La Notte Più Lunga

Feb 08, 2010 01:35

Fandom: Sherlock Holmes;
Pairing: Holmes/Watson;
Rating: NC17;
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico.
Warning: Missing Moment, Slash, Sesso descrittivo;
Beta: Narcissa63;
Summary: Quella, fu la notte più lunga della mia vita. La pendola oscillava, scandendo ritmicamente il tempo e, ad ogni minuto, io invecchiavo d’un anno; mi sentivo avvizzire, come un fiore che vede allontanarsi per sempre la propria luce.
(Scritta per l’iniziativa Acchiappa la Citazione! di holmes_ita).
Note: La prima parte di questa fic racconta gli ultimi eventi di “L’avventura dei tre Garrideb” dal punto di vista di Holmes ed i dialoghi in corsivo sono tratti proprio da questo racconto. Il resto, invece, è un Missing Moment ed è tutta farina del mio sacco.

DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle saga di Sherlock Holmes non sono opera mia, bensì della mirabile penna di Sir Arthur Conan Doyle. Dato, però, che i diritti d’autore sono ormai scaduti, stappiamo tutti insieme lo spumante ed appropriamocene beatamente! XD Ah, ovviamente non mi paga nessuno, anche perché altrimenti il succitato autore si rivolterebbe nella tomba, poverello.





La Notte più Lunga

Si vive per anni accanto a un essere umano, senza vederlo.
Un giorno ecco che uno alza gli occhi e lo vede.
In un attimo non si sa perché, non si sa come, qualcosa si rompe: una diga tra due acque.
E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano*

Le tenebre nella casa del nostro cliente, in Ryder Street, ci accolsero come amiche fidate. Notammo una credenza in un angolo, leggermente discosta dal muro, e ci nascondemmo dietro di essa, in attesa della nostra preda. Passò un tempo indefinito, poi sentimmo lo scatto della serratura e la porta si aprì, lasciando entrare Evans il killer.
Questi spostò il tavolo centrale, poi scostò un tappeto consunto e, con l’aiuto di un grimaldello, divelse alcune assi del pavimento, rivelando uno spazio vuoto nascosto sotto di esse, in cui si calò.
Quello era il momento giusto per uscire allo scoperto. Toccai il polso di Watson per avvertirlo, percependo i tendini tesi ed il battito cardiaco accelerato, poi uscimmo dal nostro rifugio con le pistole spianate, avvicinandoci silenziosamente alla botola. Le vecchie assi, però, dovevano aver scricchiolato sotto il nostro peso, perché l’assassino sbucò nuovamente fuori e, vedendosi braccato, riemerse dalla stanza sotterranea.
«Bene, bene» cantilenò nel mentre «Vedo che è stato più furbo di me, signor Holmes. Aveva scoperto il mio gioco, immagino, e mi ha preso in giro fin dal principio. Be’, signore, gliene do atto, mia ha battuto e…» all’improvviso, veloce come un fulmine, estrasse una rivoltella e sparò due colpi. Il primo si diresse verso il mio amico ed il secondo verso di me che però, nonostante la rapidità di quell’infido criminale, ebbi il tempo di schivarlo.
Come spesso accade nei momenti d’azione, fu il puro istinto a guidarmi ed a permettermi, con uno scatto repentino, di tramortirlo colpendolo con il calcio della pistola, per poi perquisirlo e disarmarlo. Stupito dal fatto che Watson non fosse corso in mio aiuto, mi voltai nella sua direzione con un crescente senso d’orrore, e lo vidi stringersi con forza la gamba sinistra, col volto pallido e distorto dal dolore. Mi sentii gelare… in un attimo lo raggiunsi e lo sostenni, finché non si fu accomodato sulla sedia più vicina.
«E’ ferito, Watson? Per amor di Dio, mi dica che non è ferito!» esclamai, udendo la mia voce come se mi fosse estranea e, con la vista annebbiata, scorsi il suo viso stupito. Strinsi con forza le labbra, che sentivo tremare. Era stata colpa mia, solo colpa mia, avevo sbagliato i calcoli ed a pagare era stato il dottore. Sapevo quanto fosse pericoloso quell’uomo e non avrei dovuto permettere al mio amico di seguirmi, anche a costo di ferire il suo orgoglio.
«Non è nulla, Holmes, non è che un graffio» mi rassicurò lui, ma lo ascoltai solo vagamente.
Nel frattempo avevo già estratto un temperino e stavo lacerando la stoffa imbrattata di sangue dei suoi bei pantaloni. Il sollievo si espanse nel mio petto, quando mi resi conto che era effettivamente così: «Ha ragione» sospirai, riprendendo a respirare «E’ molto superficiale».
Solo allora mi ricordai del killer che giaceva ancora a terra e che, con un rantolo, stava riprendendo conoscienza. Strinsi le dita attorno al coltello, mentre la rabbia scorreva rovente nelle mie vene come acido corrosivo. Come aveva osato, quel bastardo, ferire il mio Watson?
«Giuro il cielo che l’è andata bene, signore. Se avesse ucciso Watson non sarebbe uscito vivo da questa stanza. E ora, sentiamo, cos’ha da dire a sua discolpa?» avrei voluto ammazzarlo a mani nude, e sarei andato felicemente in galera.
Si rifiutò di parlare, così, tenendo il dottore stretto a me, ci chinammo entrambi a guardare dentro il buco nell’impiantito, scorgendo una stampatrice di banconote ed altro materiale da falsario. Tutto ci fu subito chiaro ed il furfante stesso ci confessò la propria storia. Poi ci invitò a prendere le banconote false, rimaste dentro la botola, ed a restituirgli in cambio la libertà; ma io gli risi in faccia. Non siamo certo uomini che scendano a patti con volgari criminali e, dopo quello che aveva fatto al mio amico, ero fermamente deciso ad assicurarlo alla giustizia.
Quindi, mentre tenevo d’occhio Evans il killer, Watson telefonò a Scotland Yard, dove l’ispettore Lestrade era in attesa della nostra chiamata.
Una volta che tutto fu concluso e ci ritrovammo finalmente in carrozza, mi tolsi la giacca e, con uno strattone, strappai la manica della mia camicia, per poi riprendere in mano il temperino e farne delle bende.
«Holmes!» esclamò il mio compagno inorridito, ma non gli badai e mi accinsi a fasciargli la coscia.
«La porto da un dottore» affermai in un tono che non ammetteva repliche, ma il mio collega mi contraddisse  con la pacatezza che gli era intrinseca.
«Non ve n’è alcun bisogno, posso ricucire io stesso la ferita» asserì fieramente.
«Riuscirebbe a farlo, malgrado si tratti della sua gamba?» domandai dubbioso.
«Non sarebbe la prima volta» rispose con semplicità e lo ammirai ancora di più per questo.
Il mio intrepido, incrollabile Watson.
«Non è necessario, mio caro. Non ci troviamo nelle trincee di Maiwand, ma nella civilizzata Londra e può senz’altro occuparsene un suo collega» replicai tuttavia e lui, nonostante apparisse molto seccato, non ribatté, ben cosciente che nulla avrebbe potuto convincermi a fare diversamente.
Mezz’ora dopo rientrammo a Baker Street e, cingendogli i fianchi per sostenerlo, lo aiutai a salire le scale che conducevano al nostro appartamento.
«Tutto questo è davvero… troppo» sibilò corrucciato, quando infine lo accompagnai in camera e lo feci stendere sul letto.
«Una volta mi disse che i malati sono come i bambini, ricorda? Be’, ho intenzione di trattarla come tale e non darò ascolto nemmeno ad una delle sue proteste, vecchio mio»
«Ma io non sono malato. Buon Dio, Holmes, è solo una ferita superficiale!» sbottò indignato.
«Per la quale il medico le ha prescritto un totale riposo per due settimane» gli ricordai sfilandogli le scarpe ed accingendomi, poi, a slacciargli i pantaloni.
«Holmes, per favore» m’interruppe, afferrando le mie mani «posso fare da solo» concluse al culmine dell’imbarazzo e finalmente mi fermai, rendendomi conto che forse - e solo forse - stavo esagerando. Doveva avere un bel da fare con me, il mio buon dottore, quando ero io il paziente.
La sua presa era decisa, calda - viva - ed una volta di più mi resi conto che, meno di un’ora prima, avevo rischiato di perdere tutto quello.
Sapevo perché il mio coinquilino avesse tanto insistito per curarsi da sé: non voleva che sapessi per quanto tempo avrebbe dovuto stare fermo. Watson detestava l’inattività fisica, almeno quanto io odiavo quella mentale. Era un uomo abitudinario e metodico, le consuetudini gli davano sicurezza, ed una di quelle era proprio fare una passeggiata subito dopo colazione ed un’altra prima di cena, quando il tempo lo permetteva; per dare retta alle prescrizioni del medico, avrebbe dovuto rinunciarvi per almeno una dozzina di giorni. Era un uomo d’azione e, se mi fosse capitata tra le mani qualche indagine rischiosa, non avrebbe potuto aiutarmi. Tutto questo lo faceva soffrire, ne ero cosciente, ma non gli avrei assolutamente permesso di fare sforzi.
Una settimana dopo il ferimento del dottore, mi venne affidato un caso ancora più pericoloso di quello che avevamo appena risolto, e tutto cambiò.

Dal taccuino del Sig. Sherlock Holmes.

*°*°*°*°*

Capitava raramente che, nella mia amicizia con Sherlock Holmes, io prendessi delle posizioni irremovibili, ma quando seppi che intendeva affrontare da solo un serial killer - un altro! -, andai su tutte le furie. Non avevo intenzione di lasciarlo andare via senza di me, ma ero ancora convalescente a causa della lesione riportata durante l’avventura da me intitolata “I tre Garrideb”.
Era una situazione che mi umiliava e, sapendo quanto Holmes s’incolpasse per quell’incidente, mi sentivo ancor più frustrato. Era stata una mia libera scelta seguirlo in quell’occasione, lui mi aveva avvertito del pericolo, tuttavia ero armato e pronto ad affrontare ciò che ci aspettava; Holmes non c’entrava in alcun modo, ma sembrava non volerlo capire!
Per la prima volta, in tanti anni, litigammo furiosamente, ed infine dichiarai che non gli avrei assolutamente permesso di uscire da solo.
«E come crede di potermelo impedire, Watson?» mi schernì e, ancor prima di rendermene conto, mi  scagliai contro di lui. Holmes, però, da esperto pugile qual’era, evitò abilmente il mio pugno e con uno sgambetto mi rovesciò sulla poltrona. Subito dopo m’immobilizzò le mani e, infilandomi un ginocchio tra le gambe, sussurrò ad un soffio dal mio viso: «Non sono uno sprovveduto, mio caro, e giuro il cielo che, qualunque cosa accada, tornerò a casa» poi premette con decisione le labbra sulle mie e, un momento dopo, la porta si chiuse alle sue spalle.
Quella, fu la notte più lunga della mia vita. La pendola oscillava, scandendo ritmicamente il tempo e, ad ogni minuto, io invecchiavo d’un anno; mi sentivo avvizzire, come un fiore che veda allontanarsi per sempre la luce del sole.
Infine, molto dopo la mezzanotte, sentii lo scricchiolio di passi che risalivano le scale. Trattenni il fiato e, quando l’uscio si aprì, balzai in piedi.
Holmes aveva i vestiti strappati ed impolverati, i capelli arruffati, ed il lato sinistro del suo viso era una maschera di sangue.
Esclamai il suo nome e, incurante della mia ferita, lo raggiunsi in poche falcate e gli incorniciai il volto tra le mani, controllandolo apprensivamente.
«E’ solo un graffio, mio caro Watson, ma ha sanguinato un bel po’. Speravo di trovarla a letto ed avere così l’occasione di rinfrescarmi, prima di presentarmi da lei».
Era vero, era un piccolo taglio che avrebbe richiesto qualche punto di sutura, ma niente di peggio. Il sollievo mi fece quasi cedere le ginocchia e lo abbracciai con trasporto, aggrappandomi a lui ed ignorando deliberatamente il resto delle sue parole.
Sperava di trovarmi a letto? Come avrei potuto dormire sapendolo in pericolo? Ma in quel momento non m’interessava, tutto ciò che aveva importanza era che fosse rientrato a casa, da me.
«Vecchio mio, si sporcherà tutti i vestiti» mormorò, abbassando il capo per parlarmi all’orecchio, con i palmi posati sulle mie spalle.
Onestamente, dei vestiti non m’importava un accidenti. Ebbi il tempo di pensare confusamente che il mio amico fosse un po’ troppo alto, prima di intrecciare le dita tra i suoi capelli ed attirarlo a me per un bacio.
Non avevo mai baciato un altro uomo e fu una sensazione strana, ma niente affatto sgradevole. Non percepivo forme morbide contro il mio petto, ma riuscivo ad avvertire con chiarezza il cuore di Holmes battere contro il mio. Sentii sotto il palmo la ruvidezza della sua guancia, dov’era presente una leggera ricrescita della barba, e la trovai una sensazione bizzarra ed esaltante. Le sue labbra erano sottili e screpolate, sapevano di tabacco e di sangue, ma erano morbide.
Non ero un sodomita - o per lo meno non avevo mai ritenuto di esserlo, fino ad allora - tuttavia non avevo mai avuto una cattiva opinione di quelle persone. La gente li riteneva degli “invertiti”, però io non credevo vi fosse nulla di male nella loro natura, che era semplicemente differente da quella degli altri. Era un pensiero pericoloso ed anticonformista, che non mi sarei mai permesso di rivelare a nessuno, e proprio non avevo idea di cosa pensasse il mio amico a tal proposito.
Non lo avevo mai sentito parlare di nessuna donna - fatta eccezione per Irene Adler, per la quale nutriva un’ammirazione tutt’altro che romantica - né avevo mai saputo di qualche sua avventura. Riteneva l’amore un’inutile distrazione, eppure quella sera mi aveva baciato.
Di una cosa sola ero certo: lui era l’unica persona cara rimastami e stanotte avevo rischiato di perderlo per la seconda volta.
La sua bocca contro la mia mi parve incerta, non come se fosse indecisa, ma piuttosto… impacciata. Improvvisamente realizzai che Holmes non dovesse essere molto avvezzo a quelle pratiche. Ho sempre creduto che ci siano gesti più intensi di altri, pur essendo probabilmente meno fisici. Un abbraccio può essere più intimo di un bacio, ed un bacio può essere più intimo di un amplesso. Seppure Holmes avesse avuto qualche relazione di cui non fossi stato a conoscenza, non era scontato che baciasse le sue - o forse i suoi, realizzai - amanti.
Mi scostai di poco, cercando il suo sguardo, e con mia sorpresa fu lui a rincorrere le mie labbra. Fu un tocco soffice e rapido, poi, come se la situazione lo richiedesse, si chinò a bisbigliare di nuovo al mio orecchio: «Ora faccia il bravo e si sieda, dottore, la sua gamba sta tremando per lo sforzo».
Mi parve incredibile che, perfino in quel frangente, si preoccupasse della mia ferita, quando la sua ancora sanguinava!
«Solo se si accomoda vicino a me e mi permette di curarla» ribattei, percependo il suo sorriso fugace contro la mia tempia.
Recuperammo una bacinella d’acqua fresca e la valigetta con i miei strumenti, dopodiché  Holmes accostò la sua poltrona alla mia ed io cominciai a detergergli il viso con un panno umido.
Il taglio aveva quasi smesso di sanguinare, ma se non l’avessi suturato sarebbe rimasta una vistosa cicatrice. Versai al mio amico un bicchiere di brandy e poi gli diedi un fazzoletto da mordere, che si rifiutò di usare. Così, dopo un’occhiata truce, cominciai il mio lavoro, ma il paziente mi interruppe dopo qualche secondo.
«Stenda quella gamba, Watson, si sta trascurando troppo» mi posò una mano sulla coscia, invitandomi a fare quanto richiesto.
«Non ora, Holmes, è già abbastanza difficile lavorare da seduto» ribattei seccato.
«Allora può anche interrompere ciò che sta facendo» replicò freddamente e, giuro, non fosse stato già abbastanza ammaccato, lo avrei pestato io.
Ci scrutammo qualche attimo con disappunto, poi Holmes chiuse gli occhi e sospirò: «Vecchio mio, chi penserà a noi, se non ci prendiamo cura l’uno dell’altro?» sussurrò, riaprendoli e fulminandomi con uno dei suoi sguardi penetranti.
Quelle parole, unite alla sua stretta sul mio ginocchio, mi fecero balzare il cuore in gola e dovetti fermarmi, perché la mia mano cominciò a tremare. Era vero, non avevamo nessun altro al mondo, ma non avrei mai pensato che Holmes volesse prendersi cura di me. Era la più chiara ammissione d’affetto che mi avesse mai concesso. Quindi, alla fine cedetti; stesi la gamba, usufruendo di una poggiapiedi, e ricominciai a ricucire la ferita. Una volta terminato, la coprii con un cerotto e, sorprendendo perfino me stesso, posai un bacio su quest’ultimo.
«Non posso permetterle di addormentarsi stanotte, potrebbe avere un trauma cranico» mormorai, imbarazzato dal mio stesso gesto.
«Allora dovrà pensare ad un modo per tenermi sveglio» ribatté, ed un attimo dopo le sue labbra erano nuovamente sulle mie, tuttavia il bacio risultò scoordinato, perché eravamo troppo distanti.                                                                                                                                        Holmes mi afferrò il collo della camicia, attirandomi a sé, ma ancora non bastava e così, poco dopo, si inginocchiò ai miei piedi ed io pensai di nuovo, e scioccamente, che fosse davvero alto, visto che il suo volto si trovava comunque all’altezza del mio.
Vorace, bollente, lascivo, avido… quasi mi mancano i termini per definire quel contatto. Gli cinsi le spalle, perché mi parve che non fosse ancora abbastanza - abbastanza vicino, abbastanza profondo, abbastanza umido, abbastanza esplicito - e ci interrompemmo solo per riprendere fiato, quando cominciarono a bruciarci i polmoni, posando la fronte su quella dell’altro ed ansimando lievemente.
«Ha altre ferite?» domandai, e lo vidi leccarsi le labbra, come alla ricerca delle parole giuste o forse di una traccia del mio sapore su di esse, infine scosse impercettibilmente il capo.
Non fidandomi affatto, gli tastai lievemente il costato e, quando toccai il suo addome, gli sfuggì una smorfia.
«Mi faccia vedere» ordinai e gli sfilai la camicia dai pantaloni, sbottonandola rapidamente, prima che potesse reagire. La zona dello stomaco aveva un brutto colorito nero-bluastro. «Una ginocchiata?» domandai, sfiorandolo lievemente.
«Il calcio della pistola» rispose conciso, mentre io prendevo dalla mia valigetta una pomata e cominciavo ad applicarla sulla zona con il tocco più leggero che mi riuscì. La spalmai sinché la pelle la assorbì completamente ed allora Holmes afferrò il mio polso, bloccandomi.
«Le fa male da altre parti?» chiesi nuovamente, e lo fissai con insistenza quando negò per la seconda volta.
«Davvero» mi assicurò e solo in quel momento abbassai lo sguardo sulle nostre mani e notai che la sua era arrossata ed escoriata per aver fatto a pugni.
«Immagino che il suo avversario sia in condizioni ben peggiori delle sue» ipotizzai, mentre gli tamponavo le nocche scorticate con un batuffolo di cotone imbevuto d’alcool.
«Senza dubbio» sogghignò strappandomi un sorriso e subito dopo catturò un’altra volta la mia bocca.
Stava succedendo tutto così in fretta che mi sentivo disorientato, eppure non riuscivo a fermarlo, o a fermarmi. Nessuno - donna o uomo che fosse - aveva più suscitato il mio interesse dalla morte di mia moglie, Holmes era la mia unica costante, e tuttavia non mi sarei mai aspettato tanto impeto da parte sua. Mi ritrassi leggermente, in preda alle vertigini, ed il mio amico mi scrutò preoccupato.
«Va tutto bene?» m’interrogò sollecito.
«Sì, mi sento solo… spaesato» e lui annuì comprensivo. «Lei non sembra… sorpreso da tutto questo» aggiunsi, rendendomi conto solo in quell’istante, di avere le dita intrecciate ai suoi capelli. Non riuscivo a ricordare l’attimo  in cui fossero finite lì.
«E’ vero» mormorò «Forse perché aspetto questo momento da più di dieci anni».
Il mio cuore mancò un battito e poi riprese a velocità raddoppiata. Ebbi il timore di aver sentito male, ma un’ombra di sorriso sulle sue labbra me lo confermò, ed avvertii l’intenso bisogno di farle mie.
«Se vuole che ci fermiamo…» offrì, ma gli impedii di concludere.
«Buon Dio, no!» lo baciai «No» soffiai poi sulla sua bocca «Non voglio svegliarmi domani ed accorgermi che è stato tutto un sogno, preferisco non dormire affatto. Andiamo in camera» lo incitai infine, e lui si alzò con un movimento fluido, felino, aiutandomi a fare altrettanto. Mi stringeva ancora delicatamente il polso ed il suo pollice disegnò circoletti sulla mia pelle, mentre mi guidava fuori dal soggiorno. La sua camera era la più vicina e si fermò davanti alla porta, tenendo una mano posata sul pomello ed osservandomi, come per darmi un ultima chance di tirarmi indietro.
Ma non lo feci; sollevai il braccio che lui ancora stringeva e, mantenendo il contatto visivo, gli posai le labbra sulle dita.
La maniglia ruotò con un cigolio e Holmes mi attirò con sé oltre la soglia.
Ci ritrovammo in piedi, al centro della stanza in penombra, l’unica luce proveniva dai lampioni di Baker Street e disegnava contrasti netti, quasi spigolosi, ovunque si posasse.
Il mio coinquilino mi cinse strettamente la vita, io posai un palmo sul suo petto nudo e, quando la sua bocca trovò il mio collo, gli intrecciai nuovamente le dita tra le ciocche scure. La mia cravatta venne sciolta con un fruscio e cadde a terra senza produrre alcun rumore. I bottoni della camicia saltarono uno dopo l’altro, mentre cercavo di soffocare i sospiri, poi fu la volta dei polsini e dei gemelli, di cui ci liberammo a vicenda.
Il mio amico mi sospinse con autorità verso il letto, su cui crollai semidisteso e, quando si chinò a slacciarmi le scarpe, mi puntellai sui gomiti per guardare più agevolmente il suo operato. Sempre con la massima attenzione, si dedicò ai miei pantaloni, che sfilò insieme all’intimo, ed infine si fermò ad osservarmi. I suoi sensi erano più acuti del normale ed affinati dalla pratica, quindi ero certo che non avesse difficoltà a distinguermi con chiarezza.
Tremai, ma non per il freddo, piuttosto per un miscuglio di eccitazione, aspettativa e timore. Avrei voluto chiedergli se gli piacesse ciò che vedeva, ma non ne ebbi il tempo, e forse nemmeno il coraggio, perché lui mi accarezzò le cosce, poggiò un bacio sulla benda che fasciava la sinistra, e poi risalì sino al mio inguine.
Pensai d’impazzire quando cominciò a dedicarsi, con la bocca, a zone che un gentiluomo non dovrebbe nominare, e riuscivo a percepire, anche se non potevo vederlo distintamente, il suo sorriso compiaciuto ogni volta che riusciva a strapparmi un gemito. Con mio disappunto, si fermò prima che potessi concludere e si rimise dritto, pronto a raggiungermi sul letto. Solo allora mi accorsi come, dalla cintola in giù, fosse ancora vestito e mi affrettai ad aiutarlo a liberarsi dei pantaloni. Poi strisciai indietro, fino al centro del materasso, mentre Holmes si arrampicava su di esso per raggiungermi.
Lo attirai a me, fino a che non si accomodò sul mio bacino, e poi cercai le sue labbra. Accarezzai il suo corpo bianchissimo - le gambe lunghe, il torace asciutto, le spalle forti, le braccia muscolose - e mi sorpresi a pensare che fosse sensuale; un appellativo che non avevo mai associato ad un uomo prima d’allora. Bello, affascinante, virile … questi erano i termini che avrei accomunato ad una persona di sesso maschile, ed in una certa misura gli calzavano tutti, ma in quel momento non potei definirlo altro che “sensuale”. Il suo fisico era straordinariamente magro e leggero per la sua altezza.
La luce dei lampioni bagnava il suo profilo e la vidi scivolare su un capezzolo, che attirò subito la mia attenzione; lo succhiai, stuzzicando tra le dita il suo gemello, e l’ansito che emise il mio amico - il primo che ero riuscito a conquistare - mi causò un lungo fremito. Mi resi conto di volerlo con un’intensità schiacciante, che vedevo riflessa nei suoi occhi d’acciaio.
Holmes si allungò verso il comodino, dal cui primo cassetto trasse un barattolo di qualcosa che, dall’odore, mi parve crema per le mani. «Non è il massimo, ma dovremo accontentarci» bisbigliò, prima di spalmarne una generosa dose sulla mia intimità.
Feci altrettanto, animato del semplice desiderio di sentirlo gemere e lui serrò le palpebre con forza, mordendosi il labbro inferiore. Affascinato, premetti quest’ultimo con il pollice, invitandolo a non farsi male ed a lasciarsi andare. Il mio collega lo sfiorò con la lingua e poi prese quella mano portandola dietro di sé, in un chiaro invito.
Evidentemente non riuscii a celare del tutto il mio stupore, perché lui sogghigno e si chinò sul mio orecchio: «Abbiamo tutta la notte, mio caro» mi ricordò ed io ne approfittai per attaccare la sua giugulare. Lo strinsi ancora di più contro di me, volevo sentirmelo maggiormente addosso e le nostre virilità si scontrarono, facendo gemere entrambi.
Alla cieca, recuperai il barattolino e vi immersi le dita, portandole poi tra le sue natiche. Sapevo solo sommariamente cosa dovessi fare, ed ero più nervoso di quanto avrei voluto ammettere. Sfiorai la sua fessura con un polpastrello e rimasi allibito quando fu il mio amico stesso - il mio amante -a spingersi su di esso, puntellandosi contro la testata del letto, alle mie spalle.
«Non sono fatto di cristallo, non mi rompo, dottore» mi fece presente, incitandomi in modo implicito ad affrettarmi, ed io eseguii alla lettera le sue indicazioni, sino a quando con voce vibrante sussurrò: «Basta così». Ritrassi quelle intrusioni e dovetti aggrapparmi con forza ai suoi fianchi, sopraffatto dal piacere, quando scivolai in lui. Holmes s’incurvò contro di me, cingendomi le spalle, e percepii il suo respiro affaticato tra i miei capelli.
Il resto semplicemente non può essere raccontato, non c’è modo di descrivere la complicità, la passione, il desiderio… l’amore, che ci animarono e guidarono per il resto del tempo.
E’ proprio vero che delle volte si comprende l’importanza di qualcosa - o qualcuno - solo quando si rischia di perderla. Avevamo vissuto per anni l’uno accanto all’altro, senza accorgerci o voler ammettere ciò che ci legava. Era stato necessario rischiare la vita, sanguinare e litigare per aprire gli occhi. Solo allora gli ultimi muri che ci separavano erano crollati.
Non mi sono mai pentito di aver abbattuto quelle barriere, e credo di potermi arrogare il diritto di affermare che per Holmes sia lo stesso.

Dal diario privato del Dr. John H. Watson.

FINE.

*La frase d’introduzione è tratta da “Il Ferro” di Gabriele D’Annunzio.

Potete trovarla anche su:
EFP;
Fire&Blade;

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Ah... il bello di essere andmin è che, in casi come questa iniziativa ho già il mio premio bello che pronto <3 e per questo ringrazio la mia socia queenseptienna che inoltre - anche se per motivi nostri, non riguardanti questa fic - mi ha regalato uno splendido set di incon e una nuova grafica *__* come si può non amare questa donnina???

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