Ok, questa è d'obbligo:
E grazie a Jinny per averla creata XDDD
Come potrete notare in questo capitolo si piange (o almeno si dovrebbe piangere... poi dipende XDDD), quindi sappiate che l'autrice ci tiene a darvi un consiglio (ma perchè vi vuole bene, eh!):
NON LEGGETE.
E dopo questo consiglio siete liberi di fare quello che volete dei vostri prossimi... vediamo... 10 minuti.
In ogni caso io posto XDDD
Titolo: The Hell' Spot
Gruppo: Arashi, News, Kattun, Toma (s.p.a XDDD) - precisazione: News, Kattun (che poi ce n'è uno solo) e Toma sono personaggi secondari che non appaiono tutti subito.
Pairing: allora... Ohmiya (NinoxOhno) per ora può bastare.
Rating: PG-13
Genere: angst (scusatemi!), noir-giallo, AU, kleenex requested.
Disclamers: i personaggi citati non mi appartengono, la ff sì.
Note: credo, fino ad ora, la mia migliore AU. Per una totalità di 39 pagine di Word scritte... è finita! E l'ho scritta praticamente tutta d'un fiato... ne sono molto soddisfatta.
Capitolo 8.
La notte successiva, si incontrarono al locale.
Arrivò un po’ in ritardo, e Masaki era già seduto ad un tavolino. Gli fece un cenno, sorridendo, con il suo solito completo-pigiama e un cerchietto colorato nei capelli.
-Da quanto!- lo sentì esclamare.
-Già…- sospirò, sedendosi.
Notte arrivò subito per la sua ordinazione, mentre Aiba stava già bevendo un tè.
-Allora, novità?- chiese Masaki, con aria cospiratoria.
Aggiornò l’amico delle ultime scoperte, ovviamente evitando di raccontargli della sera prima.
Si guardò in giro e notò che tutti i presenti, già li aveva interrogati. Sospirò.
Fissò allora lo sguardo su Kage, mentre il monologo di Masaki proseguiva: aveva i capelli legati con un lungo laccio rosso, una t-shirt nera e i soliti pantaloni della divisa. Adorava il fatto che ogni tanto cambiasse look.
-Cosa guardi?- chiese all’improvviso Cute, distraendolo dalla contemplazione.
Scosse la testa e sorrise all’amico.
-Oggi cosa vuoi fare, alla fine? Tutti quelli che ci sono già li conosci…- chiese Masaki, senza insistere sulla domanda di prima.
Era quello il problema. Sbuffò.
-Il nostro amico della porta nera, Arashi, è entrato poco fa. Ma lui non resta mai troppo- lo informò poi Cute, finendo la sua tazzina.
-Grazie per avermelo detto. Quando esce lo seguo- decise il detective, facendo segno a Notte di lasciare il suo bicchiere sul bancone. Salutò Masaki e si sedette al suo solito posto, proprio di fronte a Jun.
Si squadrarono.
-Se non la finisci poi penso che sei un maniaco- lo avvertì il barista.
-Ma sentilo! E dire che ieri sera sei stato tu a baciarmi!- protestò lui, a bassa voce.
Kage assottigliò le labbra e non rispose.
-Scusami ancora…- mormorò, mettendo tre bicchieri sul vassoio che Dark stava per portare ai tavoli. I due camerieri si sorrisero velocemente.
-Non devi scusarti di nulla. Ti sei addormentato così bene che è dispiaciuto a me svegliarti per farti andare al lavoro…- sospirò.
Jun scosse la testa e riprese a preparare i bicchieri per i cocktail.
-Ascolta, mi dispiace dovertelo dire… ma non ci rinuncio con Arashi. I miei sospetti sono tutti su di lui, quindi non mi resta che indagarlo- disse Nino. Bevve un sorso dal suo bicchiere.
-Capisco…- sospirò Jun.
I loro sguardi si incontrarono, sorrisero.
In quell’istante la porta nera si aprì e Arashi uscì, salutando Notte, Dark e Kage.
Nino aspettò solo un istante, poi salutò velocemente Jun con un cenno della testa e uscì nel corridoio di candele.
La schiena dell’uomo, vestito con uno dei suoi soliti completi, lo precedeva di poco.
Entrarono insieme nell’ascensore e non dissero nulla, neppure nel lungo percorso buio prima di giungere alla porta.
Arashi andò a destra, Nino a sinistra. Salì in auto e aspettò di vederlo proseguire, dopo che si fu acceso una sigaretta. Pregò con tutto sé stesso che non scendesse in metro o non prendesse un treno.
Per sua immensa fortuna, lo vide entrare in un’auto blu parcheggiata poco più avanti, dai vetri scuri, e mettere in moto. Lo seguì cautamente in strada, senza mai perderlo di vista.
Si ricordò all’improvviso di tutte le volte che lui e Toma avevano pedinato delle persone: per il loro lavoro era una cosa più che frequente. Si erano sempre divertiti, insieme.
Ora, però, aveva una bruttissima sensazione: la percezione di aver sbagliato, o di stare per sbagliare qualcosa.
La macchina proseguì nelle grandi vie, al ritmo lento del traffico di città, nonostante fosse già notte inoltrata. Poi prese una via sulla sinistra e vide Arashi fermarsi poco più avanti e scendere. Fece altrettanto, velocemente per non perderlo, ancora dietro l’angolo.
Lo vide entrare in un bar qualunque, dalla vetrina molto luminosa. Salutò un altro uomo che era già lì e si sedette con lui, senza ordinare.
Prese nota del nome del piccolo bar: “Aozora Pedal”.
Aspettò quasi due ore, mentre i due uomini discutevano di molte cose, piegati su diversi fogli a leggere e scrivere. L’amico di Arashi era abbastanza alto, aveva dei fini capelli marroni e portava gli occhiali. Era vestito elegante come Arashi.
Finalmente li vide sistemare le proprie cose, alzarsi e salutare il gestore del bar.
Si appiattì di più contro l’angolo, spegnendo la sua ennesima sigaretta e controllò che non ci fossero altre persone nella via. Era deserta, fortunatamente.
I due uomini parlarono un altro po’, in modo molto più familiare, vicino all’entrata del bar.
Poi si separarono.
Era già pronto a proseguire, quando Arashi si girò all’improvviso e chiamò: -Tomohisa!-.
L’altro uomo si girò.
-Non ti scordare del dischetto!- fece ancora Arashi, ad alta voce.
Era la prima volta che Nino aveva l’occasione di sentirla tanto chiaramente.
Tomohisa annuì e salutò con la mano, prima di girare l’angolo.
Sospirò e si chiese se valesse la pena proseguire: quello era stato senza dubbio un incontro di lavoro fra giornalisti. Ora dove sarebbe andato Arashi? Sicuramente a casa, alle 2:37 di notte.
Decise di continuare ancora un po’, sperando che il girovagare del suo uomo non lo portasse troppo lontano da casa.
Appena l’auto blu dai vetri scuri ripartì, si infilò in strada anche lui.
Si aspettò di arrivare presto in un quartiere residenziale, invece l’auto voltò bruscamente e proseguì ancora per un po’ fra le viette della città.
Quando si fermò di fronte ai cancelli del cimitero, Nino spalancò gli occhi.
Lo vide scendere, incamminarsi per il sentiero di pietra.
Nino scese dalla sua auto e lo seguì, controllando a che altezza e in che fila si fermasse. Lo vide restare lì per qualche minuto, in silenzio. Poi spostarsi su un’altra tomba, più a sinistra. Anche lì spese qualche minuto.
Poi tornò indietro e Nino lo lasciò andare via, sulla sua auto.
Entrò nel cimitero, raggiunse la prima tomba che Arashi aveva osservato a lungo.
Si fece luce con il cellulare.
Notò il marmo bianco, i fiori nuovi nel vaso, dai bellissimi colori.
Poi la foto: il viso sorridente di una bambina di circa dieci anni.
Lesse il nome.
Miki Sakurai.
Vide la data di nascita e quella di morte e si ricordò di quello che Jun gli aveva detto: Arashi aveva un anno in più di loro. Quindi ventisei.
E la bambina era morta tre anni fa, quando ne aveva undici. Non poteva essere sua figlia.
Magari era la sorella… oppure chissà.
Poi cercò la seconda tomba e subito sospirò.
La conosceva.
Era la tomba di Lilith.
Era nuova, in marmo nero. Non c’erano fiori. Era segnata solo la data di morte e non c’era neppure la foto.
Gli si strinse il cuore per la pena.
Com’era morire così, senza un’identità?
Arashi, quella sera, era andato a trovare le sue vittime? Anche la piccola Miki era morta per mano sua?
Ritornò alla macchina e guidò fino a casa, in silenzio, senza fumare.
La mattina si decise a tornare nel suo studio, almeno per pulirlo.
Purtroppo non pagava Mary per le pulizie.
Tentò inutilmente, come ogni mattina, di aprire le finestre. Poi sistemò la scrivania, fece la polvere e spazzò, raccogliendo in un sacchetto le cartacce da buttare. Dopo un’ora di intenso lavoro, lo studio era finalmente sistemato.
Si sedette sfinito sulla sua sedia e si trattenne a stento dall’accendersi una sigaretta: non poteva riempire subito il posacenere, che aveva riacquistato il suo colore originario.
Si fermò a riflettere, chiudendo gli occhi.
Le immagini della sera prima, delle tombe illuminate dalla luce del suo cellulare, erano ancora vive nella sua mente: Miki e Lilith. Chi erano?
Accese il portatile e cercò il nome della piccola.
Non trovò nulla, solo omonime.
Non poteva neanche cercare in biblioteca per leggere i necrologi, perché non sapeva la data precisa del decesso della bambina.
Chi era Arashi? Perché la notte andava a trovare quelle due persone?
Si sentì strano, come se avesse altro su cui riflettere.
La sensazione che aveva dalla notte precedente, quella paura di sbagliare… perché non se n’era andata? Era un’orribile presentimento.
All’ora di pranzo andò a mangiare al McDonald’s. Cibo sano.
Passò l’intera giornata così, in uno stato di ipnosi che non gli faceva percepire nulla, che non gli permetteva di pensare, agire.
Finché non ricevette quella telefonata.
Stava per infilarsi in macchina, quando sentì il cellulare vibrare.
Rispose sedendosi sul sedile, chiudendo la portiera.
-Pronto?-.
Nessuno rispose.
Nel silenzio dell’auto, riuscì a sentire dei rumori spezzati al di là del ricevitore.
Come dei singhiozzi.
-Chi è? Pronto?- chiese ancora.
Controllò il numero e il cuore gli si fermò.
-J… Jun?- chiese, la voce che tremava.
I singhiozzi si fecero più forti, sembravano uscire con difficoltà, come se la persona al telefono avesse difficoltà a respirare.
-Kazu… nari…- lo sentì mormorare.
-Cosa sta succedendo, Jun??? Dove sei? Perché piangi?- chiese, senza riuscire a calmarsi.
-Kazu… ho paura. Sono a… sono a casa…- lo sentì dire.
Preso dal panico mise in fretta il vivavoce e mise in moto, girando violentemente il volante.
-Arrivo subito. Parlami. Cosa c’è?- telegrafò, attento alla strada.
Forse per non pensare ad altro.
-Loro… mi hanno… Kazu, ti prego… perdonami… avrei dovuto… io… avrei dovuto avvertirti prima…- lo sentì piangere, ansimare.
-Jun, cosa succede??? Non farmi preoccupare così!- gridò. Quasi non si fermava al semaforo.
-Siamo amici?- chiese il cameriere.
-Ma certo che lo siamo, stupido! Sto arrivando, cerca di resistere! Parlami!- esclamò.
Gli salivano le lacrime agli occhi, e non sapeva neanche perché.
Ma era quello stupido presentimento, quell’orrenda sensazione.
-Ti… ti voglio bene… grazie di tutto…-.
-Cosa stai dicendo???- gridò.
-E’… l’ultima volta che posso… posso dirtelo. Perché stanno… arrivando. Grazie… grazie di tutto… Kazu…- pianse Jun, contro il telefono. I colpi alla porta di casa si fecero più violenti. Chiuse forte gli occhi.
-Chi arriva?- chiese piano.
Prese la via giusta, senza frenare in curva. Qualcuno suonò il clacson.
-Dimmelo ancora…- sentì sospirare a Jun -Ti… prego…-.
-Sei bellissimo, Jun- sorrise, mentre gli sfuggiva una lacrima.
Gli sembrò quasi di percepire il sorriso fra le lacrime di Kage.
Poi la cadde la linea e Nino si sentì perso.
Ma non c’era il tempo per fermarsi, piangere.
Scacciò via le lacrime e la sensazione di paura e guidò disperato fino all’appartamento di Jun.
Quando arrivò, erano passati dieci minuti dalla fine della loro telefonata.
Si maledì per lavorare così lontano, per averlo lasciato solo… sperò di essere ancora in tempo.
Salì le scale di corsa, con il cuore in gola.
Quando arrivò sul pianerottolo e trovò la porta spalancata, rotta e rovinata, però, rallentò il passo. Dentro non c’era più nessuno. Era arrivato troppo tardi?
Entrò nell’appartamento che due sere prima gli era sembrato tanto accogliente, ed ora gli dava quasi la nausea. Diede una veloce occhiata alla cucina, al bagno. Era tutto in ordine.
Poi notò la finestra aperta, nella camera da letto. La tenda bianca che danzava per il vento.
Ma l’aria non gli entrava nei polmoni.
Sul pavimento a fianco del letto giaceva il corpo di Jun.
I tagli sul collo e al fianco, le macchie di sangue ovunque sul tappeto, sulle lenzuola, sugli oggetti caduti. La stanza era tutta sottosopra, come se avesse dovuto lottare.
Il sangue era ancora fresco, ma… non riusciva più a riflettere.
Si inginocchiò sul pavimento, sporcandosi i pantaloni.
Accarezzò piano il viso di Jun: la pelle morbida, le labbra rosse, gli occhi che lo guardavano spaventati. Quella lacrima sulla guancia.
Non c’era più.
Ed era colpa sua.
Abbracciò il cadavere con forza, sollevandolo da terra.
Lo chiamò piano.
.