[X-MEN] Dancing on broken glasses

Mar 21, 2017 02:33

Fandom: X-Men
Pairing/Personaggi: Charles/Erik, Logan, Kurt, Ilyana, Hank
Rating: safe
Wordcount: 4292
Warning: violenza, what if
Note: capitolo scritto per il cow-t, prompt opposti "guerra/pace"


“Ti taglio la gola e ti lascio soffocare nel tuo sangue come un maiale sgozzato, cosa cazzo sei venuto a fare?”
Se non avesse cinque dita strette attorno al collo e gli fosse rimasta anche solo una parte di corpo in cui non sente dolore, Erik probabilmente penserebbe di ridere e rispondere a modo. Non ha paura di Logan e delle sue minacce (potrebbe averne, forse, se il suo scheletro non fosse fatto di metallo), però non è qui per lui ed in questo preciso istante desidera solo la forza ed il fiato per poterglielo dire.
“Rispondimi, stronzo. Io ti ammazzo. Lo giuro su quello che ho di più caro.”
A corto d’aria Erik gli sorride, a metà fra una smorfia di dolore ed un ghigno dei suoi, mentre vengono interrotti da una voce giovane, proveniente dall’altro lato dell’atrio.
“Lo giuri sul pacco da sei che c’è in frigo, quindi?”
“Chiudi quella bocca, Bobby.”
Erik ride di più, nonostante l’agonia, e Logan assesta la stretta, digrignando i denti.
Bobby gli piace. Non è più il bambino impaurito e confuso che era quando Charles l’ha raccolto, e non è nemmeno il ragazzo arrabbiato a cui lui stesso ha rubato il migliore amico. Ora è un uomo, è davvero un mutante, probabilmente Charles l’ha reso persino professore o tutore.
“Penso che tu gli stia facendo male”, suggerisce Bobby, la sua voce appena più vicina, ma nemmeno lontanamente allarmata quanto dovrebbe.
“Lo spero davvero.”
“Forse dovresti smetterla.”
“Non voglio pezzi di merda o assassini nella nostra scuola, e guarda caso questo stronzo è entrambi.”
I loro occhi non si sono mollati per un attimo da quando Erik ha bussato alla porta dell’Istituto e ha trovato Logan ad accoglierlo, senza sorrisi, fiori o benvenuto, solamente i denti snudati e l’espressione furiosa di chi l’aveva già fiutato a chilometri di distanza.
“Logan, ci sono bambini che ti stanno guardando. Il professore non sarà contento.”
“Anche io sono professore”, sibila, e stringe più forte, Erik respira a stento ma non si trattiene dal ghignare, beffardo. “Bobby, io lo ammazzo, lo giuro.”
“Logan, dovremmo prima -“
“Lo so.”
“Vado a vedere se il professore ha finito?”
“No, chiama McCoy.”
“Sei sicuro che posso lasciarti da solo con lui? Non lo ammazzi?”
“Bobby, va’.”
“Se lo fai fuori poi la pulisci tu, la moquette, non ho intenzione di prendermi la colpa.”
“Bobby.”
“Ok, ok. Rimanete immobili finché non torno. Non fatemene pentire, vi prego.”
Sente solo i passi svelti del ragazzo che si allontana e gli occhi di un gruppetto di studenti puntati addosso. E poi, con cautela, la stretta al collo si allenta e tutto quello che Erik riesce a fare è lasciarsi scivolare a terra senza forze, mentre il soffitto danza sopra la sua testa e tutto, in un attimo, torna ad essere oscurità.

…………….
Non ha più il corpo di un volta. Ricorda a stento cosa sia successo prima del buio - ah, già, la Confraternita, i mutanti, i suoi mutanti, amici e fratelli, persone di cui si fidava, giovani da temprare, da istruire, vite da proteggere - proteggere, non è mai stato capace di proteggere nessuno, nemmeno se stesso, nemmeno sua madre, a stento ricorda il suo viso, quanti anni sono passati?, troppi, ormai è vecchio e debole, a volte dubita persino che i ricordi che ha siano veri, che non si sia inventato tutto, a un certo punto, come scusa per tirare avanti, eppure no, il rumore dello sparo ed il proiettile che gli passa accanto, fatale, troppo rapido, non può esserselo immagino, deve essere vero per essergli rimasto impresso così bene, con tanta forza, con tanta rabbia. Gli sembra di esser tornato quel bambino confuso e spaventato. Non ha più il corpo adatto alla guerra, forse sta morendo, forse dovrebbe morire, dopotutto, non ricorda dove si trova, cos’è successo, com’è finito qui - dov’è qui?, cosa stava facendo prima di -
“Wagner, credo che si stia svegliando.”
E’ una voce familiare che gli ronza nella testa, ce l’ha imbrigliata nei ricordi eppure non riesce a liberarla dal groviglio, quindi prova a sollevare le palpebre ma le sente pesanti come macigni.
“Ach! Ero convinto di averlo perso, quest’uomo ha ancora spirito combattivo, persino alla sua età.”
Sagome. Buio, eppure un po’ meno assoluto, adesso. Il dolore è ovattato come tutto il resto, se lo sente adagiato addosso come fosse un velo. Un sospiro proviene dalla stanza.
“Già, quello non gli mancherà mai, temo.”
Passi. Pochi, privi di premura. Gli viene da ridere, anche se non ci riesce, al pensiero che nessuno abbia davvero fretta di salvargli la vita.
“Ehi, Lehnsherr”, lo chiama la voce familiare. Si ritrova una mano grossa e soffice posata sulla spalla, si sente scuotere, ma come in una bolla in cui rumori e movimenti funzionano a rallentatore. “Sveglia, lo so che sei ancora vivo.”
Lo è, dopotutto. Anche se quando respira l’aria che attraversa la gola brucia come una lingua di fuoco, anche se il dolore gli ricorda ogni ferita che ha sofferto, anche se il buio, tutto sommato, non sembrava un’opzione così malvagia, lui è vivo.
Si costringe ad aprire gli occhi (brucia, la luce, e lo acceca più del nero che vedeva dietro le palpebre chiuse) e due uomini lo stanno fissando.
“Guten Morgen, principessa”, dice uno dei due, mentre l’altro ritira la mano dalla sua spalla.
Dove mi trovo?, chiede Erik, eppure quando nessuno dei due risponde si accorge di non esser riuscito nemmeno ad aprire bocca. Impunta le dita sul bordo del lettino - metallo, freddo e familiare, l’unico apparente sollievo - e poi cerca di alzarsi quanto meno a sedere, non è sicuro se per un infantile moto d’orgoglio o per un effettivo tentativo di riappropriarsi di un briciolo di padronanza sul proprio corpo. In entrambi i casi, il suo gesto goffo e tremante esita in un gemito di dolore che lo getta di nuovo con le spalle contro il materasso e i denti stretti attorno al morso amaro dell’umiliazione.
“E’ meglio di no”, dice uno dei due - Wagner, l’elfo con la mutazione del teletrasporto. L’ultima volta che se n’è accertato aveva lasciato il gruppo, eppure adesso eccolo qui. Forse la disperazione li attira tutti verso l’istituto, forse è questo assurdo istinto di sopravvivenza che li riporta, alla fine, all’unico uomo che può prendersi cura di loro.
Il ritorno della consapevolezza di quello che è stato gli schiocca addosso come un colpo di frusta, improvviso e rovente. Ricorda un’imboscata, fuoco, forse spari, la confusione, l’aria satura di voci, amiche e nemiche, morte ovunque si voltasse, ferite ovunque si toccasse. E poi la fuga, fatta di dolore e paura. L’istituto, una porta aperta, dita al collo, Logan.
“Dove sono?”, la voce roca e stanca, questa volta, riesce a scivolargli via dalle labbra; conosce già la riposta eppure ha bisogno di conferme.
“Lo sai dove sei”, nella voce familiare non c’è pazienza. Erik inclina il collo quanto basta per inquadrare le due sagome, entrambe blu, una massiccia e pelosa, in camice bianco, e l’altra più minuta.
“McCoy? Hank?”
“Dottor McCoy, per te.”
Lo tiene d’occhio mentre si avvicina, fino ad accostare un lato del lettino. Non distoglie lo sguardo dal suo nemmeno per un attimo, proprio come con Logan.
“Cosa ci fai qui?”
“Non mi hai ancora detto dove mi trovo. Non avrai dimenticato le buone maniere, dottore?”
Hank esita per un istante, il muso da leone impassibile, gli occhi dipinti di rancori antichi, mai risolti, questioni che lui si è limitato a calpestare senza remore anni fa, mentre tirava avanti per la sua strada senza voltarsi a guardare chi si lasciava indietro.
“Sei all’Istituto Xavier”, taglia corto l’altro. “Ora dimmi cosa sei venuto a fare, di pazienza non ne ho tanta quanto Logan.”
Erik si lascia sfuggire un sibilo corto dalle labbra piegate. Volge il capo dalla parte opposta ed i suoi occhi si posano sulla finestra; fuori il giorno si avvia verso la sera, il cielo è ancora chiaro ma tinteggiato di nuvole dai contorni rossastri, ed il mondo sembra così quieto e pacifico che vorrebbe poter chiudere gli occhi e dimenticare tutto quello che ha visto, quello che ha fatto, gli orrori che ha commesso e quelli che altri hanno marchiato a fuoco su di lui. Si limita a sospirare e continua a guardare fuori. “Quanto sono gravi le mie ferite?”, chiede.
“Erik”, c’è una pausa. Sente Hank esitare di nuovo, eppure non si volta. “Magneto”, si corregge, “rispondi alla mia domanda. Non è un asilo per rifugiati, questo; è una scuola, ci sono bambini e ragazzi e sono sotto la nostra responsabilità. Non vogliamo guai.”
“Nessun guaio”, sibila mentre si volta piano, il dolore che senza fretta si riappropria del suo corpo, anche se ormai non sa più se si tratti delle ferite o della vecchiaia. “Non sono io a portare guai, Hank.”
“Ah, bella questa, non l’avevo ancora sentita.”
“Sono loro.”
Il dottore assottiglia gli occhi ed Erik quasi riesce a sentirlo, il risentimento che gli scivola addosso. Wagner li interrompe, tuttavia: “Loro chi?”, chiede, con fare curioso, non del tutto allarmato.
Hank si lascia sfuggire una risata breve e vuota, stancamente beffarda. “Mi pare ovvio, signor Wagner: gli homo sapiens. La causa ultima di ogni nostro male, la sotto razza a cui il nostro amico, Magneto, si è prodigato a far la guerra fin da quand’era un ragazzino.” Lo scherno lascia presto posto al rancore, e poi al freddo distacco in un gioco di sfumature che si dispiega fin troppo velocemente. “O mi sbaglio?”, lo guarda.
Erik scuote il capo. Avrebbe parole e parole con cui contraddirlo, ma non ha il tempo né la voglia di rimanere a discutere. Lui ed Hank non si sono mai compresi del tutto, in fondo: due menti parallele, condannate a non incrociarsi mai, solo a sbirciarsi da lontano private della possibilità di comprendersi. “Non ti sbagli”, ammette, e lo vede sbuffare e gettare lo sguardo altrove, spazientito, quindi si affretta ad aggiungere: “Ascoltami, Hank: non sono qui come vostro nemico, non questa volta.”
“Questo lascialo decidere a noi.”
“Siete in pericolo”, insiste.
“Per ora quello disteso su un lettino sei tu. Non farmi pentire di averti fatto svegliare, c’è un Wolverine dietro quella porta che non vede l’ora di rimetterti le mani addosso.”
“Dov’è Charles?”
Tutto si ferma, d’un tratto. Non riesce nemmeno a sorprendersi del mutismo improvviso e sconcertato del dottore, dal momento che persino lui si sente perder fiato. Non pronunciava quel nome da… quanto?
L’aria si fa elettrica, percorsa solo da silenzi tesi, sguardi carichi di sospetto e rancore.
“Herr Professor è occupato con faccende urgenti, al momento”, l’elfo si intromette timidamente prima di posare una mano sulla spalla di Hank. “Devo andare a chiamarlo?”
“No”, è la risposta secca, lo sguardo che non si smuove da quello di Erik, come se il permesso l’avesse negato direttamente a lui. Wagner indietreggia con un sospiro scoraggiato.
“Se ha parlato di pericolo forse dovremmo ascoltarlo”, tenta, comunque.
“Lo farei se mi fidassi in alcun modo della sua parola.”
“Se ti fidi di quella dell’elfo, fammi parlare con Charles”, insiste.
“Non se ne parla.”
“Lui sa che sono qui?”
Il dottore scuote il capo per l’ennesima volta, dalle sue labbra sfugge uno sbuffo rumoroso, più simile al gorgoglio gutturale di una bestia feroce - un verso che gli si addice e che Erik trova perfetto - piuttosto che al sospiro dell’uomo pacato e composto che McCoy ha sempre finto di essere. “Il punto è, Erik, che non importa se lo sa o meno. Il punto è che appena sarai in forze per camminare ti voglio fuori da questa scuola. Il punto è che non saresti mai dovuto venire qui, perciò smettila di fare domande e pensa a riposare, così tu puoi tornare da dove sei venuto e noi possiamo tornare a dormire sonni tranquilli. Intesi?”
Non ha più voce, non ha più parole per rispondergli. L’orgoglio gli proibisce di ammettere che in fondo se lo merita, eppure sa di non essersi mai aspettato davvero niente di diverso. E’ solo che, quando non sembra rimanere altro che morte, quando una casa a cui tornare gli è stata strappata via per sempre, quando non gli rimane che egoismo, messo a nudo assieme alla carne e alle ossa, miserabile e meschino, l’unica soluzione possibile per lui è questa. Per lui è Charles.
Nel silenzio che segue, Hank decide finalmente di voltargli le spalle. “Non tentare mosse stupide, ti controlliamo giorno e notte.”
Vorrebbe solo chiudere gli occhi e sparire, liberarsi da questa condizione di bestia ferita e chiusa in gabbia, l’unica che non sia mai riuscito a sopportare, eppure in qualche modo riesce a far vibrare le labbra di un sorriso vuoto, inutile, spogliato di tutto quanto. “Niente prigione di plastica? Mi lasci qui così? Potrei liberarmi in un istante e fare del male a qualcuno”, dice - non ci sono catene ai suoi polsi, né corde a costringerlo al letto. L’unica prigione è il suo corpo, non c’è nessuno che lo sappia meglio di lui.
“Sei ferito e vecchio, Erik. L’unica cosa che spaventa di te, ormai, sono quelle assurde ossessioni che hai nella testa”, si ferma sulla porta, affiancato da Wagner, il quale gli lancia un’occhiata in cui Erik non riesce a riconoscere che pena. “Rimettiti in forze.”
“Lui verrà”, sibila, eppure non ottiene risposta. Il rumore della porta che si chiude inghiotte l’eco sottile della sua voce. “Lui verrà”, ripete alla stanza vuota. Si volta e torna a guardare fuori, costringendosi a non pensare più a nulla. “Verrà. Deve.”

………………
Trascorsero intere giornate o solamente una notte, forse nemmeno quella, Erik non avrebbe saputo dirlo. Iniziò a prendere confidenza con la gravità delle proprie ferite quando, dopo l’ennesimo lampo bianco fatto di ricordi e terrore, si svegliò in preda ai tremori e senza fiato in petto. Come tutte le altre volte che era successo, nessuno era accorso a domandargli cosa non andasse o ad assicurarsi che non fosse qualcosa di più grave che un banale incubo. Non lo era, Erik lo sapeva, eppure iniziava a sentirsi terribilmente solo, ed il silenzio gli ricordava le vite che si era lasciato alle spalle fuggendo via da quel campo di guerra. Forse, si costringeva a pensare, anche altri erano riusciti a mettersi in salvo, o forse qualcuno di quei ragazzi, di quegli uomini a cui aveva promesso il mondo, si era aggrappato alla vita con il suo stesso furore, e prima o poi sarebbe tornato a reclamare la sua vendetta.
Nei suoi occhi e nella sua testa c’erano solo l’odore di polvere da sparo e di carne strappata, le urla che non sapeva più nemmeno a chi attribuire. La vecchiaia l’aveva reso debole, era vero, ma l’aveva anche reso più disperato. Con la fine che si avvicinava non gli rimaneva più troppo tempo. Dopo la morte di Charles era precipitato tutto quanto, dopo la scomparsa della Fenice, dopo che persino i suoi poteri l’avevano abbandonato, non c’era più niente che potesse fare, nessun modo per rimediare, nessuno da cui farsi perdonare. Almeno fino a quando non erano comparse le prime Sentinelle, alla televisione e sui giornali, o quando non iniziò a spargersi la voce, vera oppure no, che il governo stava preparando un nuovo programma per il controllo dei mutanti. Erik non aveva potuto farci niente: erano stati loro a cercarlo, a pregarlo di guidarli, nonostante tutto. A quel tempo pensava di aver imparato le proprie lezioni, pensava che rifiutare sarebbe stato facile dal momento che non aveva più niente per cui combattere, eppure bastò poco, così poco, per infiammare una rabbia tanto antica con cui pensava di aver fatto finalmente i conti.
Un giovane mutante scomparso in fondo alle pagine di cronaca. La notizia di un incidente a cui nessuno aveva fatto caso. Ragazzi mai tornati a casa. Crimini infangati goffamente da cui non ci mise troppo a ricavare un pattern. La sua gente non era più al sicuro: qualcosa aveva iniziato a muoversi, di nuovo, ed il gruppo di spazientiti che insisteva per ripresentarsi ogni giorno alla sua porta stava iniziando a farsi man mano più consistente. Dimenticò i buoni propositi e li accolse, senza nemmeno pensarci, senza nemmeno il tempo di pentirsene. La sua lezione fu doverli guardare cadere uno ad uno, con gli occhi ribaltati al cielo e le speranze infrante, vite spezzate troppo presto, senza una ragione, eppure Erik l’aveva sempre saputo: la ragione era lui. Quei giovani non avevano colpa, se non quella di credere in un futuro migliore. E di aver chiesto a lui di mostrarglielo.

Come tante altre volte, si svegliò che il sole stava ancora filtrando dalle spesse tende tirate della sua camera, senza avere idea di che ora fosse. Come tante altre volte si ritrovò con le dita sbiancate attorno a lembi di lenzuola e la gola spalancata in cerca d’aria, come se fosse rimasto in apnea per ore intere. Aveva rivisto il volto di una delle ragazze che si erano unite per ultime alla nuova Confraternita. Il suo nome era Eva, la sua mutazione era così giovane eppure così promettente, i suoi occhi bruciavano di passione ogni volta che parlava del futuro. L’aveva vista accartocciarsi su se stessa prima ancora di poter sollevare le braccia in segno di resa, ed Erik si riteneva responsabile tanto quanto gli uomini che avevano dato l’ordine di inviare la Sentinella che le aveva dato il colpo di grazia. Eppure, grazie a lei, e grazie a tanti altri che non potevano più lottare, Erik aveva visto cosa sarebbe stato della sua specie se non avesse fatto qualcosa. Adesso, grazie a tutti loro, sapeva quale doveva essere la prossima mossa.
Gli ci vollero diversi minuti prima di riprendere fiato. Sentiva ancora dolore ovunque, ma con quello aveva imparato a convivere presto. Lo spiraglio appena visibile lasciato dalla porta accostata, invece, era un’autentica novità.
“Pensi di rimanere a fissare questo vecchio malato ancora per molto o hai intenzione di entrare?” Non poteva accertarsi di chi lo stesse spiando, ma sentì chiaramente un sussulto provenire da oltre la porta. Un bambino. “Di cos’hai paura? Magari ti sembrerò un fantasma, ma ti assicuro che sono innocuo”, si sforzò di sorridere ma non ci riuscì, dopotutto non era mai stato portato per quel genere di cose. Seguì un silenzio lungo che quasi lo convinse che chiunque si trovasse fuori dalla stanza se ne fosse finalmente andato. Alla fine, però, un viso piccolo e tondo fece capolino nella fessura fra la porta e la parete. Due occhi affilati e curiosi, incorniciati da capelli lunghi e biondi, lo stavano fissando.
“Be’?”, chiese Erik. “Hai perso la parola? Ti ho spaventato così tanto?”
“Non mi fai paura.”
“Oh.” Erik la osservò per un po’; era giovane, fin troppo per far parte del corpo studenti dell’Istituto. Le avrebbe dato undici anni, non di più, e con l’insistenza con cui stava mantenendo lo sguardo fisso su di lui non era nemmeno sicuro che stesse mentendo, riguardo al non essere intimorita. “Perché ti stai nascondendo, allora?”
“Non dovrei essere qui.”
“Ti hanno detto di non avvicinarti all’uomo cattivo?”, rise piano, nonostante il pensiero non lo divertisse in alcun modo. “Sai almeno chi sono?”
La piccola scrollò le spalle, le mani ancora aggrappate alla maniglia e i tre quarti del corpo nascosti dietro la porta socchiusa. “Nessuno vuole dirmelo”, rispose, “e comunque non mi importa.”
“Eppure eccoti qui.”
“Volevo solo capire perché tutti hanno paura di te.”
Erik la scrutò in silenzio; quella parola - paura - gli faceva un effetto strano, come se risuonasse tutto attorno senza sfiorarlo davvero. “Te l’hanno detto loro?”, chiese alla fine.
“Cosa?”
“Che hanno paura.”
La vide scuotere il capo. “Nessuno lo dice davvero, ma io non sono stupida, l’ho capito.”
Erik sbuffò a labbra piegate. “Sei una telepate?” Lei agitò il capo di nuovo. “Cosa sai fare?”, le domandò.
“Non te lo dico.”
Questa volta Erik rise perché aveva voglia di farlo. “Brava, non devi mai scoprire le carte miglior nelle prime mani.”
Il paio di occhi chiari si affilò impercettibilmente, dietro la porta. Il sospetto iniziale, tramutato in curiosità più distesa, era tornato a ricoprirsi di dubbio. “Cosa vuol dire?”, glielo chiese cautamente, sembrava un gatto selvatico.
“Niente. Una specie di complimento. Allora, hai intenzione di entrare oppure vuoi lasciarmi riposare?”
Lei strinse le spalle ma non rispose, eppure le ci vollero pochi istanti per decidere. Fece un passo in avanti, all’interno della stanza, quanto bastava per richiudersi la porta alle spalle e tornare a guardarlo in silenzio. Solo ora Erik si accorse che aveva addosso un’anonima maglietta bianca, di una taglia più grande del necessario che la faceva apparire ancora più minuta di quanto non fosse, ed un paio di jeans sformati e scarpe da ginnastica; Erik non notò niente che potesse suggerirgli la natura della sua mutazione, sempre che ne avesse già manifestata una: alla sua età sarebbe stato un evento piuttosto raro. Fu di nuovo lui a rompere il silenzio. “Allora? Che te ne pare?”
“Di cosa?”, la bambina non sembrò capire.
“Dell’uomo di cui tutti hanno paura.”
La vide esitare per un istante, o piuttosto sembrò che volesse prendersi del tempo per scrutarlo più attentamente. Alla fine, comunque, facendosi avanti gli rispose, “Sei solo un vecchio, non credo tu sia pericoloso.” Erik, di nuovo, non fu in grado di giudicare la sua sincerità. C’era così tanto nascosto dietro i suoi occhi grandi e cauti, eppure poco riusciva a filtrare dalla loro immobilità. Così giovane e così abituata alla vita, pensò Erik. Gli ricordò il bambino che era stato, se mai avesse potuto considerarsi tale; il pensiero lo rese un po’ triste.
“Già”, sibilò. “Già, forse non lo sono più.” Alzò gli occhi al soffitto bianchissimo.
“Qual è la tua mutazione?”
Quando Erik abbassò gli occhi, si accorse che la bambina si era spinta fino al bordo del letto. “Davvero non lo sai?”, le chiese. Lei sollevò le spalle senza dire niente. “Te la mostrerei se fossi in forze. Può essere piuttosto…”, le rivolse un sorriso che fece un po’ male, “spettacolare.” Negli anni che erano stati sicuramente lo sarebbe stata, o quanto meno lui era stato capace di renderla tale - interi stadi, il Golden Gate Bridge, persino quel sottomarino, a Cuba; adesso sarebbe stato a stento in grado di sollevare una posata per impressionare una bambina.
“Perché ci sono sempre delle guardie fuori dalla tua porta? Cos’hai fatto?”, incalzò lei. Erik sbuffò.
“A proposito: Logan è lì fuori? Come hai fatto a non farti vedere?”, non ci aveva pensato eppure, effettivamente, affinando i suoi sensi, non percepiva la presenza ingombrante e prepotente dell’adamantio fuori dalla porta. La piccola scosse il capo.
“Ha detto che stava morendo di noia e che non vedeva l’ora che il professor Xavier gli desse l’ordine di cacciarti a calci in culo. Poi è andato a prendersi una birra.”
Erik la osservò per qualche istante, accigliato. “Davvero?”
“No”, rise lei. Aveva una risata acuta e frizzante, che per un momento la fece apparire come la bambina che sarebbe dovuta essere. “Voglio dire, si, la parte della birra è vera”, ci pensò un attimo, poi strinse le spalle, “ma probabilmente anche il resto.”
Erik non aveva tempo per ridere. Incalzò, “Quindi non è qui fuori?”
“Forse è già tornato”, fece lei. Sulle labbra sottili le comparse un minuscolo broncio. “Non ti aiuterò ad evadere.”
Erik sbuffò spazientito. “Senti, bimba, perché sei qui?”
“Perché nessuno ci dice cosa sta succedendo. Voglio sapere. Tu sai qualcosa, vero?” Lei strinse le labbra poi, per un attimo solamente, Erik rivide nei suoi occhi la luce inconfondibile che animava lo sguardo di Eva, la stessa indomita ambizione, quell’impeto che solo quando sei appena stato gettato nel groviglio di caos che è il mondo puoi conoscere: quando tutto è ancora celato agli occhi, quando conosci il bello ma non il vero, quando il domani è ancora lontano e il presente, dopotutto, non ha ancora gettato la sua maschera di stabilità e conforto per mostrare il marcio che si nasconde sotto, in agguato. Erik non aveva parole per rassicurarla, né storie da distorcere e da presentarle come scuse, non era in grado di mentire, non sul mondo, non ad una ragazzina che gliel’aveva domandato con quegli occhi. Eppure non voleva abbattere le sue speranze, qualsiasi esse fossero. Respirò a fondo.
“Come ti chiami?”
Lei lo scrutò duramente per un istante poi, di malavoglia, mugugnò, “Illyana. Illyana Rasputin.”
Erik si ritrovò a sospirare, non sapeva nemmeno perché. “La sorellina di Colosso. Piacere, Illyana. Erik”, mentre le porse la mano, sentì le dita pesanti e sul punto di tremare, fra le sue, eppure riuscì a restituirle una stretta quasi degna. “Per favore, aiuteresti questo vecchio ad alzarsi?”
“Ma non mi hai detto nulla!”, gli rispose, un pizzico di esasperazione che iniziava a incrinarle la voce.
“Illyana, ascoltami, devo parlare con Xavier prima. E’ importante.”
“Lui parla solo con il dottor McCoy e con Logan o Ororo, a noi non dice mai nulla.”
“Con me parlerà”, la voce gli precipitò fuori dalle labbra come se avesse avuto quelle parole incastrate in gola da troppo tempo, in attesa del momento adatto a sputarle fuori, eppure, ora che l’avevo detto e quando Illyana gli chiese come potesse esserne così sicuro, persino quella sua assurda convinzione iniziò a vacillare. Non riuscì ad articolare parole per diversi istanti che gli parvero infiniti, e alla fine tutto ciò che riuscì a restituirle fu un’ennesima domanda. “Mi aiuterai?”, per quanto disperato potesse suonare, non era rimanendo sdraiato in quel maledetto lettino che avrebbe potuto fare ammenda per tutte le vita spezzate di fronte ai suoi occhi vecchi e stanchi.
“Mi prometti che se ti porto dal professore mi dirai cosa sta succedendo?”
Erik annuì senza attendere. “Ti dirò tutto. Lo saprete tutti quanti.”
“Ok.”

warning: what if, challenge: cowt, pairing: cherik, fandom: x-men movieverse, rating: safe, post: fic, fandom: x-men comics

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