Titolo: Love is the Devil
Fandom: Originale, Sovrannaturale Horror
Beta:
cialy_girlRating: Pg16
Parole: 4.208 (W)
Prompt: Amore fraterno
Note: Partecipante al “
Contest amore fraterno” indetto da Rota23 sul forum di EFP, arrivata prima.
- Demoni e stregoni *___* li adoro y_y
Disclaimer: Tuuuutto mio.
Dei primi anni della sua vita Nathan ricordava soprattutto il gran via e vai di gente, quel rumore incessante di bisbigli e risate, il modo che avevano i grandi di carezzargli la testa e smettere di parlare quando entrava nella stanza; rammentava i libroni studiati sul tavolo in sala, i volti seri e concentrati, e le donne che gironzolavano attorno a sua madre come se fosse una principessa.
Poi un giorno sua mamma lo prese da parte, lontano da tutto quel caos, e gli sorrise dolcemente come faceva quando doveva scusarsi di un errore molto brutto. Solo allora notò quanto sembrasse stanca e magra, la pelle davvero pallida e quell’aspetto malaticcio. Per un attimo pensò che gli avrebbe detto di essere in punto di morte.
«Sono incinta, piccolino.»
Nathan non disse nulla: si limitava a guardarla, incuriosito. Lei gli prese le mani.
«È davvero molto importante che tu voglia bene a quello che sarà il tuo fratellino o la tua sorellina. Non importa che aspetto abbia o… o qualunque altra cosa, tesoro. Devi amarlo. Devi giocare con lui e volergli bene. D’accordo?»
Nathan si morse il labbro inferiore: «Posso dirgli una cosa?»
La donna sembrò sorpresa: «Beh… certo…» si alzò, e sfiorandosi la pancia disse: «Ora è dentro di me. Qui.»
Nathan si avvicinò e bisbigliando disse: «Per favore, cerca di essere femmina, va bene? Così non litighiamo per i giochi.»
Lo sguardo di sua madre non si addolcì. Lo osservava quasi preoccupata, tenendo sempre la mano ben ferma sulla pancia.
Sua mamma non era affatto ingrassata durante la gravidanza. A parte il pancione era scheletrica, come se fosse a digiuno da un sacco di tempo. La gente che veniva sempre a trovarli si aggirava nervosa nei paraggi: cercavano tutti di farla mangiare, di farle abbassare la temperatura, dicevano che sarebbe andato tutto bene. Che il bambino stava assorbendo l’energia necessaria alla propria sopravvivenza, nient’altro.
Una volta, nel bel mezzo della notte, Nathan aveva visto la mamma seduta davanti al frigo, con gli occhi spalancati, che afferrava qualunque cosa le capitasse sotto mano divorandola. Si voltò a guardarlo e Nathan ebbe paura di essere mangiato a sua volta.
Adesso era sicuro che lo avrebbe fatto.
Della nascita di sua sorella rammentava le urla di sua madre e il profumo della zia che lo teneva in braccio. La zia non era spaventata, quindi neanche Nathan. Gli accarezzava dolcemente i capelli, sorridendo pacata. Probabilmente c’era il solito via vai di gente, ma Nathan ricorda solo quel sorriso.
Come se fosse accaduto qualcosa di assolutamente perfetto.
Qualcuno uscì dalla camera per vomitare, tenendo le mani ben strette sulla bocca. Gli altri erano pallidi e con gli occhi spalancati. Nathan dovette aspettare otto giorni prima di poter vedere sua madre e sua sorella.
La mamma stesa sul letto sembrava stanchissima. Respirava piano e apriva le palpebre a fatica, la sua bocca era secca.
«L’amerai…» sussurrò a fatica: «Lei ha esaudito la tua richiesta, quindi l’amerai… vero?»
Nathan annuì piano.
«Posso vederla, mamma?»
«Non credo sia il caso.» s’intromise la zia, con la voce incrinata dalla paura.
«Non abbiamo altra scelta, sai.» sorrise l’altra donna.
Uno dei signori che veniva così spesso a trovarli lo sollevò davanti alla culla e Nathan, a quattro anni, vide la cosa più disgustosa che avrebbe mai visto in tutta la sua vita. Ma era sua sorella, quindi non si spaventò.
Aveva degli occhi enormi e neri, senza pupilla, i denti, già sviluppati, avevano una doppia fila, erano minuscoli e appuntiti, le mani erano squamate e con dei veri e propri artigli, il suo corpo era di colore grigiastro, come il viso, e sotto di esso sembrava muoversi qualcosa di vivo, forse dei vermi. Ma i suoi piedi erano normali.
Se ne stava tranquilla e silenziosa a fissarlo, con quegli enormi occhi completamente neri, come in attesa, così lui glielo disse.
«I tuoi piedini sono carini.»
Lei aprì la bocca ed emise uno strano verso, come quello fatto dai serpenti a sonagli quando muovono la coda.
Nathan era certo che avesse capito, e che ne fosse contenta.
Quando compì due anni, sua sorella fu rinchiusa in cantina. I signori avevano preparato una gabbia grande, c’era un lavandino, un letto e una scrivania. L’unica finestra era coperta da una tenda nera, in quel posto non riusciva ad entrare un solo raggio di luce. Gli spiegarono che non potevano lasciarla troppo esposta al mondo esterno, che lì c’era tutto quello di cui necessitava e che, comunque, aveva lui con cui giocare.
Sua mamma, nel frattempo, non si era più ripresa. Aveva giornate buone in cui riusciva a fare passeggiate, ma persino la borsa della spesa risultava troppo pesante, per lei, si stancava davvero facilmente. In quelle cattive, dovevano usare la sedia rotelle per portarla in giro.
In quelle pessime la zia le metteva il pannolone.
La zia si era trasferita appena nata sua nipote, ed era l’unica rimasta. I visitatori soliti, le facce conosciute, scomparvero a poco a poco. Erano tutti nervosissimi. Nathan aveva capito che qualcosa era andato storto, e quel qualcosa riguardava sua sorella, ma non gli importava poi molto.
Era l’unico ad andare in cantina a trovarla ogni giorno. Nathan le parlava un sacco, le raccontava storie aiutandosi con i pupazzetti, ma lei rispondeva solo con i suoi sibili da serpente, o con quella strana risata-suono che gli ricordava tanto i delfini visti in televisione. Convinse la zia a portarne una giù, e cominciarono a guardare i cartoni animati insieme.
A Nathan avevano proibito di avvicinarsi troppo alle sbarre della gabbia e di toccarla, quel giorno fu per distrazione se vi appoggiò la schiena.
Sentì il respiro di sua sorella soffiare sul suo collo e si voltò lentamente. Gli occhi scuri di lei erano più neri che mai. Si alzò di scatto e lei fece un verso strano. Un ghhh soddisfatto, di chi ha preso in giro qualcun altro e stabilito chi sia il più forte. Si rintanò camminando a quattro zampe nel fondo della cella, fissandolo divertita.
Il corpo di lei cambiava continuamente forma. In realtà, se la si guardava troppo a lungo, Nathan aveva notato che smetteva di essere vera. Sembrava facesse parte dell’oscurità, come un’ombra indefinita parzialmente capace di comunicare.
La sua testa era più ovale oppure putrefatta, nemmeno fosse un cadavere, i suoi artigli più lunghi, persino i piedi e il corpo diventavano qualcosa di diverso. Ogni tanto comparivano piccole ali da pipistrello dietro la sua schiena.
Le adorava. Si alzava in volo verso il soffitto della gabbia e si lasciava penzolare giù.
A Nathan sembrava sempre bellissima.
«Mi state dicendo che mia sorella è mezza morta per niente?»
Gli occhi della zia, furiosi, vagavano nella stanza piena di gente. Nessuno abbassò lo sguardo, tuttavia. Non avevano motivo per sentirsi in colpa. Nathan cercò di respirare piano, da dietro la porta.
A scuola le maestre dicevano che spiare era qualcosa di sbagliato, ma in casa non ricordava che qualcuno avesse mai parlato di questo. Forse a loro non importava poi molto, e comunque un bambino di dieci anni deve arrangiarsi, quando i grandi non dicono mai nulla.
«L’esperimento è fallito, sì.» rispose un uomo piuttosto alto e vecchio: «Poteva succedere.»
«E quindi ci abbandonate.»
«L’essere non dimostra capacità di comunicazione,» le fece notare una donna sistemata in un angolo della casa: «E non parlarci come se vi avessimo costrette. Anche a voi faceva gola l’idea di un mezzo-demone aperto a scambi più…» sembrò riflettere sulla parola: «Fattibili.»
«Certo che sì! Ma non immaginavo che questo significasse dover spingere mia sorella su una fottuta carrozzella!»
«C’erano dei rischi.» dice uno: «E se voi due non l’avete messo in conto… allora, forse, vi meritate quello che vi è successo.»
La zia fissò la persona che aveva parlato. Nathan non l’aveva mai vista così furiosa.
«Fuori. Subito.»
Il gruppo si alzò con calma. Solo una donna dai capelli rossi si avvicinò.
«Lo sai che non puoi ucciderla, vero?»
La zia le lanciò uno sguardo carico d’odio. Stava per crollare, e non voleva essere vista da quelli.
«E perché no? Dovrei anche tenermi quel mostro in casa, adesso?»
«Se dovesse succederle qualcosa, il padre si vendicherà.»
«E da quando i demoni hanno uno spirito paterno?» soffiò. Nathan pensò che stesse per prendere quella donna a pugni.
«Non ne hanno. Sono solo incredibilmente possessivi. Sua figlia gli appartiene. E se qualcuno danneggia una sua proprietà…» la signora alzò le spalle.
Improvvisamente, la zia sembrava invecchiata di dieci anni.
A volte passava intere giornate a fissare sua sorella. Perché non voleva farla sentire sola? Per abitudine?
Perché le voleva bene?
Nathan era rimasto accanto a quell’essere per tutta la sua vita. E all’età di dodici anni cominciò a pensare che se le era rimasto così vicino non si trattava solo di affetto fraterno, compassione, o che altro.
Nathan, di quella bestia, aveva paura.
A quattordici anni una situazione del genere - madre perennemente malata a letto, sorella minore rinchiusa in cantina in quanto mostro, zia sull’orlo di una crisi isterica, incapace di mantenere il controllo - può sembrare ancora più pesante e crudele di quanto non sia.
Osservava, quasi incantato, sua sorella addormentata. Gli dava la schiena, in posizione fetale sul pavimento, poteva sentirla respirare. I suoi capelli - a volte li aveva quando andava a trovarla - erano di un colore tra il biondo e il castano, non avrebbe saputo dirlo a causa di quell’oscurità, come non riusciva a capire quale forma avesse assunto.
Gli avevano proibito di aprire la cella - nessuno apriva la cella -, il cibo le veniva passato attraverso una porticina posta sopra la scrivania, che veniva chiusa dall’esterno, così qualche straccio nel caso avesse freddo, ma lei non ne aveva mai. Da che ricordava, non l’aveva mai neanche toccata.
Non ci fu nessun cigolio quando aprì la porta, e lei non si mosse. Nathan era inginocchiato davanti a lei, la forbice in mano e le mani tremanti. Raccolse con delicatezza una ciocca dei suoi capelli - erano pulitissimi, profumati e morbidi -, e cercò di tagliarli.
La forbice fece un rumore sordo, senza riuscire a compiere il suo lavoro.
Si sentì un suono forte, un urlo disumano e furioso, la forbice volò via e la mano di Nathan prese a sanguinare, quando la sorella si girò di scatto e lo colpì.
Il ragazzo non riuscì nemmeno ad alzarsi, improvvisamente si ritrovò sbattuto dall’altra parte della gabbia, con il mezzo demone sopra di lui che infilzava gli artigli sulle sue spalle e urlava. Urlava mostrando i denti e fissandolo con quegli occhi neri, urlava facendogli percepire la sensazione di freddo che procurava la vicinanza del suo corpo.
Sua zia e alcuni ospiti entrarono strillando. Provarono a togliergli il mostro di dosso, qualcuno gridava frasi che Nathan non riusciva a capire, facendo strani simboli per aria - li riconosceva, però, li stava studiando - e altri cercavano di tirarla via con la forza bruta.
Caddero all’indietro quando lo lasciò, sempre emettendo quel suono acuto. Si liberò velocemente dalla presa degli stregoni, arrampicandosi in un angolo della gabbia e continuando a guardare lui, strillando e mostrandogli i denti.
Lo portarono via velocemente, prendendolo in braccio mentre si sentiva svenire.
L’ultima cosa che vide fu il volto deturpato di sua sorella che ghignando si leccava il suo sangue dai propri artigli.
Le loro urla erano quasi peggio delle urla di sua sorella, rifletté. La zia non smetteva di andare avanti e indietro per la stanza, sgridandolo e minacciandolo, finché la sua voce non cominciò a tremare, e infine si accasciò su una sedia, singhiozzando, chiedendogli di capire. Lui era l’unica cosa che le era rimasta. Nathan le si sedette accanto, chiese scusa e la lasciò piangere sulla sua spalla.
Poche ore dopo sua zia gli proibì di andare a trovare la sorella per una settimana. Fu il momento più brutto di tutta la sua vita.
Si sentì come deturpato di qualcosa che gli apparteneva di diritto, quasi gli stesse impedendo di respirare. La settimana passò talmente lenta da essere quasi dolorosa, Nathan arrivò a provare acuti mal di testa e nausea per l’assenza della sorella. Gli servì a capire lo sbaglio fatto - d’altra parte, non era stato così stupido da cercare di ucciderla, lui desiderava solo controllarla - e a rendersi conto di non poter più compiere errori davanti agli altri.
Il lunedì seguente rischiò più volte di inciampare sui gradini, correndo velocemente.
Quando la rivide, finalmente, realizzò una semplice verità.
I suoi occhi nerissimi e grandi - questo non cambiava mai, qualsiasi aspetto assumesse, gli occhi restavano identici - lo fissavano con una dose di aspettativa enorme. Così lui lo disse ad alta voce.
«Non mi hai ucciso.»
L’essere sibilò.
Nathan, lentamente, aprì la gabbia ed entrò. Si avvicinò a lei, che era inginocchiata per terra, e le spostò una ciocca di capelli neri e ricci dal viso.
«Scusami. Sono stato sciocco. Sono entrato qui con intenzioni cattive.» Non abbassò lo sguardo da quel nero, nonostante fosse immenso e malvagio: «Perdonami. Sono tuo fratello e non dovrei farti del male.»
Lei fece qualcosa che sembrò un sorriso.
Nathan si alzò quasi in trance, e non si mosse quando lei gli saltò in braccio. Premeva forte le cosce contro le sue anche; gli posò le mani sul petto impedendogli di respirare bene. Ma, ancora, Nathan non reagì. L’essere sorrise di nuovo, passò la mano sul volto di Nathan che, obbediente, lasciò gli occhi chiusi.
Non si ribellò quando lei gli fece spostare la testa all’indietro, né quando gli aprì la bocca.
Nel momento in cui sentì qualcosa di denso scivolargli sul palato, si limitò a gustarne il sapore dolce, mentre lei rideva.
Ora erano fratelli.
Traballava, non riusciva a trovare l’equilibrio per restare in piedi e camminare. Gli ci vollero quindici minuti per uscire dalla gabbia e richiuderla. Poteva sentire il sangue di lei nelle proprie vene, come una lingua di fuoco che lo stava confondendo. Eppure aveva un sapore buonissimo, Nathan dubitava che sarebbe riuscito a scostarsi, se lei non glielo avesse ordinato - con il suo ringhio.
Ora non aveva più freddo, e riusciva a comprendere il suo linguaggio. Per anni erano andati avanti senza cercare realmente di comunicare tra di loro - erano i grandi a cercare di capirla, non lui, lui doveva solo giocare con lei e farla star bene, proteggerla -, adesso risultava quasi strano afferrare ogni concetto che le passasse per la testa. Nathan immaginava che in realtà lei non gli permettesse di percepire tutti i suoi pensieri e le sue sensazioni, mentre lui era un libro aperto, ma questa imparità non lo disturbava più di tanto.
L’aveva capito che lei lo stava proteggendo, che sarebbe impazzito se fosse diventato consapevole di tutto quel nero.
Due giorni dopo lo scambio di sangue, andando in cantina, vide Nadia.
Nadia era la compagna di classe per cui aveva una cotta - d’altronde, fuori da quella casa era una persona quasi normale con una vita quasi normale -, erano amici ma nulla di più. Quando la vide sul fondo della gabbia, che gli dava le spalle, per un attimo il suo cuore perse un colpo.
Poi capì.
Sua sorella si voltò, con un sorrisone stampato sul volto, mantenendo l’aspetto di Nadia. Solo gli occhi… eppure Nathan sapeva che lei poteva mutare anche quelli. Ora lo sapeva, perché era dentro di lei come lei era dentro di lui.
La desideri, vero? Sibilò, con quella sua non-lingua. Nathan non rispose.
L’ami? L’ami più di quanto ami me?
Il ragazzo si avvicinò alle sbarre e disse, scandendo bene le parole: «No. Tu sei più importante di qualsiasi altra cosa.»
Il ghigno di lei si allargò.
Posso fartela avere, se in cambio mi darai qualcosa.
Nathan cercò di mantenere il controllo sul proprio respiro.
Ho fame.
Dammi da mangiare.
Quando l’ultimo compagno li salutò, lasciandolo solo con un ragazzo che conosceva poco e niente, Nathan si rese conto che era ancora lì perché lei lo desiderava, e che era ancora lì con lui perché lei aveva fame. Guardò il tipo, e lo disse.
«Vuoi vedere una cosa fighissima?»
Il cellulare del ragazzo non squillò e non c’era pericolo che una cosa del genere capitasse - sua sorella era sempre stata attenta ai particolari -, camminavano tranquilli, chiacchierando il giusto. Non era irritante e a Nathan sembrava assolutamente naturale. Entrarono in casa - di sicuro non c’era nessuno perché altrimenti lei non l’avrebbe chiamato -, e lo portò giù in cantina.
Sua sorella era una bambina di otto o sette anni che singhiozzava nell’angolo della gabbia. Il ragazzo sbiancò immediatamente e corse ad aiutarla, gridando qualcosa in direzione di Nathan.
«L’ho trovata stamattina…» si giustificò: «Io non sapevo cosa fare…»
Il ragazzo aprì la gabbia, e mise una mano sulla spalla della non-bambina.
«È gelata! Dobbiamo portarla subito al pronto soccorso!» affermò, voltandosi verso di lui. Poi tornò a guardarla: «Ce la fai a camminare, piccola?»
Nathan chiuse la gabbia senza nemmeno sfiorare la cella. Il ragazzo sobbalzò. Sua sorella, intanto, si era alzata.
Nell’istante in cui la preda si voltò e incontrò quei denti affilati, il viso deformato e gli occhi nerissimi, Nathan cominciò a risalire le scale. Ignorare le urla fu più facile di quanto pensasse.
Nadia si avvicinò guardandolo con un’adorazione che non aveva nulla di umano o reale. Sembrava sconvolta dai suoi stessi sentimenti. Davanti alla scuola lo raggiunse quasi in trance.
«Ti amo.» constatò, sorpresa: «Ti ho sempre amato. Sei tutta la mia vita. Ti prego, ti supplico, dimmi che ricambi.»
Tremava. Nathan si chinò per baciarla leggermente sulle labbra, ma lei non smise di tremare.
I poliziotti cominciarono a farsi vedere in giro quando le sparizioni aumentarono in maniera esponenziale. Ogni tanto Nathan rifletteva sul da farsi, avrebbe voluto prenderne uno da parte e spiegargli proprio tutto. Lasciare sua sorella in mano agli ospiti di casa, farsi trascinare in galera. Sarebbe stato un sollievo.
Ma non era questo che lei desiderava, perciò non aveva importanza.
Gli piaceva fare l’architetto e nascondere tra le costruzioni i simboli e gli incantesimi che aveva studiato; l’idea che sarebbero rimasti per sempre intrappolati in quegli edifici lo divertiva. Distribuiva simboli negativi e positivi senza giudizio, andando un po’ a caso, così da costruire abitazioni destinate alla distruzione e altre con mura inviolabili. Era divertente.
Grazie a sua sorella gli studi erano finiti presto, i soldi guadagnati erano più del necessario e c’era sempre una donna perfetta al suo fianco. Un giorno tutto questo fu semplicemente abbastanza. Lo aveva spiegato alla zia che si sarebbe trasferito, che sarebbe andato a vivere in una casa tutta sua, ma nascose un particolare che le rivelò solo il giorno prima della partenza.
«Mia sorella viene con me.»
La donna fu presa alla sprovvista, e la tazzina di caffè le cadde di mano.
«Oh.» disse inizialmente. Prese fiato: «Grazie. È coraggioso da parte tua. Ma… sei sicuro di volerlo fare?»
Nathan annuì. La zia si avvicinò e lo strinse forte.
«Bambino mio.» piangeva un po’, così Nathan le carezzò la schiena.
Gli ospiti non avevano mentito riguardo l’insofferenza di sua sorella per l’esterno. Dovette portarla a casa di notte, avvolta in una coperta, e prenderla in braccio per portarla giù in cantina.
Era diversa dalla cantina della prima casa, più grande, senza nessuna gabbia, con letto, mobili e persino un bagno. Il demone si accucciò subito sul materasso morbido, senza distogliere lo sguardo dai movimenti di Nathan.
Nathan invitò l’ultima donna che aveva scelto a vivere con lui. Si sposarono qualche mese dopo: lei obbediva sempre e lo amava tantissimo - a Nathan piaceva più di tutte le altre.
Non faceva nessuna domanda e non andava mai in cantina - glielo aveva proibito -, riusciva ad essere divertente, spigliata, il suo sorriso rendeva le brutte giornate un po’ meno brutte. Il suo nome era Erika.
Nel frattempo, sua sorella mangiava bene.
Erika era seduta sul letto con indosso una vestaglia semi-trasparente e un sorriso malizioso e felice. Nathan aveva fatto in tempo a togliersi la camicia, a ridere e avvicinarsi di qualche passo prima che la testa della donna cadesse all’indietro. Nathan si immobilizzò. Quando lei tornò a guardarlo, i suoi occhi erano grandissimi e nerissimi.
«Non dovresti farlo. Lo sai. L’ultima volta che hai posseduto una mia donna è morta di freddo.»
Sua sorella sorrise: «E allora? Ne puoi avere una nuova. Non mi dirai che questa è più importante di me?»
Nathan si irritò: «Niente è più importante di te.»
«Bene.» replicò: «Perché voglio tuo figlio.»
Rimase in silenzio lasciando che comprendesse la frase, assorbendo il suo stupore e il suo terrore.
«Cosa…?»
«Stanotte concepirai un figlio maschio. La notte del suo quindicesimo compleanno lo porterai da me.» ghignò: «Nascerà solo per questo. Sarà un tuo dono.»
Nathan non sapeva come replicare. Lei rise forte, chiuse le palpebre e quando le riaprì i suoi occhi erano di nuovo verdi. Erika lo guardava confusa.
«Amore?»
Lui ci mise un po’ prima di andarle incontro.
Sua moglie era semplice da gestire, ma i figli che gli diede non lo furono affatto.
Nathan si ritrovò con due bambini, un maschio di cinque e una femmina di tre anni. A quella età cominciarono a manifestare i primi disturbi.
Eva si aggirava sempre vicino alla porta della cantina, a volte si sedeva lì, con l’orecchio attaccato al legno, ascoltando qualcosa. Se qualcuno cercava di trascinarla via, si irritava moltissimo, tanto che Erika ci rinunciò la seconda volta. Nathan era l’unico che si intestardiva ad allontanarla.
Ruben, invece, ne restava sempre ben lontano, lanciando occhiate preoccupate in direzione delle scale ogni qualvolta vedeva suo padre scendere. Prima o poi, in barba ai suoi avvertimenti, gli avrebbero disubbidito.
Con loro aveva instaurato un rapporto piuttosto freddo, in particolar modo con Ruben. Non si parlavano un granché, e durante la sua infanzia non era stato quel gran compagno di giochi. Era doloroso stargli accanto, provare tenerezza quando combinava qualche pasticcio o cercava un suo abbraccio. Ad un certo punto pensò di essere impazzito dal dolore.
La notte del suo quindicesimo compleanno, Ruben si era alzato per bere un bicchiere d’acqua perché lei gli aveva fatto venire sete. Nathan si avvicinò e gli posò una mano sulla testa. Il ragazzo sobbalzò.
«Vieni con me, figliolo.»
Ruben obbedì finché non si ritrovarono davanti alla cantina. Il suo “No.” deciso e forte sembrava, alle orecchie di Nathan, un urlo. L’uomo aprì comunque la porta.
«Papà, no.» disse di nuovo, ma questa volta la voce tremava. Emise un gemito, e il suo corpo avanzò di un passo. Lei lo stava trascinando.
«Papà…» sibilò Ruben, mentre delle lacrime scendevano dalle guance. «Aiuto… papà…»
Nathan richiuse la porta quando il ragazzo oltrepassò la soglia, si appoggiò al muro e pianse silenziosamente.
Erika impazzì di dolore, e la sua pazzia la rese difficile da controllare persino per sua sorella. Il mondo aveva dimenticato l’esistenza di Ruben, ma Erika non si lasciò ingannare e continuò a cercare in lungo e in largo il figlio, finendo sull’orlo di una crisi di nervi. Eva si era rintanata in camera sua dalla scomparsa del fratello, e quando ne uscì raccontò tutta la verità alla madre.
In sala, prima di cena, le sentì parlare. Eva aveva una voce calma, disse che Ruben poteva ancora essere salvato.
«MIO FIGLIO!» urlò Erika, quasi saltandogli addosso e tenendo con forza la sua maglietta, quando Nathan entrò. «Perché? Perché hai…» e scoppiò a piangere.
«Papà.» Cominciò Eva, e quella parola lo fece tremare: «Noi andremo a riprenderci Ruben.» Dopo una pausa: «Mio fratello è la cosa più importante che io abbia. Portaci da lei.»
«Eva…» sussurrò: «Come fai a sapere di lei?»
«Sento la sua voce. E ho studiato. Posso affrontarla.»
Nathan annuì stancamente. Le accompagnò in cantina, facendo con loro le scale.
Sua sorella se ne stava sdraiata sul letto, con il corpo maciullato di Ruben di fianco. La sua pelle era completamente rossa, gli zigomi alti e gli occhi neri erano grandissimi, come la bocca, le orecchie erano a punta e il suo corpo era pieno di scaglie. Sia mani che piedi avevano lunghi artigli.
Erika gridò, lanciandosi sul corpo di Ruben, Eva cominciò ad urlare frasi e lanciare boccette di vetro al demone.
Nathan, semplicemente, chiuse gli occhi.
Immobile, seduto sul divano, tratteneva il fiato e lo rilasciava con irregolarità. Non si era mai fermato per guardare sua sorella mangiare, e non l’aveva fatto nemmeno quella volta.
Ancora sporca di sangue, dopo aver finito, si avvicinò e gli si sedette accanto, appoggiando la testa sulla sua spalla.
Ne avrai degli altri. Altre donne e altri figli.
Nathan non rispose. Lei gli sfiorò la fronte, e l’uomo poté percepire il ringiovanimento del proprio corpo. Probabilmente l’aveva riportato all’età di venticinque anni. Aveva sempre detto che lo trovava bellissimo, a quell’epoca.
«E tu li ucciderai sempre.» affermò: «Prima che diventino troppo importanti.»
Prima che diventino più importanti di me.
Nathan si passò una mano sul viso.
«Lo capisco.» si appoggiò con la schiena al divano, e lasciò che lei si accostasse al suo petto. Non si era accorta dei simboli nemmeno quando era giù, troppo intenta a combattere contro Eva, il suo olfatto non percepiva l’odore del gas, ed era troppo stanca per leggergli dentro.
Sei l’unica cosa che amo.
«Sei l’unica cosa che amo.» ripeté Nathan. Schioccò le dita facendo apparire una piccola fiamma.
La casa esplose in un boato.