Stesso bla bla bla di prima.
The long and winding road
Primo capitolo.
We can work it out
[1] Life is very short, and there's no time
For fussing and fighting, my friend
I have always thought that it's a crime
So I will ask you once again
Matilde e Costanza erano sufficientemente agli antipodi per poter essere considerate sorelle a tutti gli effetti. Ci sono due luoghi comuni in merito all’essere sorelle: o sei talmente identica all’altra da renderlo ovvio (scuola di pensiero della zia Anita), o siete del tutto diverse e questo per qualche strano motivo vi rende ancora più sorelle agli occhi degli altri (scuola di pensiero del nonno Antonio).
Nonostante questo tre quarti dei parenti dei Brandi - Ferretti nutrivano da sempre dei profondi dubbi sulla paternità di Matilde. Appellandosi infatti al detto inglese mama’s baby papa’s maybe, e conoscendo il passato di Ludovica Ferretti, si chiedevano in molti da dove spuntassero quei capelli rossi in una famiglia in cui l’unico caso era proprio Matilde.
Per il resto, Matilde era sfacciatamente il calco di sua madre, in atteggiamento e in aspetto fisico. Tra i due coniugi la bellezza era un primato indiscusso di Ludovica, riconosciuto da tutti e in primo luogo, a suo tempo, da Alessio Brandi. Sembrava la copia di Stefania Sandrelli negli anni della sua giovinezza, con un fisico longilineo e tuttavia pericolosamente femminile, gli occhi da cerbiatta stranamente indifesi al contrario del sorriso malizioso ad incresparle le labbra.
Matilde aveva indubbiamente ereditato i geni di sua madre, le sue gambe sottili, gli occhi grandi e verdi, le labbra atteggiate in una posa imbronciata o a tratti solcate da un sorriso sfuggente ed invitante. Vittima di un’inquietudine che non aveva mai trovato spiegazione, era quella a cui sarebbe andato stretto disubbidire alle regole se fosse stato un dovere farlo; croce e delizia di un padre che amava in lei tutto ciò che aveva amato in sua madre, e si crucciava della freddezza con cui la figlia si sottraeva ad ogni attenzione che lui cercava di rivolgerle. Il guaio è che, per qualche strano meccanismo dell’anima umana, puoi smettere di amare tua moglie da un giorno all’altro ma non rinuncerai mai ad amare tua figlia.
A lenire le ferite delle pugnalate che Matilde gli lanciava in pieno petto, disattendendo ogni sua aspettativa con una inquietante naturalezza o con la peggiore delle soddisfazioni, c’era sua sorella Costanza.
Costanza non aveva la bellezza irrequieta di Matilde, ma le fattezze delicate e rasserenanti di una bambola di coccio. Il muro dell’ufficio di Alessio Brandi era tappezzato dalle foto di entrambe ma in maggior numero spiccava il viso di Costanza, che tra le due era l’unica a ritenere accettabile il pensiero di sorridere in una fotografia. Con i capelli castani a scenderle con dolcezza sulle spalle, le labbra sottili e un naso quasi francese, aveva ereditato gli occhi profondi del padre e il colore di quelli di sua madre e sua sorella, ciononostante portava in giro quelle fattezze apparentemente al limite della perfezione con un’aria vagamente naif. Da quando era piccola suo padre era solito prenderla in giro, la chiamava Costanza d’Altavilla, perché trovava buffo quel modo di camminare con la testa in su e le spalle dritte, con una fierezza particolare, e una compiacenza di sé che in un primo momento lo avevano fatto preoccupare. Con il tempo si era evoluta in ambizione, e Alessio aveva potuto mettere il cuore in pace, e coltivare in segreto il pensiero di lasciare un posto a Costanza, una volta che avrebbe ceduto la propria attività lavorativa.
Quel che trovava tristemente ironico era la scelta di sua moglie al momento di scegliere i nomi per le loro bambine.
Come molte altre cose, forse troppe, della loro vita coniugale, Alessio aveva lasciato carta bianca a sua moglie in quanto a potere decisionale, e Ludovica aveva scelto due nomi importanti, di cui andare orgogliosi ma non facili da portare, e soprattutto, aveva scelto due nomi curiosamente forti
[2], in netto contrasto con la volubilità e la debolezza emotiva della loro genitrice.
Matilde e Costanza erano molto diverse tra loro e molto diverse da loro madre forse, ma per somma disgrazia dei loro genitori, erano accomunate da una mente astuta e machiavellica di prima categoria.
°°°
La mattina dopo il pessimo umore di Matilde fu tutt’altro che una sensazione, per tutto il resto della famiglia. Costanza si era alzata presto, più che altro perché non aveva dormito più di due ore in tutto, e aveva deciso di fare colazione in terrazzo, sperando di non essere trovata.
Invece aveva sentito i passi attutiti di Matilde, che a piedi scalzi e con un’aria arruffata l’aveva raggiunta mugugnando qualcosa sul fatto che il caffè in quella casa durasse sempre troppo poco. Sua sorella si vide bene dal farle notare che l’unica a consumarlo era lei, e occasionalmente sua madre per mandare giù meglio la pasticca del giorno, e che questo riduceva a quota uno il numero di caffeinomani in famiglia.
«E’ finito il caffè»
«Il tuo bistrattato stomaco sente già gli spasmi dell’astinenza?» domandò con sarcastico candore la minore, sorseggiando con tutta calma il suo succo di frutta. Matilde non trovò niente da dire in sua discolpa.
«Fred e Ginger si sono fatti vivi?» domandò scostando il vaso di fiori nell’angolo a sinistra e recuperando il proprio pacchetto di sigarette. L’odore acre della sigaretta contaminò il buongiorno di Costanza, mentre annunciava che loro madre aveva fatto una fugace apparizione verso le otto, giusto per annunciare che aveva da fare e avrebbe finto di non avere una famiglia per tutto il giorno.
«Buongiorno bambine» tuonò invece la voce di Fred dal salone. Con un allenato scatto di reni Matilde si tirò su lanciando di sotto la sigaretta e agitando un po’ le mani, stile naufrago in mezzo al Pacifico, per scacciare l’alone di fumo. Patetico pensò sua sorella, che era perfettamente conscia della scarsa attenzione prestata dal padre verso tutto ciò che non fosse l’articolo di economia del giorno. La riprova era che fosse ancora convinto che le sue figlie avessero sette e nove anni.
«Ciao papà» mormorò con un sorriso distratto, di una tenerezza sbiadita e abitudinaria. Alessio Brandi fece il suo ingresso in terrazzo, vestito di tutto punto per andare in ufficio, con il giornale in mano e una tazza di tè freddo nell’altra, e un sorriso remoto che non gli raggiungeva gli occhi.
Matilde sollevò lo sguardo verso di lui, approntando un’espressione di saluto subito distolta, per occuparsi dello stato delle proprie unghie.
«Ho sentito sbattere una porta, ieri notte» annunciò fintamente cogitabondo lui, guardando di sottecchi la figlia maggiore. «Sì, abbiamo avuto una piccola discussione» minimizzò ironica Costanza, sentendosi a proprio agio nel mentire a suo padre. Sapeva che lui non stava ascoltando, quindi il senso di colpa la raggiungeva con considerevole ritardo, ammesso che sopraggiungesse.
«Certo, certo» rispose lui finendo il suo tè e aprendo il giornale con fare pratico.
Come volevasi dimostrare, Alessio Brandi aveva tranquillamente ignorato la risposta alla scarsamente interessata domanda che aveva posto. Costanza non aveva alcun tipo di problema con suo padre proprio perché le loro tendenze, una a mentire con la faccia più sincera di questo mondo, e l’altro a porgere domande solo per il dovere imposto dall’etichetta familiare senza voler sapere le risposte, combaciavano perfettamente. Le conversazioni tra loro si sarebbero potute prolungare per ore, toccando qualsivoglia argomento, non sarebbe cambiato poi molto. Avrebbero continuato a parlare di tutto senza dirsi niente.
Questo era perfetto per Matilde, che insofferente come era trovava piuttosto seccante doversi impegnare nel cercare una buona bugia da proporre ogni volta, e come in quel caso lasciava fare tutto a Costanza.
«Quand’è che tu e mamma partite per il lago, alla fine?» domandò invece molto interessata. Dovette ripetere la domanda due volte, perché suo padre stava scrutando l’indice Mibtel.
«Credo questo Sabato, a meno che vostra madre non si faccia cogliere dall’ennesimo attacco di umor nero».
Costanza e Matilde si scambiarono un’occhiata preoccupata, consapevoli che non fosse una possibilità troppo remota.
«Cerca di farla rilassare un po’, papà» esordì in tono conciliatorio la minore, addolcendo il tono di voce sull’ultima parola. Suo padre annuì distrattamente con un sospiro.
«Cambiare aria le farà bene, potreste trattenervi fino a martedì pomeriggio, come facevate sempre prima» la assecondò Matilde, fingendo noncuranza e onestà d’intenti. Solo allora suo padre alzò gli occhi dal giornale per puntarli sul profilo di sua figlia, ancora impegnata a controllare lo stato delle sue unghie. «Le cose non sono più come prima da un bel po’ di tempo, Matilde».
Lei sbuffò sarcastica, schioccando le labbra e scambiandosi l’ennesima occhiata con sua sorella. «Da quando ti ha rimpiazzato con lo Xanax, intendi?» domandò intenzionalmente tagliente, puntando gli occhi verdi in quelli nocciola del genitore. Suo padre non sembrò affatto ferito, e finì con il darle tacitamente ragione senza troppe remore.
«Devo andare in ufficio» annunciò qualche secondo dopo, destandosi dal torpore e chiudendo il giornale. «Ci vediamo per cena, bambine».
Matilde finse di non averlo sentito per risparmiarsi un conato di prima mattina.
«Mi serve casa libera questo fine settimana» mormorò pensierosa qualche secondo dopo, una volta che la porta di casa venne chiusa alle spalle del padre. Costanza la guardò con un sorriso sulle labbra sottili, non avendo bisogno di risposte.
«E’ da tanto che non facciamo un festino qui» la assecondò chiudendo gli occhi e stiracchiandosi sulla sedia. La mattina presto era ancora possibile fuggire dall’afa che sarebbe calata su tutti loro di lì a poco.
«Già. L’ultima volta è stato quando ho conosciuto Lorenzo».
Costanza accentuò il sorriso sornione.
«Sapevo che lo avresti detto».
°°°
Try to see it my way
Only time will tell if I am right or I am wrong
While you see it your way
There's a chance that we may fall apart before too long
We can work it out
Tre giorni più tardi, in una banalissima mattina, Lorenzo sdraiato sul prato di Villa Ada aveva come unica certezza quella di voler essere sedato.
Era uscito di casa dopo essersi svegliato, a quelli che sua madre definiva orari principeschi, lasciando ad intendere che loro non erano affatto di stirpe reale e che quindi sarebbe stato più appropriato alzarsi prima, quando il sole sta per sorgere e non per tramontare. La scusa che aveva propinato a sua madre per uscire pur non avendo minimamente messo il naso tra le pagine del libro era stata nulla.
“Dove stai andando?”
“Fuori”
“A fare che?”
“Cose”
E poi aveva chiuso la porta alle proprie spalle, riparandosi dai rumori del traffico estivo di Roma con le cuffie del suo lettore mp3. La verità era che quelle quattro mura in cui viveva lo soffocavano e gli mettevano l’angoscia, ma adesso, steso sull’erba, con gli occhi chiusi e il sole in faccia, se avesse affacciato lo sguardo su quello che aveva intorno, avrebbe scoperto che anche la vastità dell’esterno in realtà gli metteva ansia e lo soffocava in modo diverso. Per questo era convinto che non gli sarebbe dispiaciuto affatto essere sedato, in perfetto stile Ramones
[3], e chi s’è visto s’è visto o si rivedrà più tardi.
E sedato non per ventiquattro ore, che era un tempo minimo e ridicolo, ma per qualcosa come un mese, o forse un anno. Almeno risvegliandosi avrebbe avuto un sacco di novità intorno e avrebbe perso tempo (o forse lo avrebbe impiegato) a distinguerle tutte e a stupirsi di ognuna.
«Oh, Ashkenazy»
[4].
Lorenzo sollevò pigramente lo sguardo, compiendo il grande sforzo di aprire gli occhi mentre la stazza imponente dell’amico di bagordi gli oscurava il sole. Due metri di altezza e otto anni di arti marziali facevano di Raffaele detto Strummer un buon amico.
«Oh» replicò piuttosto atono l’altro, facendogli cenno di sedersi e di preparare un filtro per la “sigaretta”. Strummer non se lo fece ripetere due volte, e si mise alacremente all’opera sacrificando la tessera dell’autobus del mese corrente, compiendo il tutto con un certo automatismo ormai.
Doveva quell’appellativo alla sua totale incapacità nell’impugnare una chitarra dispetto di quanto chiunque si sarebbe potuto aspettare da lui sentendolo chiamare come il punto focale dei Clash. A ben pensarci il primo a coniare quella perla di sarcastica ironia era stato proprio Lorenzo, che veniva chiamato Ashkenazy un po’ per gioco e un po’ perché tutto sommato lui con il pianoforte ci sapeva fare davvero.
Raffaele non se la prese mai per quella storia, perché percepiva che il nomignolo gli era stato appioppato con un certo affetto: prima di tutto perché sapeva che Lorenzo aveva tutta la discografia dei Clash impilata sotto l’abat-jour (prendere un disco e inserirlo nello stereo in effetti era un’opera di delicata movenza architettonica ogni volta) e poi perché nonostante la sua incapacità Lorenzo aveva lottato per tenerlo nel gruppo, quando ancora ne avevano uno.
Aveva blaterato che neanche Sid Vicious e i Sex Pistols erano veri musicisti però sul palco ci sapevano stare, che con il tempo avrebbe preso dimestichezza con lo strumento e le sue funzionalità, che i Ramones avevano fatto la storia senza studiare al conservatorio, che cazzo si stava parlando di punk no? Ma poi a metà discorso aveva lasciato perdere, perché gli altri non erano affatto convinti e perché il meno convinto di tutti era lui stesso. Raffaele era uscito dal gruppo senza rancore e si era proposto come loro manager. Due settimane dopo il gruppo si era sciolto.
«Stasera?» chiese a Lorenzo porgendogli il filtro.
Quello mugugnò qualcosa a mezza voce, ma niente di definito.
«Eh?»
«Boh, mi diceva Matilde che forse i suoi partono».
Sputò infine di malavoglia e usando un tono sospettosamente vago. Raffaele si lanciò di schiena sul prato, le mani dietro la testa e l’aria di chi già non ne può più prima ancora che qualsiasi cosa fosse ancora cominciata.
«Festino?» chiese conoscendo la risposta.
«Pare di sì. Ci andiamo?» gli chiese Lorenzo, accendendo la canna e restando seduto, fissando torvo un punto imprecisato davanti a sé.
«Non lo so, ci andiamo?» gli rigirò la domanda Strummer, consapevole che con Matilde bisognava andarci cauti, perché il confine tra il paradiso dei sensi e l’inferno delle rotture di palle era pericolosamente sottile e Lorenzo aveva una capacità innata di varcarla accorgendosene sempre troppo tardi.
«Ieri sera ci siamo visti, non lo so».
«Vediamo» lo assecondò Strummer, facendo un tiro a sua volta.
Lorenzo annuì e poi non disse più niente in merito. Non gli andava di rivangare la disastrosa serata appena trascorsa.
°°°
Try to see it my way
Do I have to keep on talking till I can't go on?
While you see it your way
Run the risk of knowing that our love may soon be gone
We can work it out
Quando Matilde lo aveva chiamato aveva capito subito che non avrebbe dovuto accettare, perché avrebbe cercato in tutti i modi di parlare di loro. Però con Matilde le cose andavano sempre così, nel modo in cui voleva lei. Quindi alla fine non aveva perso tempo a cercare scuse e aveva acconsentito ad uscire insieme, a mangiare un boccone e bere qualcosa a San Lorenzo. Una cosa tranquilla, molto informale, dove lui avrebbe potuto facilmente evadere alle sue domande senza doverle spiegare che non si sentiva un suo ex. Semplicemente avevano provato a tirare su qualcosa ma alla fine il tentativo era andato male e fine dei giochi, sessuali e non.
Il problema era che Matilde era incredibilmente bella. Di quella bellezza particolare, un po’ forastica, che sai di non poter plasmare perché è perfetta così come è, irraggiungibile a suo modo. Quando finivano a letto insieme e lui le mordeva le labbra, o se la stringeva addosso e le permetteva di fare qualsiasi cosa avesse voluto con il suo corpo, in realtà sentiva di non avere niente per le mani. Sfuggiva al suo contatto, ed era perfetto così. Era un continuo rincorrersi e quando lei decideva che la corsa era finita, e si lasciava finalmente prendere, era il momento finale (non migliore, perché in tutta onestà Lorenzo poteva dire che nel fare sesso con Matilde tutto era bello, ogni parte, ogni gesto e ogni sguardo, tutte le intenzioni e tutte le realizzazioni di quelle intenzioni) e appagante, e dopo lui si sentiva incredibilmente bene.
Ma poi succedeva che lei gli desse appuntamento davanti ad un ristorante alla Matilde, che gli facesse domande scomode e avesse delle aspettative da parte sua e questo rovinava tutto, perché Lorenzo dalle obbligazioni affettive si sentiva un po’ soffocare.
Quindi la sera prima era passato a prenderla, in macchina, perché era riuscito a racimolare cinque euro per la benzina per puro miracolo e a riservarne due per la birra che avrebbe preso al pub occupato in fondo al vicolo, secondo i suoi progetti. Matilde era uscita dal portone con un vestito che non le aveva mai visto addosso, un po’ lezioso, ma lei sapeva portarlo e naturalmente aveva avvertito la solita morsa letale, che gli faceva venire voglia di baciarla fino allo sfinimento, senza tuttavia doverla spogliare per forza. Non era un animale e Matilde non era una preda qualunque. Matilde valeva e lui ci teneva davvero a lei. In un modo tutto suo, forse diverso da quello che lei avrebbe voluto, ma per quello non poteva farci molto. Lei viveva in quel palazzo e lui viveva a Villa Ada d’altra parte, l’angolazione e la prospettiva da cui guardare il mondo e con cui esprimersi al riguardo era inevitabilmente diversa.
Insomma, aveva sbuffato davanti a quel ristorante e le aveva detto che era la solita, che assecondare i suoi capricci era piacevole solo quando i capricci avevano una certa natura, che non aveva il becco di un quattrino e che quel posto gli faceva venire un’ansia incredibile e gli toglieva qualsiasi velleità comunicativa, giacché dal momento in cui sarebbero entrati ci sarebbe stato qualcuno in livrea che avrebbe parlato per loro.
“Le scosto la sedia, signore” avrebbe detto e lui la prima volta aveva pensato che non voleva ancora sedersi, voleva fumarsi una sigaretta sul patio, è concesso? E via di seguito con situazioni analoghe per tutta la serata. Ovviamente appena usciti quella volta, lui e Matilde avevano finito con il litigare, e niente dessert in tutti i sensi. Ma allora stavano ancora insieme, adesso invece era scontato che avrebbero discusso, anzi probabilmente si erano visti proprio per quello, per litigare parlando di due cose completamente diverse, quindi non c’era alcuna aspettativa che sarebbe stata delusa.
«Lorenzo, che palle. Per una sera puoi entrarci, no?» aveva replicato Matilde ai suoi rimbrotti e senza aspettare risposta - come il cameriere in livrea che già gli stava tendendo un agguato - lo aveva preso per un braccio trascinandolo nel ristorante.
La cena era stata buona almeno. Abituato a mangiare tranci di pizza o a scongelare cibi precotti quando era a pranzo a casa, non aveva di che lamentarsi. Poi naturalmente, lei lo aveva guardato, con quegli occhi grandi e belli, e lui aveva capito che ogni piacevolezza era finita.
«Immagino che devo iniziare io, giusto?».
«Tu mi hai chiesto di vederci».
«Perché tu non ti sei più fatto sentire».
«Capita quando due smettono di vedersi».
La piega sottile delle sue labbra si era contratta e Matilde aveva preso un sorso di vino dal bicchiere. Lorenzo si era distratto a guardarle la bocca, pensando che per qualche strana ragione il vino in quel posto non permetteva di ubriacarsi. Era sempre terribilmente sobrio anche se finivano con il consumare due bottiglie. Forse perché era inibito dal cameriere in livrea.
«Mi dispiace che abbiamo smesso di vederci» confessò lei, rimettendo il bicchiere al suo posto e puntandogli gli occhi addosso. Lorenzo si sentì schiacciato e lusingato allo stesso tempo ma evitò di cadere nella trappola. Quell’aria così sincera, innocente, quel dispiacere così sentito, il modo in cui lei lo aveva guardato: al momento giusto, con la lentezza giusta. Tutto calcolato per metterlo con le spalle al muro e farlo sentire stordito. Conosceva Matilde, non lasciava mai niente al caso. Mai.
Aveva fatto in modo di conoscerlo, fingendo di incontrarlo, la prima volta.
Aveva ottenuto l’invito al prossimo (e ultimo, ma allora nessuno di loro lo sapeva) concerto del suo gruppo con la stessa tattica: lei aveva guidato le sue mosse facendogli credere che il tutto fosse stata una propria iniziativa.
L’unica cosa che avevano deciso di comune accordo e per cui Lorenzo era stato certo di avere voce in capitolo, era stata finire a letto insieme dopo un’ora.
«Sì ma negli ultimi tempi non ci piaceva neanche più vederci» le ricordò certo di non doverglielo ricordare affatto. Litigare anche ogni ora aveva un senso finché poi ad ogni ora si faceva pace. Ma lui non concepiva l’idea di restare offesi nei confronti dell’altro per giorni interi e di doverla chiamare per cercare di rimediare all’incomprensione. Lei invece lo concepiva eccome, anzi lo pretendeva, e quindi al litigio in sé si aggiungeva questo ed entravano in un circolo vizioso estenuante e dispendioso.
«Avremmo dovuto ragionarci un po’ su».
Lorenzo le diede ragione ma non lo disse. Abbassò lo sguardo e si perse in strani pensieri spiraliformi e arzigogolati riguardo alla scarsa voglia che aveva di parlare dei loro problemi, nonostante sapesse che se lo avesse fatto forse qualcosa si sarebbe risolto.
Sentiva di non avere la forza di mettersi in discussione, di cercare un compromesso, di fare un passo avanti o uno indietro, di mettere le mani in pasta. Matilde era sempre frenetica, intenta a fare mille cose tutte insieme pensandone altre cento, si riempiva di cose e di persone intorno, aveva sempre nuove energie da impiegare in qualche modo.
Lorenzo invece aveva l’impressione di essere intrappolato tra i suoi pensieri e i suoi desideri, tra le soddisfazioni che voleva avere ma l’impossibilità (che dipendeva però solo da lui) di agire per ottenerle nel concreto. Anche la storia con Matilde: gli piaceva come persona e a letto beh, non c’era neanche da dirlo, ma avrebbero dovuto lavorare su quel loro rapporto, spenderci forze e prendersi bastonate, perché inevitabilmente con una come lei e con uno come lui le cose non sarebbero mai state facili. Era complicato. E lui si sentiva molto stanco, pur non avendo fatto quasi niente.
«Torniamo a casa?» domandò invece, guardandola con aria esausta.
Matilde avrebbe voluto prenderlo a schiaffi, glielo leggeva negli occhi e percepiva le sue mani fremere, strette intorno al tovagliolo. Lui avrebbe voluto accarezzarle la mano, e baciarla, chiederle scusa per l’indolenza con cui affrontava la vita, spiegarle cosa avrebbe voluto e cosa non riusciva a fare, darle motivazioni serie. Avrebbe voluto andare d’accordo con lei.
Avrebbe voluto essere già al livello successivo, aver lottato e raggiunto l’obiettivo.
«Penso di odiarti, Lorenzo. Non so perché insisto tanto, in realtà sei uno stronzo».
«Lo so».
«E non darmi ragione».
«No».
A quel punto lei gli aveva lanciato il fazzoletto addosso e lui si era messo a ridere.
«Riportami a casa».
Aveva detto, senza guardarlo e alzandosi di scatto. Il cameriere in livrea li aveva guardati con disappunto, non avendo fatto in tempo ad anticipare le loro mosse e scostare la sedia. Per pura beffa, Lorenzo si recò di persona a prendere la giacca di Matilde e gliela adagiò sulle spalle, lanciando uno sguardo di sfida con il cameriere. Ricavò la promessa di una vendetta da lui e uno strattone da parte di Matilde.
«Che fai adesso, il ragazzo gentile e premuroso?»
Lorenzo portò le mani in tasca ed uscì dal ristorante, con un sospiro a metà sollevato e a metà accorato. Quella situazione non gli piaceva, e sapeva di aver rovinato la serata, se possibile ancora più del previsto.
«Senti Matilde, mi dispiace, va bene?»
«No, non va bene. Adesso che facciamo? Mi riporti a casa, mi metti le mani sotto il vestito, ci baciamo e poi non ci sentiamo più per altre settimane intere?».
Era furiosa.
«Ma tu da me che vuoi?»
Le aveva chiesto un po’ esasperato e un po’ sinceramente curioso. Se lei avesse reso evidenti le mosse che avrebbe voluto Lorenzo compiesse, forse qualche volta avrebbe potuto darle retta.
«Lasciamo perdere. Andiamo a casa, davvero».
«Non lo sai».
Matilde aveva continuato a passo di marcia verso la macchina.
«Non sono solo io che non so le cose, non le sai neanche tu, sei solo più loquace di me».
«Fammi un favore, almeno sta zitto».
Si era fermata vicino allo sportello, cercando una sigaretta nella borsa. Lorenzo ne aveva estratta una dalla tasca e un po’ timidamente gliela aveva offerta.
«Però è così. Alla fine ti piaccio anche perché sono fatto in questo modo. Lo sapevi quando ci siamo conosciuti, che ero così e non come volevi tu. Allora che ci sei uscita a fare con me?».
Le chiese aprendo lo sportello e sedendosi in macchina. Matilde non lo guardò perforante come suo solito questa volta, ma anzi, abbassò lo sguardo, mordendo il filtro della sigaretta e alla fine, con voce flebile disse «Non lo so» un po’ vergognandosi e un po’ sentendosi sollevata, perché a suo modo anche quella era una risposta e perché a loro modo stavano parlando della cosa.
«Ok, non lo sappiamo».
E poi l’aveva riportata a casa. Lo aveva fatto fermare all’angolo, perché suo padre non la vedesse tornare così tardi ed era uscita senza salutarlo in altro modo. Lui aveva aspettato di vederla girare, con una strana sensazione. Era come se si fossero detti qualcosa, come se quella volta avesse qualcosa di definitivo, come se si fossero ufficialmente lasciati. Si erano lasciati dicendosi non lo so. Non poté fare a meno di pensare che c’era stato un motivo se si erano piaciuti, tutto sommato.
°°°
Think of what you're saying
You can get it wrong and still you think that it's alright
Think of what I'm saying
We can work it out and get it straight, or say good night
We can work it out
[We can work it out - Beatles]
Raffaele fece l’ultimo tiro di canna nell’esatto momento in cui arrivarono in coppia Lazo e Federico. Lo guardarono con amarezza prendendo atto di non aver avuto tempismo e si sedettero accanto a lui e Lorenzo. Federico tirò fuori la materia prima per rimediare al danno e girare un’altra canna.
«Stasera che facciamo?» chiese Lazo agli altri due.
Raffaele alzò le spalle.
«Non abbiamo-»
«Andiamo a un festino» disse invece Lorenzo e Raffaele non si sentì di contraddirlo.
[1] The Beatles, We can work it out,
http://www.youtube.com/watch?v=59NNupminV8 [2] Matilde: dal germanico à “che combatte con forza”; Costanza: dal latino à “costante, tenace”
.
Prologo was here:
galway-girl3.livejournal.com/26640.html#_ftn1