Titolo: Sonata per Violino
Autore: Nico
Rating: Per tutti (PG)
Genere: Originale
Sommario: Ero un mostro, destinato a rimanere eternamente tale, eppure con ancora così tanto di umano da farmi sentire due volte dannato. Come sarebbe stato più facile perdere, con la capacità di morire da uomo, anche l'anima dell'uomo.
Parte 1 Non fu però quella l'ultima volta che parlai con mia sorella.
Per anni e anni, dopo quell'incontro, continuai a seguila. Si innamorò di un uomo, anche lui un musicista, ed ebbe due figli. Un maschio, Hannes, e una femmina, Judit, che purtroppo morì di malattia quando aveva solo sette anni.
Ebbe una vita piena, segnata da gioie e tragedie come la vita degli esseri umani.
Come la vita che avrei avuto io, probabilmente, come quella che avevo voluto per lei.
Andai a farle visita la notte di Natale del suo settantottesimo anno di vita, quando ormai la malattia l'aveva consumata al punto tale da non permetterle nemmeno di alzarsi dal letto per andare alla messa.
Entrai in camera sua senza troppe difficoltà, presi una sedia e mi sedetti di fianco al letto a guardarla dormire. Faticava a respirare, aveva l'aspetto logoro di una vecchia, ma quando aprì gli occhi capii che anche se fossero passati secoli l'avrei riconosciuta.
“Gregor...”, mormorò.
“Ciao Greta. Buon Natale”, le dissi, prendendole la mano.
Lei me la strinse debolmente. “Non sei affatto cambiato”, disse con un mezzo sorriso.
“Sono contento di non poter dire lo stesso di te”, dissi io, e da come mi guardò capii che aveva inteso perfettamente quello che volevo dire.
“Ho avuto una vita felice, non sempre, ma è stata una vita piena”, sussurrò.
“Lo so, ti ho tenuta d'occhio”.
“Ho avuto il mio angelo personale a vegliare su di me tutto questo tempo”, ridacchiò lei, ma cominciò immediatamente a tossire, abbandonandosi esausta sul cuscino.
“Sono tutto fuorché un angelo, te lo assicuro”, le ricordai.
“Sarai per sempre il mio meraviglioso angelo immortale”, disse.
Mi alzai e mi sedetti di nuovo sul letto accanto a lei, prendendole entrambe le sue mani e stringendole tra le mie.
“Non sai quanto mi sei mancata”, confessai. “Ma non potevo venire, non avresti saputo giustificare...”
“Ssh, non dire niente. Non importa. In realtà ci sei sempre stato e sei qui adesso, è tutto quello che conta per me”.
Continuai a stringerle le mani, le baciai le dita. Erano tiepide, ma sentivo, con quel sesto senso che negli anni si era sempre più affinato, che la fiamma della vita le avrebbe riscaldate ancora per poco.
“E' strano come alla fine della vita tutto diventi così chiaro, come tutto ciò che di bello e di pulito abbiamo vissuto diventi la parte più importante, mentre i brutti ricordi rimangono relegati là in un angolo come uno spauracchio che in realtà non fa più paura”, continuò.
“Dev'essere bello sentirsi così”, risposi.
“Solo grazie a te e a Manuel posso sentirmi così, non vi sarò mai grata abbastanza per quello che non avete fatto quella notte”.
“Glielo dirò, sarà felice di saperlo”.
Mi sorrise. “Per favore, potresti aprire per me il baule che sta sotto la finestra?”
La lasciai andare, mi alzai ed andai ad aprirlo. C'era il suo violino, lì dentro, lo stesso con il quale mi aveva salutato l'ultima volta.
“Prendilo”, disse.
Lo presi con cura tra le mani e tornai verso il letto.
“Voglio che lo abbia tu. Sarà un mio ricordo”, mormorò. Vedevo i segni della stanchezza che la avviluppava, ma la sua voglia di combattere fino all'ultimo non era da meno.
“Non ho bisogno di un oggetto per ricordarti. Sarai con me per l'eternità, e se anche per me arriverà la fine, anche dopo, tra le fiamme dell'inferno o dovunque andrò”.
“Anche io sarò sempre con te Gregor, non credere che ti libererai di me tanto facilmente”, affermò. “Ma voglio che lo abbia tu lo stesso. Saprai cosa farne se e quando verrà il momento”.
“Va bene”, dissi.
Lo posai per terra e tornai ad inginocchiarmi di fianco al letto. Le scostai gentilmente una ciocca di capelli grigi che era sfuggita alla treccia e le ricadeva sul volto.
“Credo che sia arrivato il momento di salutarci per davvero”, disse con voce fioca.
Ormai non riusciva più a tenere chi occhi aperti, sopraffatta dalla stanchezza, ultimi attimi di una candela il cui stoppino era arrivato a bruciarla per intero.
“Dormi Greta”, sussurrai, “buon viaggio”.
La baciai sulla fronte, la guardai un ultima volta e uscendo silenzioso come ero entrato presi il violino.
Per un attimo ebbi l'impressione di sentire la sua voce che mi sussurrava di essere felice, ma non tornai indietro perché ormai ci eravamo dati il nostro ultimo saluto.
“Ci proverò”, dissi.
Morì il primo gennaio dell'anno di grazia 1865.
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Filarmonica di Berlino, 24 dicembre 2008
“Siamo qui da una settimana e ti viene in mente che il momento migliore per farglielo avere è proprio un'ora prima del concerto?”, borbottò Manuel.
“Non ce n'è uno migliore, te lo assicuro!”, affermai. “E poi hai scorrazzato per Berlino con la tua nuova Mercedes per tutto il tempo mentre io la cercavo, quindi hai poco da lamentarti!”
“Solo perché mi sono comprato i nuovi Ray Ban, erano gli unici che non facessero a pugni col colore della mia pelle e col mio Belstaf, altrimenti non mi sarei fatto vedere in giro”, sbuffò.
Per quanto esasperante fosse diventata l'ossessione di Manuel per le griffe, continuava ad essere soprattutto divertente.
Avevamo vissuto talmente tanti cambiamenti, atrocità, scoperte, aberrazioni e meraviglie, in un paio di secoli, che qualche piccolo sfizio, forse, meritavamo di togliercelo!
“Potevi almeno farglielo consegnare da un corriere professionista, non da quella specie di fattorino del fioraio”.
“Si da il caso che il fattorino del fioraio fosse l'unico disponibile la notte di Natale”, argomentai.
“Era disponibile o terrorizzato?”, ribatté Manuel, ma avevo smesso di ascoltarlo.
Ero ansioso di vederlo uscire, in base agli accordi avrebbe dovuto chiedere alla portineria di consegnare personalmente il pacco a Dorotea Manhof, primo violino della Filarmonica di Berlino. Sicuramente prima lo avrebbero aperto, con l'allarme terrorismo degli ultimi anni era inevitabile, ma si sarebbero resi conto che si trattava di un semplice strumento e lo avrebbero fatto passare, ne ero certo.
Lo aspettammo per un quarto d'ora sul retro del teatro ma ero così agitato che il tempo sembrava raddoppiare la sua durata.
“Non serve a niente consumare le suole delle scarpe”, disse Manuel.
“Lo so, non posso farci niente”, gli risposi.
Trascorsero ancora una decina di minuti ma finalmente il ragazzo arrivò.
Si avvicinò lentamente, con circospezione, come se dietro ai nostri bei vestiti e alle nostre maniere affinate dal tempo riuscisse a fiutare il pericolo, a sentire sotto la pelle quel brivido eccitante e allo stesso modo terrorizzante della vittima che non sa, a livello cosciente, di esserlo.
Ma non era lui che volevamo, quella sera, non rientrava nemmeno nella nostra solita tipologia di vittima, per dirla tutta.
“Allora? Com'è andata?”, chiesi subito, andandogli incontro. Un'auto passò nella strada e le luci dei fanali si rifletterono negli occhi di Manuel e probabilmente nei miei, con un effetto del tutto simile a quello che accadeva con gli occhi dei gatti.
Il ragazzo sbiancò e fece un passo indietro, e Manuel mi frenò afferrandomi un braccio. “Gregor”, sibilò, “Cerca di stare calmo. Da svenuto non ci serve a niente”.
Aveva ragione, per cui tentai di sorridergli nella maniera più rassicurante possibile sperando che nessun'altra auto decidesse di passare di lì. “Ho qui i soldi che ti ho promesso”, dissi. “Vedi?”
Tirai fuori dalla tasca una banconota da cinquanta euro e glie la sventolai davanti. “Voglio solo sapere cos'è successo”.
Il ragazzo si schiarì la voce. “Sono entrato”, iniziò tremolante, “e l'usciere voleva sbattermi fuori. Allora ho cercato di convincerlo che non mi volevo intrufolare e nascondermi per rubare i portafogli agli ospiti durante lo spettacolo. Poi ha visto il pacco e ha minacciato di chiamare la polizia perché temeva che avessi nascosto una bomba, poi...”
“Vogliamo arrivare al punto per favore?!”, esclamai spazientito. “Lo hai consegnato, si o no?”
Di nuovo il ragazzo cercò di ritrarsi, e di nuovo sentii Manuel brontolare alle mie spalle. Poi afferrò i soldi e li porse al ragazzo.
“Ecco, prendi. Non ti vogliamo fregare, ma datti una mossa, per favore, non abbiamo tutta la notte”, disse.
Lui allungò il braccio e gli strappò la banconota di mano. Temevo che a quel punto decidesse che la cosa migliore sarebbe stata scappare ma mi smentì e riprese a parlare. “Alla fine ha chiamato una guardia, hanno controllato, e quando hanno visto che nella custodia c'era davvero solo un violino mi hanno accompagnato dalla signora.”
“Lo hai consegnato direttamente nelle sue mani?”, gli domandai ansioso.
“Certo, come mi aveva detto. La signora lo ha preso e lo ha guardato bene, per molto tempo, poi mi ha chiesto chi me lo avesse dato. Ho detto che non sapevo nulla, che un uomo mi aveva promesso dei soldi per lasciarlo a lei e che avrei dovuto dirle di guardare l'incisione all'interno della cassa. Che Greta sarebbe stata orgogliosa di affidarlo alle sue cure”.
Sospirai, finalmente più calmo. Il violino di mia sorella era arrivato nelle mani di colei che, dopo generazioni e generazioni, aveva davvero dimostrato di meritarlo.
“Puoi andare adesso”, disse Manuel, e il ragazzo corse via come un fulmine.
“E' finita finalmente? Hai fatto il tuo regalo di Natale?”
Lo guardai divertito. “Hai aspettato quasi duecento anni, cos'è tutta questa fretta?”
“Nessuna fretta. Ho voglia di cambiare aria, però, la Germania mi ha stufato”.
“Davvero?”, domandai perplesso. “E dove vorresti andare? In Transilvania? Ti sentiresti più a tuo agio?”
“Naa... perché non a Sidney? O a Miami?”
Pessime idee. “Perché c'è troppo sole, per la nostra carnagione non c'è filtro che tenga”.
“Hai ragione”, annuì Manuel, pensieroso. “Che ne dici del Canada, allora? Possiamo andare a mordicchiare un po' di malviventi canadesi!”
“Il Canada può andare”, assentii.
Era strano, a volte, come dopo tanti decenni, in alcune circostanze, avessimo imparato a sorridere della nostra condanna. Eravamo noi, e cercavamo di fare il minor male possibile. Doveva bastarci.
“Andiamo allora, dobbiamo guardare gli orari dei voli su internet, fare le valigie e cercare di vendere la macchina”.
“La macchina che hai appena comprato?”
“Si, e mi si spezza il cuore, te lo giuro. Ma in Canada ci servirà una slitta!”
Scossi il capo e mi domandai per la milionesima volta in due secoli come facessi a sopportarlo, poi lo guardai, la sua espressione mi parve quasi dolce e ricordai immediatamente il perché anche i successivi due secoli ci avrebbero visti comunque insieme.
“Cerca di essere felice”.
Era stata l'ultima cosa che Greta mi aveva detto, o forse solo un suo pensiero, talmente intenso da superare la barriera delle parole.
Non era passato attimo, da quel giorno, che non avessi pensato a lei, e nulla sarebbe cambiato, ma ora sapevo che il suo spirito, tutto quello che quel violino aveva significato, era nelle mani della persona giusta.
Greta riviveva il Dorotea, e la sua musica sarebbe sopravvissuta per sempre.
Pensai che, in fondo, tutto quello che avevo fatto e che avrei continuato a fare sarebbe stato cercare di essere felice.