Jul 24, 2011 12:13
Philippa e James - Credete davvero che loro non sappiano?
“Daddy?”
“Yes?”
“Is mommy with you?”
Philippa ogni tanto osserva la nonna e le torna in mente mamma. Il modo in cui muove le mani, il modo in cui ogni tanto raccoglie i capelli, il modo in cui pronuncia il suo nome quando la sta sgridando. Tutto grida mamma mamma mamma nelle sue orecchie.
Ma la nonna non è mamma e questo Philippa lo sa perfettamente. James ogni tanto si intrufola nel suo letto e lei sa che vorrebbe chiederle tante cose, vorrebbe chiederle almeno una di quelle domande che gli adulti si ostinano a non voler rispondere - come se i bambini non capissero. Come se fossero stupidi. Philippa è piccola, sì, ma non è stupida. Philippa sa perfettamente, e a volte è difficile non dire niente a James, a volte vorrebbe qualcuno con cui parlare, parlare veramente, ma James forse è troppo piccolo. Forse lo è sul serio.
Philippa quindi si tiene strette le sue domande e continua ad osservare nonna e a pensare a mamma e a voler parlare con papà al telefono. Le manca tanto la sua voce. Le manca tanto vederlo e farsi stringere forte e ridere aggrappata a lui.
Un tempo erano felici. Lei, James, mamma e papà. Un tempo abitavano in quella casa e tutto era bellissimo e Philippa si ricorda che rideva un sacco e James si divertiva a trotterellare in giro, aggrappandosi ancora ai mobili per non cadere e poi…
Poi c’è l’adesso. E Philippa non è più così felice. Guarda sua nonna e ripensa alla sua mamma e le manca da morire. Le manca il suo profumo e le sue carezze e il modo in cui le accarezzava i capelli. Sa perché mamma non c’è più. Sa che è morta e che è andata in cielo e che le vorrà sempre bene.
Non sa, però, perché anche papà è sparito. Papà non è morto, e di questo ne è sicura. Ma non capisce perché non può tornare a casa.
È una delle tante domande a cui gli adulti non rispondono mai. Ed è l’unica cosa che Philippa vorrebbe veramente sapere.
Cobb e Mal - Tornerò sempre indietro. E mi odierò per questo.
“I’ll come back. I need you to stay here on your own for now. Just while I do this job. Then we can be together.”
Cobb non sa perché continua a farlo - no. Lo sa. Lo sa perfettamente ma non può ammetterlo, perché farlo significherebbe dichiararsi spacciato. Non può dichiararsi spacciato, non può pensare di essere caduto così in basso, non può pensare di essere arrivato a tanto -, ma lo fa.
Mal è stata una presenza rassicurante nella sua vita per anni interi. Mal è stata la sua vita per anni interi. Non riesce a lasciarla andare, non ci riesce.
È sempre con lui. In entrambi i mondi, quello reale e quello… quello che non potrà più esserlo. Ogni volta che deve lasciarla, ogni volta che deve svegliarsi da tutto quello - e deve farlo, nonostante sia così difficile, nonostante il tempo non riesca a guarire quella ferita -, deve dirle addio. Ogni volta deve guardarla e dirle - dirsi. Deve ripeterlo a se stesso, più che a lei. Perché lei non è reale, non più. Lei è nella sua testa. Lei è la sua testa - che deve andare. Senza di lei.
Ogni volta è come perderla di nuovo. È come lasciarla scivolare via, guardandola negli occhi, senza perdersi una goccia di quell’odio e di quella rabbia che il suo sguardo gli comunica dietro ad un amore troppo grande, forse, per essere compreso.
Ogni volta la guarda e la rabbia che prova verso se stesso sfocia in superficie attraverso di lei.
Le dice addio, ma mente.
Non riesce mai a lasciarla. Mai.
E si chiede se un giorno ci riuscirà mai. E non trova risposta.
Eames e Arthur - È una questione di priorità. Ma le tue sono tutte sbagliate.
“Be back in time for the kick”
Eames lo osserva dal tavolo della cucina contro cui è appoggiato. Arthur si sta guardando intorno, cercando di capire se è possibile che abbia dimenticato qualcosa. E sì, è possibile, perché Eames ritroverà un paio di gemelli in oro bianco nel suo cassetto.
Arthur è di fretta, comunque, e una rapida occhiata è l’unica cosa che può concedersi. Potrebbe concedersi di più, se solo il suo cervello non fosse settato su un unico pensiero.
Eames lo odia.
Odia lui e odia Cobb e odia anche Mal, nonostante tutto, perché se solo…
Il pensiero muore a metà strada, perché neppure in quelle circostanze riesce veramente ad odiare Mal. O Cobb. O Arthur. Soprattutto Arthur.
“Penso-“
“Sì.”
Eames trancia sul nascere qualsiasi cosa stesse cercando di dirgli Arthur. Non lo vuole ascoltare - vorrebbe, in realtà. Ma vorrebbe avere più tempo e non ce l’ha. Quindi no, non vuole sentirlo.
Arthur lo guarda negli occhi, le dita stretta attorno alla cinghia del borsone e le labbra strette in un’espressione seria. Il suo sguardo è stanco. E triste. Ma Eames si rifiuta di vederci della sofferenza al suo interno, perché in quel momento lo odia e vederlo star male… vederlo star male porterebbe Eames ad odiarlo di meno e sarebbe ingiusto.
“Io vado, allora.”
Eames serra la mascella. “Non devi dirmi niente?”
Non sa cosa vuole sentirsi dire. Qualsiasi cosa può andare bene, in quel momento.
Arthur tentenna per un momento. Lo guarda e i suoi occhi indugiano forse un po’ troppo sulla sua figura. E ad Eames risulta veramente difficile odiarlo. E per questo, lo odia ancora di più. Perché non può avercela con lui tanto quanto vorrebbe.
Ed è ingiusto.
“Cerca di non farti ammazzare.” Dice infine Arthur ed Eames sorride leggermente.
Lo guarda uscire dalla porta, verso qualsiasi cosa ci sia là fuori, verso qualsiasi follia lo stia trascinando Cobb.
“Anche tu.” Mormora. Ma Arthur se n’è già andato.
Eames non riesce più ad odiarlo neppure se ci prova.
Ed è ingiusto.
Cobb, James e Philippa - Forse è stato meglio non averli visti un’ultima volta.
“Then I panic that I’ll always wish I’d seen them turn, that I can’t waste this chance…”
Cobb li rivede di continuo, nei suoi sogni.
Il PASIV lo aiuta a tornare da loro, gli permette di averli nuovamente davanti, di vederli giocare, di far posare i suoi occhi sui loro capelli, continuando a sperare che si voltino verso di lui, almeno una volta. Un’ultima volta.
James e Philippa sono sempre uguali. Sempre gli stessi. Con sempre gli stessi vestiti. Lo stello taglio di capelli. Gli stessi gesti.
Non li vede mai in faccia, perché ha paura di cosa potrebbe trovarci. Visi che conosce alla perfezione, visi che ama così tanto che a volte non riesce quasi a respirare da quanto gli mancano, visi che saranno mutati in quei mesi e che non può immaginare in che modo. Si rifiuta di vederli in viso, perché li vedrebbe come un tempo.
Ma il tempo è passato.
Cobb lo sa. Si tortura con quel pensiero, si tortura di continuo e torna in quella casa, in quel momento, e si chiede se abbia fatto la scelta giusta.
Vede James e Philippa correre via, lontano da lui, un’ultima volta, senza voltarsi, senza mostrargli i loro volti. Cobb riesce ad immaginarli, ma non è abbastanza. Non è reale.
Non vuole che lo sia. E ogni volta si impone di non chiamarli per nome, ogni volta quelle parole rimangono intrappolate nella gola.
Non ha il coraggio di guardare i suoi figli in faccia e vedere che nulla è cambiato. O che, forse, è cambiato tutto.
Arthur ed Eames - Non potremmo mai funzionare. Forse.
“Eames? But he’s in Mombasa.”
È solo un giorno e mezzo che si trova lì.
Pensava di avere più tempo. Pensava che sarebbe stato tutto diverso. Pensava che sarebbe potuta andare, che avrebbe potuto funzionare, con quello strano meccanismo che hanno avviato troppo tempo prima. Evidentemente si sbagliava.
Adesso capisce, comunque, ciò che ha provato Eames. E avrebbe preferito non saperlo.
“Perché Mombasa?”
Eames scrolla le spalle, mentre infila il caricatore della pistola nel borsone e Arthur segue quel gesto con un misto di apprensione e di disgusto. Le armi sono sempre state problematiche. Sempre.
“Perché mai dovrebbero venirmi a cercare a Mombasa?”
“Perché non dovrebbero?”
Eames lo guarda e gli regala un mezzo sorriso, prima di avvicinarsi a lui. Il sorriso è sparito e Arthur non sa cosa aspettarsi. È Eames, potrebbe fare qualsiasi cosa, per quanto ne sa.
Eames si limita a guardarlo, come se volesse raccontargli troppe cose, come se le parole non potessero essere comunque abbastanza. Arthur ha presenta la situazione, la conosce profondamente e ne ha sempre avuto paura. Odia non avere le parole.
“Mi dispiace dover… andare”
Arthur inarca un sopracciglio. “Non hai molta scelta”
“No, non ce l’ho. Questo non vuol dire che debba esserne felice”
Arthur distoglie lo sguardo. È solo da un giorno e mezzo che è lì. Sono mesi che gira per il mondo seguendo Cobb. Ed è lì da solo un giorno e mezzo.
“No, ipotizzo di no”
Eames gli si avvicina ancora un po’ e Arthur vorrebbe spingerlo via, ma non lo fa. Continua a non guardarlo negli occhi e a fissare il pavimento, sperando che cambi qualcosa, perché è solo un dannato giorno e mezzo che si trova lì, in quella casa, e non hanno neppure veramente parlato e quello stronzo ha deciso di mandare a fanculo un lavoro proprio in quel momento.
Eames rimane davanti a lui ancora per qualche istante, prima di spostarsi e andarsene senza dire nulla.
Arthur ne è felice. Se Eames… se Eames l’avesse baciato, probabilmente gli avrebbe tirato un pugno. Dovevano parlare, non di certo saltarsi addosso. Parlare. Parlare. Parlare. In un giorno e mezzo c’era stato solo un mucchietto di parole e niente di utile, in ogni caso.
Se Eames l’avesse baciato…
Vaffanculo, Eames, vaffanculo. Avresti almeno potuto provarci.
Casa - Non sono i legami di sangue a creare una famiglia.
“You know where you hope this train will take you, you can’t know for sure. But it doesn’t matter… because you’ll be together.”
Eames è appoggiato contro il ripiano della cucina con un sorriso, che non cerca neppure di mascherare, stampato sul volto.
Sta osservando Arthur giocare con Philippa, mentre James cerca di catturare la sua attenzione tirandogli una manica della camicia e cantilenando con insistenza un “Zio! Zio! Zio!” fino a quando Arthur non si gira verso di lui.
Eames non ha voglia di pensare ad un nome adatto a descrivere ciò che sente. Sa che c’è e tanto basta. Sa che può permettersi di sorridere guardando Arthur giocare con due bambini. Sa che può restare nella cucina di Cobb e non preoccuparsi di nulla - a parte, forse, di ciò che Dom propinerà loro da mangiare. È un compromesso interessante, comunque.
Pensa invece, che qualsiasi cosa sia, gli piace. Gli piace quella sensazione di stallo, quella non frenesia, quell’essere lì e non avere intenzione di spostarsi, quell’osservare e capire e immagazzinare dettagli nuovi di qualcosa - qualcuno - che conosce da tempo.
Finisce di bere il suo bicchiere d’acqua - semplice. Semplicissimo. Ed Eames in quel momento non potrebbe chiedere nient’altro che semplicità. Sembra un concetto così assurdo, per loro - e si sposta dalla cucina. Lancia un’occhiata a Cobb, accanto a lui, prima di avvicinarsi ad Arthur e inginocchiarsi per terra.
James si gira subito verso di lui e pretende di essere preso in braccio adessoorasubitoinquestoistante. Ed Eames lo accontenta senza battere ciglio.
È tutto fin troppo normale. Ma Eames non ha mai avuto nulla di normale nella propria vita.
E l’unica cosa cui riesce a pensare è che gli piace. E che non sa - o non vuole - dare un nome a tutto quello, ma gli piace.
La risata di Philippa riempie la cucina, mentre gli occhi di Eames si concentrano sul sorriso silenzioso di Arthur.
Non sa cos’è, ma è abbastanza.
NOTE: E sono tornata a scrivere su Inception. Quanto mi erano mancati tutti loro ;_;
Ringrazio Elena per il prompt bellissimo che mi ha dato, visto che mi ha permesso di tornare a riversare parole e amore su un film e su dei personaggi che per me saranno sempre sempre bellissimi. Spero ti sia piaciuta <3
E spero sia piaciuta anche a chi si è ritrovato a leggerla :) E’ stato un piacere scriverla <3
anno: 2011,
!one shot,
fandom: inception,
!warning: slash,
rating: pg13