Ed è finita anche questa. Non sono molto fiera dell'ultimo capitolo, ma dovevo finirla. Sì, mi mancano già. ;__;
La pubblico qui per consentire ai magnifici admin di Fiumidiparole di controllarla, ma sapete che potete trovarla anche sull'archivio, precisamente
QUI.
16 - Tutto è bene quel che... finisce
Non fu proprio una festa.
Avevano bevuto troppo come al solito. Gli occhi lucidi, il rumore del vetro dei bicchieri. La casa che per un po’ era stata il loro posto, a circondarli. Elena che rideva e poi scoppiava in lacrime senza ragione, Rude che le posava una mano sulla spalla, Reno che riempiva di nuovo i bicchieri. Tutto come sempre, tutto come sarebbe sempre stato.
“A noi!”
Con un sorriso esagerato, Reno sollevò in alto il bicchiere. Gli altri due lo fissarono, accigliati.
“Dovremmo metterci insieme, io e te.” fece Elena mentre Reno beveva, puntando un dito verso Rude.
Lui accennò un sorriso. “Dici?”
Elena si aggiustò sul divano, rischiando di far cadere il bicchiere che teneva in mano. “Certo! Non funziona così, di solito? Siamo entrambi nella stessa situazione. Potremmo consolarci!”
“Non mi sembra proprio la stessa...” disse Reno.
“E’... simile!”
“Sei mai stata a letto con Tseng?”
”Questo non c’entra nulla.” Era tornata seria. Si tolse le scarpe con un gesto nervoso, si raggomitolò sul divano. “Io... non ho fatto proprio nulla di male. E lui non ha neppure considerato i miei sforzi. Non lo fa mai...”
“E’ fatto così, Tseng.”
“Lo so, ma...”
”Avrà i suoi motivi.” Rude riempì un altro bicchiere.
“Avrà tutti i motivi che vuoi, ma...”
”E’ stata una follia.”
E dopo quella frase, c’era stato silenzio.
“Ti accompagno.” aveva detto Rude all’improvviso. Elena non aveva alzato lo sguardo, continuava a fissare il pavimento.
“E’ questa.”
Lei si appoggiò alla porta con la schiena. Era ubriaca, dannazione. Non troppo da essere incapace di parlare, ma abbastanza per...
Rude annuì, la guardò aspettando un saluto. E sarebbe stato tutto. Quella sera sarebbe finita, senza che nulla cambiasse. Elena si sentiva delusa, arrabbiata, nervosa.
“Vuoi...” iniziò, e le parole scivolarono fuori in fretta. “Vuoi entrare?”
Rude rimase in silenzio per qualche istante. Forse era sorpreso. Perché lei era solo una stupida ragazzina, perché lei non era per niente seducente, non era abbastanza. Non lo era mai stata, per nessuno. Ma ora, solo ora, forse... Lo guardò, con un’espressione decisa.
“Rimani. Dai.”
Inarcare la schiena, sospirare appena. Fissarlo negli occhi, nonostante gli occhiali. Scostare i capelli con un gesto del capo.
“Non dovresti.”
”Mh?”
“Non dovresti, Elena.” Rude le sorrise, e lei si arrese.
“Hai ragione...”
Rude fece un passo verso di lei. La fece sussultare, quando le infilò una mano nella tasca della giacca. Voleva toccarla? Voleva fare sesso lì, davanti alla porta? Lo fissò, immobile, mentre prendeva il suo cellulare. Le prese una mano, la aprì. Elena rimase a guardare il telefono, senza capire.
“Chiamalo.”
”Eh?”
”Chiamalo, adesso. Potrai dire di averci provato.”
Era ubriaco anche lui, era chiaro. Lo guardò allontanarsi, incerta. Chiamarlo? Oh, certo. Come no. Rude doveva aver sbattuto la testa troppo forte. Chiamarlo! Come se... come se...
Eppure la notte non era ancora finita. Eppure, poteva ancora far qualcosa per cambiarla. Eppure pensava di meritare almeno un tentativo. Almeno uno.
Nel corridoio vuoto del dormitorio, Elena strinse il cellulare fra le dita.
La ferita non era poi così grave, in fondo.
Strinse la garza con gentilezza. Yuffie gemette appena, chiudendo gli occhi.
“Ti ho fatto male?”
”No, non preoccuparti.”
Finì di sistemare la medicazione, poi si sedette sul letto. Era stanca. Lasciò andare un sospiro.
“Ciss...”
”Mh?”
Yuffie era seria, e aveva gli occhi lucidi. Nell’aria c’era una tristezza strana, non poteva non notarlo. Era tutto finito, era andato tutto male.
“E’ possibile, per un Turk, innamorarsi?”
“...innamorarsi?”
”Sì.” Yuffie sorrise, fissando la finestra. “Non lo è, vero?”
”Non lo so, sinceramente. Forse non proprio.”
“Lo immaginavo.”
Cissnei rise piano. Non era rimasto molto da dire. “Tornerai a casa, ora?” le chiese.
“Certo. Ho molto da fare. Tu che farai, Ciss? Ci rivedremo?”
“Ci rivedremo.”
Yuffie voleva dire ancora qualcosa. Esitò, respirò a fondo. “Sono... sono innamorata di lui, non è così?”
“Penso... di sì.”
”Fa bene, dirlo a voce alta.”
Cissnei annuì. “Fa sempre bene, credo.”
“E lui è un idiota. Fa bene dire anche questo.”
”Direi di sì.”
“Pensi che lo rivedrò?”
Si guardarono, sorrisero entrambe.
Si era seduta alla scrivania, con il telefono di fronte.
Poteva farcela.
In fondo, se lo meritava. Almeno un tentativo. Anche se sapeva già come sarebbe andato. Insomma, non aveva mai creduto sul serio che Tseng potesse... Cosa? Era incredibile anche solo pensarlo.
Non avrebbe funzionato. Qualsiasi sforzo, qualsiasi atto di coraggio. Era tutto inutile, perché Tseng non le avrebbe sorriso. Non l’avrebbe guardata come guardava... lei. Non sarebbe mai stata la stessa cosa. Oh, lo sapeva. Ma la notte stava finendo, e non avrebbe mai più trovato il coraggio.
Lo sfiorò. Il cellulare era freddo. Ritrasse le dita.
Cosa dire, poi? Come chiedere? Non c’erano parole adatte. Ma il momento stava passando, ed era l’unico che aveva. Forse era solo troppo ubriaca. Forse Rude era un idiota. Forse non doveva. Eppure, eppure... Sarebbe stato così bello, poter dire di averci provato...
Lo strinse. Eccola, la sua arma. La sua possibilità. Poteva. Poteva chiamarlo, e le parole sarebbero arrivate da sole. Certo, quelle più stupide. Quelle più assurde. Ma bastava fare il numero, e poi qualcosa sarebbe successo. Qualcosa era meglio di niente. Già. Qualcosa.
Lo strinse ancora. Le dita iniziarono a premere sui tasti. Poteva. Lo stava facendo. Tutto bene. Doveva farlo.
Lo accostò all’orecchio, senza crederci ancora del tutto. Poteva ancora fermarsi, riattaccare. E forse lui non avrebbe risposto. L’avrebbe salvata senza saperlo. Avrebbe impedito che...
“Pronto?”
“Ah!” fece Elena. Era fatta.
“Che vuoi? E’ tardi...”
La voce di Tseng era assonnata.
Aveva risposto.
Aveva risposto.
“I...io...”
”...Pronto? Elena?”
“Signore... Mi scusi, non volevo svegliarla.”
“Che vuoi?”
Poteva ancora. Spezzare per un attimo la realtà. Fare qualcosa di imprevedibile. Provarci. Per poter dire di averlo fatto, sì. Per...
“Io volevo...”
Perché non aveva senso, riattaccare adesso. Perché poteva ancora.
“Allora?”
”Volevo...”
Deglutì. Bene. Era il momento, e non era più possibile tornare indietro.
“...Elena?”
“Volevo dirle, signore, che... sono... un po’ delusa.”
“Eh?”
”Dal modo in cui... mi ha trattato. Penso di aver fatto un buon lavoro. Penso di esserle stata fedele, di aver rispettato gli ordini. Non penso di... aver fatto qualcosa di male.”
No, niente lacrime. Elena benedisse il telefono, e chiunque l’avesse inventato. La sua voce poteva tremare, ma almeno lui non avrebbe visto le lacrime. Le asciugò con una mano, attese.
“Cosa...”
”E, signore... vorrei che lei riconoscesse questo fatto. Perché...” La voce tremava troppo. Si fermò un attimo, riprese. “Perché non è giusto.”
“...Sei ubriaca?”
“Non è giusto, e io... faccio sempre... del mio meglio...”
Poteva sentirlo? Poteva capirlo, che piangeva? Elena strinse le labbra, tentò di smettere. Ma era ubriaca, ed era triste, e lui...
“Lo so, Elena.”
“Mh?”
”Lo so. E’... un momento... difficile.”
Tirò su col naso, annuì anche se lui non poteva vederla. “Sì... lo capisco. Ma io...”
Elena pianse, non avrebbe saputo dire per quanto. Reggeva il telefono stringendolo troppo, soffocando i singhiozzi.
“Ora vai a dormire. Non dovresti essere sveglia.”
“No, non ho ancora finito.”
“Mh?”
”Vorrei ricordarle... dell’appuntamento, signore.”
“Ah...”
“Penso di meritarlo.”
”E’ vero, l’appuntamento. Ne parleremo domani, ti va bene?”
”Certo, signore.”
”Bene.”
”Ne parleremo davvero?”
”Sì. Ne parleremo davvero.”
”Oh.”
”Buonanotte, Elena.”
”...buonanotte.”
E, all’improvviso, la notte era finita.
“Vai a letto?”
Rude sussultò. Alzò gli occhi su di lui, che stava appoggiato allo stipite della porta aperta. La porta della sua stanza, una stanza come tante nel dormitorio. Era cambiato tutto, così in fretta.
“Sì, vado a letto.”
“Pensi che ci faranno ancora lavorare insieme?”
Era troppo presto, per quella domanda. Reno teneva lo sguardo basso, le mani nelle tasche. Era imbarazzato, era spaventato. Lo sapeva. Le parole da dire erano troppe, erano complicate.
“Penso di sì.” disse soltanto, chiedendosi perché fosse così importante. L’unico legame possibile, certo. Il suo unico legame possibile era con quel ragazzo rosso e strambo. Lo guardò con un misto di rabbia e affetto.
“Se quel coglione di Tseng mi affianca un partner nuovo, lo strozzo.” fece Reno. Non lo guardava ancora.
Aveva paura, Reno. Di cosa? Di rimanere solo? Non lo era sempre stato? Contava sul serio su di lui, solo su di lui al mondo?
Era quasi dolce, a suo modo.
Rimasero in silenzio, a fissarsi le scarpe.
“...Scusami, Reno.”
”Eh?”
“Scusa. Sono un idiota.”
“Questo lo so benissimo.”
”Non avrei dovuto.”
”...cosa?”
“Lo sai.”
E Reno era arrossito, aveva abbassato ancora gli occhi, aveva cercato le parole. Aveva maledetto quei giorni strani, in cui tutto era così folle da confonderlo. Poi aveva guardato Rude, le spalle contratte, accigliato. E Rude aveva riso.
Quando Reno gli aveva sbattuto la porta in faccia, sentendo il rumore della chiave che girava, Rude si era sentito meglio.
Tutto era finito, tutto era ancora possibile.
All’alba, Cissnei aspettava il treno.
Era troppo presto, in realtà. La gente camminava intorno, fuori dalla bolla in cui lei si sentiva. Poche persone, passi lenti, pigri, ancora pieni di sonno. Amava l’alba, e la temeva come nient’altro.
La odiava? La odiava, adesso? No, sapeva di no. Lo conosceva abbastanza. E lui conosceva abbastanza lei da poter capire. Forse. O forse no. Adesso, tutto ciò che le restava era l’alba e il rumore confuso della stazione. Aria da stringere fra le dita. Il vento tagliente e la luce che le scivolava sulla faccia.
Lo sapevano entrambi, sì, e non c’era nulla da temere. Non c’era nulla di cui rattristarsi. A volte va così, si diceva, senza sapere cosa volesse dire. E quando va così non si può evitare di sperare ancora, giusto? Era comprensibile. Quando tutto è distrutto, non si può non sperare.
Il treno arrivò in anticipo. Cissnei sorrise, perché non era mai successo. C’era qualcosa di speciale, allora. Forse l’universo le mandava un segnale. O forse no, e voleva solo pensarlo. Ma non aveva importanza, e quindi iniziò a camminare, a mettersi in fila, ad entrare e cercare posto. Fra gli impiegati assonnati, era una come tante.