Diciassette marzo duemilatredici

Mar 17, 2013 23:02

Serata scazzo. O qualcosa di simile.
Vi ho avvertito.

Qualche anno fa era il venerdì sera (quasi notte) il momento giusto per mettermi a scrivere qualche post al mio blog che fu, ma da molto tempo ho perso l'abitudine, anche perché riesco a sfogarmi con altre cose. Coi racconti, con le chat con amici più fidati di allora, con i romanzi, o con il romanzo, se vogliamo essere precisi.
Ho iniziato un nuovo romanzo.
Se qualcuno si ricorda, in post precedenti - pressappoco di novembre... settembre... beh insomma, andiamo indietro! - parlavo di un altro romanzo, uno lungo, uno impegnativo. Ebbene, l'ho finito. L'ho finito da molto, da qualche mese almeno, ma non ne avevo fatto parola con nessuno, né in pubblico né quasi in privato. Non mi convinceva. L'argomento di cui tratta è serio, più di quanto io mi sia mai cimentata in precedenza, è un mix tra il mio vecchio stile e uno nuovo che si è creato mano a mano che scavavo sempre più in profondità. L'ho finito e l'ho lasciato lì, col titolo ancora da definire, nella cartella delle opere terminate in attesa di rivederlo, di risentirlo, di capire cosa fosse quel nodo che dentro di me, quando ci pensavo, non riuscivo a sciogliere.
Sapevo che c'era qualcosa che non andava, che non faceva tornare la prova del nove, ma non riuscivo a individuarla, quindi ho chiuso, ho steso un velo opaco e mi sono data ad altre cose, per lo più racconti per concorsi o per case editrici.
Ho iniziato la stesura di non uno, ma di altri tre romanzi in contemporanea. E chi mi conosce come autrice sa che per me è una cosa da pazzi, inconcepibile, proprio io, che mi focalizzo su una sola singola cosa per poterla fare al meglio, desiderando la perfezione.
Sì, sentivo che c'era qualcosa che mi bloccava, che mi faceva sorgere dubbi che fino a quel momento non avevo mai avuto in vita mia, ho odiato la mia incapacità di concentrazione perché era sempre stata quella spinta a darmi l'entusiasmo per scrivere, il mio vessillo, la mia forza. L'avevo persa, e dentro ci stavo malissimo.
Poi, nemmeno una settimana fa, ho avuto un'illuminazione. Ero nel dormiveglia prima di piombare nel sonno, la mia mente stava vagando e non ero neanche troppo cosciente, quando ricordo che i personaggi, i due protagonisti, mi si sono materializzati in testa, ripercorrendo il finale, facendomelo rivedere come io me l'ero immaginato.
E lì ho capito cosa dovevo fare. A mente fredda (a mente dormita, diciamo) sono riuscita a distinguere ciò che c'era di buono e ciò che c'era da buttare via per il bene della storia, levando inutili forzature, quelle forzature che mi sono resa conto erano il blocco che mi aveva attanagliata in modo sotterraneo per tutte queste settimane.
E poi ho dormito.
Ma la mattina successiva ho fatto la brava, mi sono svegliata con cauto ottimismo (ho smesso di illudermi felicemente per ogni idea buona. Fortunatamente) e mi sono messa al lavoro.
Ho riletto, ho tagliato, ho cancellato, ho rimosso, ho tolto quattro interi capitoli, un epilogo infinito che non era quello giusto. Ho limato, ho fatto le ultime aggiustatine, e il tutto è durato al massimo due ore.
Stupendo.
Mi è scappata anche una lacrimuccia nel capitolo finale. Che ci volete fare, io adoro i personaggi secondari.
Insomma, morale della favola: adesso il romanzo è finito, e con un certo orgoglio l'ho inserito tra gli altri, la mia produzione del 2012, un colosso di più di un milione di caratteri (non è stato ancora editato quindi sicuramente varieranno. Spero che diminuiscano, ma conoscendomi mi sa di no) e un tono molto più serio di quanto anch'io mi ero aspettata. Ne vado fiera? Ora sì. Ho fatto la cosa giusta, per me come autore e per lui come romanzo.
E per voi forse queste sono chiacchiere senza alcun senso e state già con un dito sul telefono per chiamare la Neuro, ma per me contano. Le ho stampate sull'anima.

Inoltre, l'aver finalmente concluso degnamente quel romanzo, mi ha dato la prova inconfutabile che non mi sento artisticamente bene se non termino un lavoro prima di cominciarne un altro.
Adesso ho accantonato i tre romanzi che avevo iniziato e ne ho cominciato uno completamente nuovo, e la volete sapere una cosa? Sono ispirata. Sono di nuovo ispirata. Procede lentamente (colpa mia, me la prendo comoda), ma procede con scioltezza, come quando mi occupavo di If you only knew, il romanzo che tra tutti gli è più affine (circa).
Forse deriva dal fatto che sono tornata a credere nella mia creatività, forse perché dentro di me ci sono meccanismi che agiscono a modo loro, non lo so, ma di sicuro sono felice di aver ripreso a scrivere come (e forse meglio) di prima.

Chiusa col lieto fine questa bella favola scrittoria, ci tengo a dire che sono frustrata. Momentaneamente, perché sono arrivata a un punto in cui riesco bene a controllarmi e probabilmente domani sarò di nuovo col buonumore, ma adesso mi concedo il mio momento scazzo, o lagna, o fate voi.
Aspetto. Due diversi miei romanzi sono in visione in due case editrici (in realtà le case editrici sono di più, ma in due mi hanno dato un debole segno di conferma per una prima selezione), e sto qui che aspetto. Maledettamente aspetto da mesi, da quasi un anno, in attesa di un fottuto responso - positivo o negativo - che non arriva mai. Perché devo sempre aspettare? Perché il tempo deve scorrere così lentamente, perché nessuno si dà mai la pena di considerare che la gente che gli gravita intorno sta aspettando qualcosa?
Non mi perderò in una tiritera di accidenti e imprecazioni rivolte a case editrici e robe simili, non ne vale la pena e so quanto è penoso ascoltare la gente parlarne, dirò solo che sono stanca, che sono frustrata, e che sono delusa.

Difatti, in questo periodo ho ridimensionato molto il mio modo di pensare, e le persone con cui ho a che fare.
Se prima mi sforzavo di pensare bene, di giustificare, se prima mi convincevo che volevo ancora bene, adesso ho chiuso. Ho chiuso con la tolleranza, ho chiuso con lo sbattermi per chi invece non fa nulla, ho smesso di sorridere alle persone per cortesia. Adesso se ne possono andare affanculo. Se ne possono andare a marcire coi loro stupidi progetti e le loro stupide idee, se ne possono andare al diavolo con la loro ipocrisia, io ho chiuso. Ho socchiuso, perché non mollo così di punto in bianco come mi è capitato di vedere, ma semplicemente è arrivato il momento che mi occupi di me. Un po' come gli altri pensano solo ai propri interessi.
Per cosa mi sono impegnata io in tutti questi mesi? Per sentire piagnistei o solo silenzio? Per cosa ho donato preziose ore delle mie giornate, dentro e fuori casa, se nessuno mi ha mai ascoltata? Per cosa ho sorriso, per cosa mi sono informata, per cosa mi sono organizzata, se poi tutto quello che me ne è venuto è stato niente? Questo è quello che ne ho ricavato cercando di lavorare bene con le persone. Niente.
Allora, se proprio non devo ricavarne niente, tanto vale lavorare per me stessa, che mi diverto di più e so che se non ne guadagno nulla è per merito/colpa mia.
Fondamentalmente io non ho un brutto carattere. Sono espansiva, sono una persona che è amica di chi vuole esserle amica. Rido e sorrido spesso, faccio quel che posso per accontentare tutti, sono educata, cerco di essere sincera - o se mento, cerco di farlo al fine di non nuocere nessuno, sono in sostanza una persona che non cerca mai la discussione, anzi, mi piace stare tranquilla.
Il mio lato cattivo si sveglia però quando non si è chiari con me. L'ipocrisia mi fa ribrezzo. Non lo sto dicendo col tono di Miss Universo col mazzo di fiori in mano e dopo aver cinguettato che vuole la pace nel mondo. Lo dico proprio con disgusto.
Persone che da me pretendono, chiedono e vogliono, e poi mi mettono in un angolo alla prima occasione perché c'è di meglio con cui fare/parlare/stare. Persone che prima dicono una cosa perché hanno bisogno di me, ma che quando sentono che la mia risposta non era quella che si erano aspettati, scompaiono. Persone secondo cui il mondo è un posto dorato e pieno di api e fiorellini e si stupiscono se qualcuno chiede loro un minimo di maturità o costanza. Persone che parlano per dare aria ai denti, che non hanno la minima idea di cosa vogliono, ma la esigono lo stesso.
Visto che la mia vita mi appartiene, e, al contrario delle CE su cui non ho il minimo potere, posso decidere cosa farmene, presto detto.
Non sono più problemi miei.
Se devo essere sempre io l'unica che si rode il fegato per mandare avanti qualcosa, ho saggiamente deciso che il mio fegato ha la prorità.

Tanti intorno a me continuano a dire che prima o poi ce la farò. Che prima o poi sarò davvero ciò che desidero essere, che raggiungerò il mio scopo, che realizzerò il mio sogno. Io continuo a dire "Credici tu anche per me, che io mi tengo i dubbi". Sì, ne dubito.
Quattro anni fa, quando frequentavo una certa classe delle superiori ci credevo, e ci credevo davvero. Ero davvero convinta che con la scrittura ce l'avrei potuta fare, davvero convinta che con le mie sole forze ce l'avrei fatta.
Prima, se qualcuno mi avesse chiesto un consiglio da dare a uno scrittore in erba gli avrei detto "Credi in te stesso, credi in quello che fai e vedrai che ce la farai". Beata ingenuità.
E adesso? Adesso i miei piedi sono ben saldati a terra, forse più di quelli di tanti altri. Non forse, probabilmente.
Adesso al fantomatico scrittore in erba dico chiaro e tondo "Prima di scrivere, assicurati di essere capace di farlo" aggiungendo poi "E ti prego di non ammorbare il mondo con la tua prosa scialba, i tuoi personaggi posticci e la tua trama scadente". Non ho idea di quando esattamente io sia passata dall'altra parte della barricata, so solo che adesso quelli che credono in se stessi dovrebbero vergognarsene, e quelli che dovrebbero farlo, non sanno dove sbattere la testa. E non sto neanche parlando di me.
Adesso scrivo perché mi fa sentire meglio, scrivo perché è il mio vizio di forma, il mio peccato capitale, la mia vocazione ancestrale che mi tiene lontana dal resto del mondo. Scrivo per me, se devo essere sincera, perché ho un ego smisurato che si gonfia come una mongolfiera quando i caratteri si disegnano l'uno dopo l'altro su un foglio Word, perché in quelle parole ne condenso altre, che sono talmente tante che non ve l'immaginate neppure.
Ci sono io, là dentro.
Qualcuno di voi ogni tanto se ne accorge.

sfogo personale

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