Diversi anni fa, più di venti ormai, per un certo periodo lavorai in una fabbrica. Ufficialmente ero nella squadra manutenzione, ma in realtà facevo un po' di tutto: l'imbianchino, l'imballatore, l'accatastatore di bancali, quello che spinge i filltainer a destra e sinistra per il magazzino eccetera.
Quando arrivava l'ora di pranzo capitava che andassi a mangiare per conto mio in uno stanzone al primo piano.
Si trattava, credo, di una specie di spazio comune ad uso non meglio identificato: c'erano delle sedie e la macchina del caffè in un angolo. Mi portavo un libro, un paio di panini e me ne stavo un po' in pace con le scarpe antinfortunistiche sul davanzale.
Del resto non c'era quasi mai nessuno a quell'ora (probabilmente neanche in altri momenti della giornata), dal momento che tutti gli operai andavano alla mensa interna.
La finestre dello stanzone da un lato davano sul retro della fabbrica. Guardavi sotto e c'era una spazio di due o tre metri: era la strada che praticamente girava intorno all'intero complesso, e collegava il piazzale di carico con gli altri accessi.
Verso l'esterno la strada era delimitata da un muro. Stando al primo piano potevi vedere cosa c'era di là, ed era un parcheggio asfaltato sempre deserto, circondato da degli alberi magri, come quelli piantati da poco e che hanno intorno quella sorta d'intelaiatura fatta a quattro pali con i legacci.
Oltre ancora c'erano soltanto i campi arcigni, simili alla teoria di setole sulla groppa d'un verro, che vedi intorno a Milano nelle zone industriali quando confinano coi terreni per uso agricolo.
Difatti a quell'epoca (ora non so com'è) per andare alla fabbrica dovevo traversare mezza città in metropolitana e poi prendere una specie di treno extraurbano il quale non si capiva bene se era tranvai o tradotta di pendolari.
Un ordigno residuante altre epoche, allietato da tendine di tela greggia ai finestrini e dal sediolo del bigliettaio, sebbene in disuso.
Ma tornando al parcheggio dietro la ditta, un giorno vidi arrivare un Fiorino bianco. Al volante c'era un uomo, lo distinguevo abbastanza bene, poiché aveva parcheggiato perpendicolarmente al muro ed era quindi esposto alla visuale attraverso il parabrezza.
L'uomo senza perdere tempo tirò fuori una bustina, il cucchiaio, la steringa e si preparò... come la vogliamo chiamare, una spada, una pera, una dose, un pippotto… a seguire per completezza terminologie regionali o vernacole.
Con calma premette egli l'ago in vena, annesso, presumibilmente, il famoso “richiamino”. Dopo si accese una sigaretta e si rilassò contro il sedile.
Trascorso un po' di tempo aprì la portiera e scese, cosicché ebbi modo di vederlo in dettaglio quell'uomo. Era uno d'aspetto qualsiasi, un po' simile, per chi conosce la problematica, a certi scoppiati del bar del paese o del quartiere: gente non proprio a posto, ma comunque con una sua dignità. Questo qui nella fattispecie era non troppo alto di statura, magro, col giubbotto di jeans, e soprattutto di età tra i trentacinque e i quaranta.
Codesto soggetto, per il tempo che rimasi alla fabbrica in qualità di manutentore ma in realtà tuttofare, prese a venire al parcheggio un giorno sì e l'altro no, all'incirca. Metteva il cucchiaino sul pianale, tirava fuori la steringa, gli dava con la fiamma, poi il richiamino, la sigaretta e così via.
Insomma, si trattava di una cosa abituale come timbrare il cartellino la mattina, tanto che, con ogni evidenza, non aveva impedito al tale di avere una vita normale: col suo lavoro da assistenza tecnica o giro di consegne, i suoi vestiti da persona qualsiasi.
Probabilmente a casa aveva pure una donna, magari dei figli.
Vedere uno che si fa una dose d'eroina non era cosa che mi colpisse in modo particolare: nel mio quartiere quando ero un ragazzino si drogavano tutti, e scene del genere ne avevo viste tante. Però vedere questo qua, tossico pluriennale che si ritagliava il suo momento di relax in pausa pranzo, mi faceva una strana impressione.
Forse era il fatto che l'aura di consuetudine che permeava il tutto sottraeva drammaticità e pure mistero a quella specie di rituale autodistruttivo a cui ero abituato. Oppure che il tale del Fiorino, che continuavo ad immaginare padre di famiglia, non assomigliava a quelli che conoscevo io, i quali s'erano sfasciati la vita con la droga: tutti giovani, piegati dall'ingenuità e dall'ignoranza della vita (per molti un’ignoranza obbligata e data dalle circostanze) che stava in certi rituali di gruppo.
Pensavo in quella a certi miei vecchi amici e conoscenti che ogni tanto sortivano dalle vasche della memoria: Robertino, vecchio compagno di giochi; il Mario Pulga, che già per la famiglia che aveva era uno segnato; Fantoni (non ricordo più il nome di battesimo... del resto è morto da diversi anni), bravissimo ragazzo, ottimo portiere a cui io facevo da riserva.
C'era dunque un continuo riallineamento tra quei fatti confusi e, ripeto, (forse) drammatici che ricordavo, e la consuetudine di uno che un giorno sì e uno no si mette comodo in un parcheggio al limitare estremo della città e senza dare fastidio a nessuno eccetera.
Se mi fossi sporto dalla finestra e gli avessi gridato: oh, quante mani ancora ci restano da giocare?! mi avrebbe mandato di sicuro a fare in culo, e comunque sarebbe stata una penosa trovata neanche teatrale.
E poi basta su questa cosa, anche perché non mi viene nulla di ulteriore o intelligente da dire. Magari potrei un dopodomani scrivere la storia del Mario Pulga, ad esempio, per come lo ricordo io, come l'ho visto diventare nel corso del tempo, roba di pochi anni peraltro. (ricordo anche sua sorella, più grande di me di cinque o sei anni: una bellezza come ne ho viste poche, ma veramente).
Se ci fosse ancora il Rischiatutto mi presenterei mica per niente in quella materia là: Robertino, Mario Pulga, Fantoni, Nuccio, Salvatore, fratello di Salvatore, Eleonora L. (però me lo ricordo il cognome).
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Tutto questo m'è tornato in mente giorni fa, mentre attraversavo la piazza antistante la Stazione Centrale.
In questa piazza, la quale negli ultimi anni è diventata vieppiù una gettata di pietra chiara proiettata su tutta l'area come il lancio di una tovaglia prima di pranzo, quando per un istante la vedi plasticamente in volo e poi si deposita bianca sulla superficie del tavolo... in questa piazza che chissà come m'ha pure ricordato l'enorme cretto di Burri a Gibellina, sebbene a differenza di quello non dovrebbe avere ne' propri presupposti nulla di monito alle potenze distruttrici della terra, in questa piazza m'è capitato infine di passare spesso da quest'estate in qua.
A settembre ad esempio vidi che gli alberi sul lato sinistro erano stati presi d'assalto da schiere di migliaia di storni impazziti che verso sera volavano come stretti stretti l'uno all'altro stridendo intorno ai platani.
Lì sotto, o meglio accanto a quei platani è un ritrovo di skaters. Per la conformazione della piazza, ci sono come dei gradoni e dei passamani di metallo dove questi ragazzi salgono e scendono con le tavole.
Passi di lì e senti questo rumore di legno e di ruote di gomma dura che battono contro la pietra. E' un continuo tla-tlac. Prima vvvvrrrr, poi tla-tlac, a cui spesso, verrebbe da dire quasi sempre, si associa lo schianto della tavola che parte via perché la manovra non è riuscita.
I ragazzi le corrono dietro alla tavola, mentre scivola di piatto. E i ragazzi quasi sempre indossano scarpe marca Vans o Airwalk (più rare queste ultime).
Da telefonini di ultima generazione, sugli spalti, esce al volume massimo permesso dal dispositivo qualche pezzo emo-core denso di stacchi e rullate.
- che poi di questi telefoni che erogano musica bisogna riconoscere il progenitore, ovvero l’istrumento di cui parla Jimi Hendrix in questo verso di Midnight lightnin’: “I’m calling long distance on a public saxophone” -.
Gli skate inoltre hanno teschi e altre simulacri dei sottoscala orfici aerografati sul ponte, con la campitura che spesso s'è abrasa in più luoghi da tutte le volte che il legno è rimbalzato contro la cruda terra.
Del resto l’avranno visto tutti uno di questi gruppi di skaters che passa la giornata in qualche luogo minimamente adatto ad andare su e giù, sopra e sotto con i loro pianali a rotelle, o addirittura presso una rampa vera e propria.
Li trovi ovunque (persino a Savona, sì, anche se c'è chi non ci crede): le stesse magliette col logo della Volcom, le stesse fasce di cuoio intorno ai polsi, i berretti con la visiera. Ma non è questo di cui volevo parlare...
Tu lo sai, son ragazzi, hanno questo entusiasmo che a quell'età intorno ai diciotto al giorno d'oggi non capisci se è roba genuina oppure solo la riduzione a un riflesso condizionato che scaturisce dall'aver membra elastiche, pochi pensieri pel capo (si suppone), un orizzonte apparentemente illimitato fatto d'ore da passare con gli amici sulla rampa.
Ma appunto non è quello.
E' che tra loro ce ne sono diversi, li ho visti, che i vent'anni li hanno lasciati alle spalle da un pezzo. Gente che come età sta allo skateboard come quel tale di tanti anni fa stava all'eroina come ce la si immagina alla fine degli anni settanta (di nuovo l'angelo sterminatore sceso in terra con la spada fiammeggiante, la maladolescenza acquiescente e facile da mietere...).
Tipi magri anch’essi, familiari da lunga pezza con la superficie della tavola. La barba di tre giorni in viso che pur non segnato nel profondo, ha quello spostamento dell’asse terrestre che s’origina dai trent’anni ormai giunti sotto forma di un parziale, ma decisivo, restringimento nella percezione del tempo e dello spazio. Il concetto di dopodomani fattosi più netto, non più astratto o indistinto.
Immagino che se uno andasse a Huntington Beach ne vedrebbe di simili, magari più muscolati, con l'abbronzatura, i capelli decolorati dal sole che entrano in acqua con la tavola sotto il braccio.
E saltano, tla-tlac, sui gradoni, fanno correre la pancia della tavola messa sul bordo e a quarantacinque gradi. Ciononostante pare proprio non possano avere quella stessa spensieratezza posseduta dagli altri, i giovani che son lì in una sorta di piena cittadinanza di svago.
Lo svago che praticamente discende, dai biliardini di tanti anni prima, dalle partite di pallone ai giardini pubblici.
I vecchi dello skate magari finito di rullare sulla rampa pigliano il motorino e vanno a cominciare un turno di consegna pizze o qualche altro lavoro di merda consimile.
E anche le maglie, i pantaloni un poco larghi che fan diverse pieghe dabbasso sulle Vans a quadretti, se ci fai caso, se presti attenzione, se fai le debite proporzioni, li portano come il completo giacca e pantaloni che gl’impiegati di concetto di una volta alternavano - feriali - al vestito dei giorni di festa.
Non è colpa di nessuno, sono solo orbite definite come quelle degli astri nel cielo notturno - come quelle osservabili e riducibili a leggi .