Dei fatali prolassi dello spirito che l'adolescenza può arrecare, molti di essi è ragionevole ritenerli dovuti alla timidità del carattere. Diverse volte gli capitò di pensare che una problematica del genere ha una frequenza per così dire elevata - certo, in questo volendosi attenere a terminologie da rendiconto statistico - e per quanto c'è dato di sapere si presenta in diversi luoghi e culture.
Peraltro il fattore climatico delle isobare o quello geodetico dei parallassi non paiono influire in maniera determinante su ciò, e neppure in particolar modo le credenze religiose - è proprio che l'adolescenza, con le sue flange di metallo greggio pronte a chiudersi sulle squisite carni e innocenti, è una bestia dal fiato agro.
Non di quei respiri che possono aderire ai sensi, era piuttosto qualcosa di simile alla graveolenza di un ambiente chiuso e umido dove qualcosa sta fermentando: un mosto esistenziale, una sovraesposizione interiore, infine un introiettato moto di piazza.
Quel pensiero quando egli lo produsse... cioè, non proprio il pensiero in sé, quanto la cosa di ricreare il chiuso del fiato che era la fatica (o timidità) di vivere dell'adolescenza, gli fece accelerare per qualche istante il battito del cuore.
Se tutto ne’ le fibre della vita accadesse secondo il canovaccio delle antiche commedie dei differimenti/riconoscimenti, allora avrebbe anche dovuto far correre un dito a separare la pelle dal collo della camicia, come quando all'improvviso una folata di caldo t'ha colpito.
Di solito, il gesto che segue a questa separazione è di estrarre di tasca il fazzoletto per asciugarsi la fronte. In pratica il gesto abituale degli spossati, sopra una strada di polvere deserta nel deserto meriggio, prima di sedersi a riprender fiato su un paracarro tra i papaveri quasi invetriati dalla rena sottile. Purtroppo però non è più l'epoca dei fazzoletti di stoffa: la detersione del sudore ha ormai molto più di prosaico, nonché industriale, forse persino di bestiale.
E comunque, comunque comunque, l'adolescenza con il suo clima del tropico spirituale da atroce paese che non amo, per fortuna egli se l'era lasciata alle spalle da tempo. Era un uomo adulto ora: ampio torace, polsi da corderia. Questa constatazione ebbe due effetti: di rallentare l'alto regime del cuore-motore, indi di procedere a cancellare dall'orizzonte l'opportunità di far passare il polpastrello tra coppa e camicia.
Ciononostante, inutile nasconderselo, il carapace dell'età ingrata a suo tempo gli era di molto gravato sulle coste. Ricordare certe sensazioni è come scendere in un crepaccio da una via sicura, la lucerna sul casco da speleonauta, i ganci ormai assicurati alla pareti affinché la corda scorra senza inciampi.
La scesa in sicurezza dentro te stesso essendo in ogni istante al corrente che avrai agio di tornare lassù alla luce poiché la corda è solida e tesa - o supposta tale, giacché la sfera psicologica dissero che è il folto del bosco dentro ad una notte altrettanto - non ti preserva dalla sensazione di freddo del rauco paesaggio di sottoterra. Gli arti ischeletriti delle paure di un tempo, ora confusi nello scabro delle pareti di saponite. Avere almeno un martello per rompere con un gesto rabbioso le scisti fino alla vena!
Allora come segnale dai uno strattone affinché qualcuno o qualcosa ti riguadagni alla comunque incerta superficie. Che questo lavorio interiore di canapi, moschettoni, ramponi, piccozze ormai egli non avrebbe saputo dire se si trattasse di un passatempo, ancorché urticante, atto all'infinito rimescolio di carte che non sempre si ha voglia di voltare, oppure di un vero e proprio sport solipsistico nel quale si sprecavano entrate a gamba tesa, ciò alla faccia del fair play e de' vari gentlemen agreement.
Del resto il computo era semplice: fosse ancora stata in attività la puerizia dei quindic'anni, sarebbe tornato a casa per gittarsi senza costrutto nel divano, la testa dentro ad amarissime riflessioni. Ma adesso... ah adesso aveva camminato il mondo per quant'era lungo - gli anni erano trascorsi, e se v'era una domanda di una qualche impellenza, aveva a che fare col chiedersi se il tempo speso in tutta quella metafora del camminare avesse sortito un qualche effetto positivo, ciò attenendosi al blando concetto di contabilità.
Inoltre l'età dei bilanci ognuno ha la sua, per quanto era lecito credere che nessuno quei bilanci veramente stilasse. Capitava che a un certo punto si afferrasse una matita immaginaria (e copiativa), un foglio altrettanto immaginario (magari di riciclo e con una lista di biancheria vergata sul verso) e di corsa a scrivere su due colonne quel che fino a quel punto s'era sbagliato, quello che s'era azzeccato, e magari in nota pure le situazioni d'incerta valutazione, le quali probabilmente finirebbero a costituirsi in nugolo oltraggiosamente ampio.
Quante volte si son sentite arieggiare simili situazioni... addirittura talvolta con un qualcosa di sacrale - cosa vieppiù ridicola - nel tono di voce di chi te le raccontava. Ma sono soltanto chiacchiere, egli pensava; anzi: ne era proprio convinto.
L'unica cosa che ha l'uomo di fondante, e indiscusso e comune a tutti, è il timore della morte. Stante codesto timore, poi è chiaro che vengono poste in moto ogni sorta di macchine di dissimulazione, oltreché distoglimento di sguardi.
Le barricate che in queste occasioni s'alzano avendo per materiale i ricordi d'una vecchia edificazione, la quale poi sia vera o supposta-tale non importa, ricordano quelle delle guerriglie strada per strada.
I bilanci del dare/avere hanno a che fare con il contenimento del gelo ossessionante che s'annida nelle lontananze stellari. Le stelle incombenti che a un certo punto paiono frutti a gravare dai rami d'un albero: enfi, zuccherini, infestati o morsicati da insetti. Mica le stelle che secondo la vulgata facevano struggere i poeti…
E si ritorna dunque al timore della morte: polvere siete e compostaggio ritornerete, come si udiva prescrivere non senza saggezza, pensò cavando di tasca le sigarette. La prima boccata che tirò ebbe quel suono netto che a volte capita di sentire, quasi si trasponesse nell'atto di tirare dal filtro l'urgenza o la risolutezza di pensieri altri, i quali si sfogano, non avendo altra via, in quel suono come di un bacio schioccato cui fa seguito il rilascio del fumo.
Stanco rilascio, apertura lenta della paratia. Carichi i gesti e fai gli occhiacci al mondo, anche se a quello, il mondo, ben altro lo spaventa! Ed anche, col fumo della sigaretta che scendeva ne' bronchi, certo attossicante, ma anche con una funzione analgesica a fronte di sassosi pensieri (i sassi che trovatili a terra in qualche canalone, t'accorgi subito che in milioni d'anni si sono come “aggregati”), una voglia di allegro caffè - ciuff ciuff, il treno in corsa ch'esce fischiando dalla galleria - nero e caldo e espresso che si accompagna, anzi spesso si affratella, al sapore di tabacco.
Il suo bar abituale era proprio una cinquantina di metri più avanti: si appalesava in un'insegna gialla e una réclame di una marca di caffè: qualcosa di confuso ma colorato, con un palmizio e un sombrero.
Entrandovi egli pensò a quanto gli era balenato per la mente prima, quando era andato appunto alla questione della timidità cagionata dall'età ingrata, o quantomeno da essa ossianicamente portata alla luce fuori da un sonno strapiombo.
Perché adesso poter dire che quello era il suo bar abituale, dava luogo a catene proteiche di considerazioni. Datosi che da adolescente la timidità fuori di una ristrettissima cerchia, ovvero dentro al gabinetto di curiosità del mondo sensibile e oltre, era come se lo conficcasse al suolo (corbacci neri si staccavano quindi dai bracci ricoperti d'edera delle croci per andargli a straziare il pube), l'essersene liberato nell'età adulta, guadagnandone in saldezza dell'essere, controllo pressoché totale delle funzioni, anche quelle nere, da suburra, dei visceri, era stata un'impresa da titano.
Ciononostante non ne rammentava passo a passo le modalità, il dolore ragionevole che v'era stato, dentro a quel processo. Era semplicemente accaduto, nel tempo, in un grande lavoro della pressione idraulica degli olii di minerale che spingono i pistoni della vita. Nelle locuzioni di “non ricordo; forse ho rimosso” capita di rapportarsi alle cose trascorse involvendo nel loro determinarsi aspre intraprese spirituali.
Così o all’incirca doveva essersi detto lui. Ma poi, in definitiva, e in relazione alla porta del bar che ora andava spingendo inoltrandosi nello spazio dei tavolini, delimitato poco avanti dal banco, la garitta dei tabacchi ben presidiata sulla banda di sinistra, non era quello il punto in generale. Il punto era che ciò che era ora, appunto saldo in arcione, nasceva dall'aver lasciato a terra la pelle morta di spersa timidità, ma rimanendone non del tutto integro.
Infatti non era riuscito infine una persona socievole, fino a quel punto d'apertura del diaframma la strada percorsa non l'aveva portato. Rimanevano delle lingue di ombra nella sua luce non proprio vivida ma bastevole.
E comunque nelle questioni dei rapporti personali sapeva disimpegnarsi anche assai bene alla bisogna: poteva addirittura rilasciare coscientemente i canapi delle riserve caratteriale per posizionarsi in un interesse sincero verso le persone in cui gli era dato d'incorrere.
Era un riguadagnare la guizzante facoltate; anzi acuirla con un costante lavorio, com'è degli atleti che riscaldano i muscoli prima della competizione sciogliendosi in una serie di movimenti tutti economici, tutti volti a porre la macchina biologica nei migliori presupposti per l'azione.
Ma indubitabilmente non era egli una persona socievole: una sorta di disinteresse d'animale allo stabbio lo distoglieva dall’immaginario e irraggiato spazio in cui s’esercitano gli umani consorzi.
Qualcuno aveva detto che in quello la macchina desiderante abbassa il volume di rotazione a nulla più che un mormorio: nel limitarsi al cromatismo delle cose, tralasciare le persone.
Com'era vero, in ispecie dopo le cinque del pomeriggio! Per quanto non proprio sempre; fortunatamente non sempre, fortunosamente non ogni volta volato brache all'aria nel fortunale. Come Münchausen, come Barzamino e magari come il conte Potocki. Rise, approssimandosi al banco, di una simile genealogia.
Vide nel mezzo della parete di bottiglie dietro al barista, il quale lo salutò al suo arrivo chiamandolo per nome, cosa che non mancava di sorprenderlo proprio in ragione di quella ritrosia che aveva da 'nimale da fossa, il poster che riproduceva la famosa fotografia con dentro Yves Klein che a Parigi, fine anni cinquanta, vola in avanti con le ali aperte come l'arcangelo da quella che parrebbe la recinzione di un giardino dei sobborghi.
Un tale, nella foto, mentre Klein è per aria ma già risucchiato dall’inarrestabile gravità (la quale è respinta dai sali d’argento della dagherrotipia ma governa comunque il consesso del reale), passa ignaro in bicicletta dando le spalle all'obiettivo.
Ogni volta si chiedeva egli se quel tale in bicicletta sopraggiungesse per caso nel momento in cui la lastra fotografica s’impressionava, oppure se fosse stato posto là artatamente a comporre nella singole parti, ingrediente tra gli altri ma maggiormente in evidenza, un paesaggio che in ogni caso - accadeva sempre, gli parve - andava verso la riproduzione in vitro dell’intero visibile.
La voltavi gambe all’aria, la sfera opalina della riproduzione in vitro, ed ecco che dentro ci nevicava: una neve fitta di pensiero più di quella che Napoleone vide quando giunse nella città di Mosca.
E infatti il barista, dopo giorni che egli, a seguito del recente trasloco che aveva fatto in quella zona, giunto lì dopo aver traversata la città come il cavaliere del secchio (abbandonare i vecchi lochi d’anni di permanenza con la sensazione, nel passaggio, di essere preso a palle di fanga dalle case, i crocicchi, le porte dei garage), si presentava silenzioso/distratto al banco di mescita per sorbire un caffè e sfogliare per quei cinque minuti il quotidiano sportivo, glielo disse.
Gli disse, anzi gli chiese se non si chiedeva anche lui che fine potesse aver fatto quel tipo strambo del poster. Si sarà rotto i denti? Oppure proprio la testa? si interrogava il buon barista tanto per fare quattro chiacchiere. Egli, un po’ sorpreso, rispose che non era facile dirlo. Probabilmente con un volo del genere ti rompi proprio tutto il viso, il setto nasale, gli zigomi, le ossa facciali assortite insomma.
Neanche negli scontri di strada più violenti che m'è stato dato di vedere, considerò il barista, c'è gente che si rompe tutti gli ossi della faccia.
Egli pensò allora che costui oltre che una persona che amava chiacchierare per ingannare il tempo, il suo mestiere richiedeva pure quella pratica, aveva anche da essere di quelle genia violenta che ha stringhe di caratteri runici tatuati sulla schiena.
Gente con pratica di pestaggi nei parcheggi, bricoleur della tauromachia di testa contro testa o gomiti contro sterni. Chi l'avrebbe mai detto... datosi che gli stava di fronte aveva un aspetto neutro, complessione sorridente. Poi magari è soltanto perché a molte persone piace camminare in limine alle zone più oscure della vita della città, in cui vedono le cose ma non necessariamente vi si immergono.
Da quella volta prese egli l'abitudine di scambiare qualche parola col barista ogniqualvolta gli capitava di passare per un caffè. Così fu che quest'ultimo cominciò a chiamarlo per nome quando entrava, preparargli il solito e cose di questa fatta. Si trattava di quella faccenda chiamata consuetudine. La consuetudine che è un campo arato nel quale i roridi solchi attendono soltanto la semina. In una terra sì accogliente ci si potrebbe anche mettere a balia.
Malgrado questo egli si percepiva riottoso di fronte alla consuetudine d'essere un cliente abituale: la cesura a cui gli accadeva appunto di pensare era quello di aver tirato fuori la testa dall'acque fonde della timidità ma di essere rimasto nel fondo un selvatico, per nulla o quasi socievole.
Di nuovo, e ancora, come prima. Il disagio di fondo, benché lieve, che esalava dal parlare del tempo o della situazione contingente nel mondo, qualche minuto e poi via, nella temperie dell'ordine del giorno.
Il mondo che con le sue chele bordate a seghetto pizzicava l'indignazione di questo libero cittadino, ancorché non incline alla vita di comunità. La realtà prendeva il sopravvento come una violenta flussione, ed egli invece che tirar le fila concettuali della giornata calcistica testé trascorsa, spesso avrebbe voluto rinserrarsi dietro le pagine del giornale e mettere gli occhi in una notizia qualsiasi. In queste pulsioni veramente che animale di fuorivia era…
Insomma si trovava presso il bancone. Il barista lo salutò come sempre, mentre caricava il filtro e metteva la tazza sotto gli ugelli. Ma quando gli si parò di fronte aveva una macchina fotografica nuova fiammante tra le mani - una di quelle fotocamere che buon titolo si possono definire come professionali.
Egli vedendola pensò subito che non si trattava certo di un ordigno adatto ad uno come lui, così somaro di dagherrotipi, uno che se ancora vi fossero le fiere di piazza, sarebbe nel baraccone a sorprendersi davanti alle proiezioni a rovescio della camera obscura.
Poi fuggevolmente gli venne in mente suo padre, che possedeva un curioso apparecchio, nel quale l'obiettivo lo si guardava dall'alto come ponendosi sul bordo di un pozzo che invece di rispecchiarti nelle sue acque risucchiava piuttosto lo sguardo in un sifone sotterraneo e lo gettava altrove, sul davanti delle lenti, fronte il soggetto. Ricordava quella macchina racchiusa in un involucro di cuoio impunturato a forma di scatola, il quale appariva in tutto come una fondina d'ordinanza.
Se a suo padre capitava di mimare il gesto di scattar fotografie, non metteva i due indici cliccanti davanti all'occhio, come di solito si usa fare, ma sporgeva le mani in avanti, all'altezza del petto e abbassava la testa appunto come guardasse verso il basso nel cavedio/obiettivo.
Egli però non raccontò quella cosa al barista, poiché quest'ultimo era tutto preso a dire che aveva proprio voluto levarsi un capriccio, che a lui nel tempo libero piaceva molto inquadrare & scattare e da tanto desiderava mettere assieme un'attrezzatura di buon livello. L'acquisto del ferro (allora parliamo di un'arma! un “in guardia” dell'occhio contro ciò che è visibile) era il primo passo, poi si sarebbe visto.
Disse pure che “gli era partito più di mezzo stipendio” con quell'affare, ma la fotocamera li valeva tutti. Indi si diede a mostrare brevemente, nell'ampio display che stava sul retro del corpo macchina, le varie possibilità di settaggio che quell'ippogrifo tecnologico annetteva a sé. Sullo schermo maschere di configurazione si aprivano l'una nell'altra con una velocità e una molteplicità che parve vertiginosa.
Dopo i primi due passaggi egli già non capiva più nulla, guardava a quelle operazioni come alla prestidigitazione ma veramente senza trucco e senz'inganno cui dà luogo la tecnica quando si situa troppo lontano da noi. Non nel reame dell'artifizio, bensì in quello dell'ingegno dell'uomo che piega la materia alla propria volontà - talvolta belluino quell'ingegno da strappare a brandi il cuore della terra, sia detto.
Dunque il barista adesso era ancora un'altra cosa: non solo colui che mesceva bevande calde e fredde alla gentile clientela, cosa questa che subito la capivi, non fosse altro per la camicia bianca e il grembiale, e neppure colui che aveva pratica di scontri con teste rotte e spargimento di sangue alla partita di hockey su pista; ora il barista era pure un fotografo dilettante che aveva desiderato tanto comprarsi una macchina da professionista alfine coronando il suo sogno. Per 'sto scherzo gli era partito più di mezzo stipendio.
Mentre egli considerava queste cose, le quali, gli era ben noto, pertengono a quel genere di nebulosa che appunto permea il sistema dello stare in società, il barista non tenendo la fotocamera attaccata all'occhio come s'usava ai tempi impressionabili della pellicola, bensì avendola nella mano come un utensile qualsiasi (il ferro!), ma un utensile che catturava immagini rapido e vorace e agile come un gatto, gli scattò una fotografia.
Egli batté gli occhi sorpreso. Oplà. Il barista rise a quella sorpresa, e gli mostrò sullo schermo il suo viso mutatosi nella propria immagine. Dovette egli riscontrarlo, nella luce incerta, bianco e dilavato come cosparso d'una materia cerea. I diverticoli del viso, piuttosto: e l'espressione che aveva gli fece pensare al pesce imprigionato nel tramaglio. Che vi si leggesse… cosa, la non-socialità? La pietra refrattaria di quell’ente intangibile che altri chiama l’anima?
Ha una velocità di scatto incredibile: più analogica che digitale, disse il barista della macchina, sempre tenendogli a vista quella rifrazione elettronica del sembiante, forse oscena, fors’anche violenta.
Certo, senz’altro, rispose con solerzia egli, nel vuoto.
Ma ecco che quel satanasso premette col pollice un punto dello schermo e l'immagine, la luce ch'essa aveva di un Panopticon nel quale tutto è crudamente visibile a ognuno, l'immagine disparve.
Fatto, ti ho cancellato, vedi, fu detto come si fosse trattato della cosa più naturale del mondo (e probabilmente lo era).
Egli guardò il barista senza sapere che dire: si sentiva come quei selvaggi tra i quali le propaggini della cosiddetta civilizzazione irrompono saturando d'improvviso ogni cosa e spaccando la polpa delle percezioni. Aveva letto che essi pensavano che nelle lastre fotografiche dei primi viaggiatori finisse trafugata e inscatolata la loro anima.
Allo stesso modo di quei selvaggi, egli si vide scomparso. La soffice ghiaia della coscienza che si disperdeva come polline alzato dal vento.