e adottarli.
Quello che la gente sospettò solo, fu che i ricchi signori chiedessero di avere i bambini con problemi non estetici, dato che i loro sorrisi spenti non erano abbastanza rivoltanti da non finire sulle copertine. Al contrario dei piccoli con gravi deformazioni visti sulle fotografie di guerra.
Vento era uno dei fortunati. Non era nato con problemi visibili, ma aveva un’estrema carenza di globuli bianchi e, di solito, i suoi valori erano semplicemente confusi, quasi il suo organismo non avesse la minima idea di quale fosse il suo compito. Era a rischio di anemia, leucemia, i medici erano sicuri che sarebbe stato colpito da qualche nuova forma di cancro e altre diecimila malattie che gli impedivano di dimenticare le medicine a casa e per cui i suoi genitori adottivi dovevano sborsare fior di quattrini - che recuperavano con i diritti delle foto.
“Non capisco cosa c’entri questo.” Ammise Lelia.
Vento si strinse nelle spalle e prese fiato: “Voglio che trovi un oggetto, qualsiasi oggetto, appartenuto ai miei genitori.”
Per i primi dieci minuti, Lelia lo aveva insultato nei peggior modi possibili in almeno otto lingue diverse - Stefania li aveva capiti quasi tutti: era uno dei pregi di essere nata in un ambiente multi-etnico, dove i confini sono confusi e le persone di tutte le culture vanno e vengono senza tregua, magari non impari le lingue, ma di certo scopri presto quali siano le parolacce -, aveva strillato un po’ e si era seduta.
“Allora lo farai?”
“Certo, maledetto bastardo!”
Lelia non aveva perso un secondo, si era buttata sulla ricerca controllando libroni, cartine, facendosi dare un po’ del sangue e dei capelli di Vento, oltre che la sua cartella clinica e qualsivoglia informazione precedente alla sua adozione. Stefania aveva preso l’abitudine di tornare direttamente in caserma dopo il lavoro, per controllarla. A volte ci trovava anche Vento.
Mentre Lelia quasi rischiava di distruggere tutti i suoi oggetti preziosi per poter prendere un atlante, Vento le fece notare una cosa.
“Nessuna di voi due mi ha chiesto perché.”
La ragazza prese un respiro profondo. Era ancora terribilmente in soggezione, al suo fianco.
“È la fine del mondo.” Alzò le spalle lei: “Non c’è nulla di anormale in qualche capriccio.”
Vento sorrise e le mostrò il palmo della mano. C’era tatuato un triangolo, con una riga orizzontale che lo divideva a metà.
“È il simbolo dell’aria.” Spiegò. “Per questo i miei genitori adottivi mi hanno chiamato Vento. L’ho sempre trovata una cosa curiosa. Se si sono presi la briga di lasciarmi questo ricordo, magari avevano altro da potermi dare.”
Stefania annuì. Considerando tutte le violenze accadute durante la guerra, anche lei sarebbe stata curiosa se i suoi genitori avessero dimostrato di essere diversi, in qualche modo.
“Potresti illuderti.” Mormorò.
“È la fine del mondo.” Replicò: “Non è poi così importante, la delusione.”
I militari cominciarono ad abbandonare il territorio verso fine mese. Questo movimento improvviso fu una specie di manna dal cielo per gli affari di Lelia: spostare e scambiare le merci era più semplice e veloce.
Intanto, la risposta delle popolazioni, ovviamente, non si fece attendere, perché il significato di quel trasferimento lo capirono tutti immediatamente. Altre rivolte si scatenarono, molti ricchi lasciarono l’Eurasia mentre ai poveri non veniva concesso di imbarcarsi sulle navi. Da tempo non esistevano più aeroplani che non fossero privati.
A quanto pareva ormai si era deciso che la cellula terroristica presente nel continente non poteva più essere, in alcun modo, contrastata - quindi andava distrutta.
Stefania ci fece caso solo quando perse il lavoro, a causa della chiusura dell’hotel.
Non era disperata, o arrabbiata o triste.
Sentiva solo un po’ di nostalgia.
Rimase accanto a Lelia e l’aiutò a trasportare le merci e tenere i conti, anche se da quel momento il valore del denaro scese a livelli storici. A nessuno importava più.
Vento arrivò in perfetto orario, appena Lelia fissò l’appuntamento. In silenzio, gli porse una scatola.
“Domani voglio vedere il mio fuso.”
Nella scatola c’era una foto. Un uomo e una donna, con i visi sporchi di terra, sorridevano felicissimi, i capelli tutti arruffati. Dietro c’erano due firme: Giacomo Dellest e l’altra era scritta con dei caratteri a lui sconosciuti.
“Non so come si pronunci.” Ammise Lelia: “Ma sono riuscita a scoprire che il nome di lei significa aria.”
Vento sorrise: “Non poteva essere altrimenti.”
Una manciata di giorni dopo, Vento tornò con il fuso e l’espressione colpevole.
“Le cose cominceranno a mettersi male.” Disse loro, mentre Lelia studiava il fuso, affascinata e un po’ delusa.
“È da un pezzo che le cose vanno male.” Gli fece notare Stefania, con gentilezza.
“No- sarà davvero brutto. Mi hanno proposto di andare via da qui.” Si strinse nelle spalle: “Se volete, posso trovare un modo per portarvi con me.”
Lelia era troppo occupata ad ammirare il suo tesoro, così toccò a Stefania dirlo.
“Andrà male ovunque, Vento.” Rispose: “Non c’è poi molta differenza. Ora è l’Eurasia, ma sappiamo benissimo che nemmeno dell’Africa e delle Americhe resterà nulla.”
Il ragazzo abbassò lo sguardo: “Capisco.”
Stefania non poté fare a meno di sfiorargli il mento con le dita.
“Se sei qui, significa che hai già preso una decisione.” Gli rivelò.
Vento la fissò attentamente prima di andare via.
La fuga di notizie aveva fatto in modo che tutti conoscessero la data esatta dell’ultimo bombardamento.
Il vicinato di Stefania e Lelia si preparò al meglio: andarono sui tetti, prepararono i fuochi di artificio, qualche bandiera, i bambini vennero lasciati liberi di urlare e correre come più preferivano. Quando Stefania e Lelia chiesero a due sconosciuti di aiutarle a portare sul tetto un pianoforte e un fuso, loro, molto gentilmente, dissero sì.
Stefania non riusciva a suonare. Era la prima volta che le capitava una cosa del genere.
Ferma, davanti ai tasti, si limitava a fissarli e ad ascoltare la voce della sua amica, in sottofondo, che come al solito sparlava.
“Ehi, ma guarda chi c’è!”
Non si voltò quando sentì la risata dell’amica, né al bacio sulla guancia che si scambiarono, e nemmeno nel momento in cui lui si sedette al suo fianco.
“Ho cominciato a suonare il pianoforte per te.” Raccontò: “Avevo dodici anni, e anche tu, e ti ho visto in televisione. Eri assurdamente triste, la ricchezza era intorno a te ma eri triste. Poi ti sei messo a suonare.
Allora non sapevo cosa fosse scattato, ma il tuo sguardo, i tuoi movimenti… sembravi libero. Non felice, ma libero. Pensavo che avrebbe funzionato anche per me.”
“Ha funzionato?”
“È l’unica cosa che abbia mai funzionato.” Finalmente si girò: “E volevo incontrarti.”
Vento la guardava senza espressione.
“Per domandarti per quale ragione fossi così triste.”
Il ragazzo sorrise - e fu un sorriso vero.
“Perché non sapevo che i miei genitori fossero stati così coraggiosi da non permettere mai, a nessuno, di togliere loro la felicità.”
“Ohhh, che smancerie!” Si lamentò Lelia, improvvisamente: “Pianisti del cuculo, perché non vi mettete a suonare e state un po’ zitti?”
Stefania scosse la testa, divertita, Vento si grattò la nuca. Appoggiarono insieme le mani sopra ai tasti.
Il suono si disperse in tutto il vicinato, e alla musica presto si aggiunsero le voci delle persone, che cantavano in lingue diverse canzoni diverse: era un miscuglio assolutamente stonato e incomprensibile che accompagnava l’allegria del pianoforte.
Poi il canto si spezzò in un grido quando la prima bomba cadde.
Solo la musica continuò imperterrita, mentre si sentivano i primi spari dei suicidi e la lontananza delle bombe lanciate diminuiva.
Stefania e Vento non alzarono mai le mani dal pianoforte.
L’ultimo gesto del mondo fu quello di una ragazza che si pungeva l’indice con il fuso.
Note finali
Non dire gatto:
Linda: Lelia mi piace. Scommetto che muore.
Namida: XD dovrebbe essere abbastanza fluff, sai
Linda: è il dovrebbe che mi spaventa.
A mia discolpa posso dire che- no, effettivamente non posso dire nulla a mia discolpa.
Che tra l'altro, giurn giuretto, pensavo davvero che sarebbe finita fluff e lovvosa ma XDDD non ho nessun controllo sulle storie, è questa la verità XD