ora e sempre, contumacia

Feb 01, 2011 17:04



C'era innanzitutto il fatto che Gli Arrusi, il gruppo più degli altri d’oggettiva emergenza, nel senso che emergevano venendo dunque alla luce dei fosfori, che si distingueva inoltre dalla massa della scena locale e in ragione di ciò era stato inizialmente designato a far da supporto all’unica data cittadina dei riformati [per l'ennesima volta] Inflated God, c'era innanzitutto il fatto che Gli Arrusi s'eran dovuti rendere conto, mercé una scoperta di natura glottologica del loro bassista, ragazzo barbuto dal nome di Simone e cognome Cimatti, che l'espressione “arruso” in certa regione del Meridione stava a significare colui che è sessualmente ambiguo e quindi attratto da quelli del suo stesso genere.

Territorio terminologico ove membro virile chiama membro virile e la pratica d'accoppiamento nella fattispecie, ovvero da bugiaroni, oltre che invasiva nella sua propria idraulica e rammentante forme di dimostrazione coattiva di chi comanda a chi subisce tra galeotti delle colonie penali, in ispecie verso i meno avvezzi alla vita di bugliolo, rappresentava pure a quell’altezza, a quell’oggi sociale una a-malapena sopportata devianza.
A tal proposito il tomista-glossatore fa notare che negli anni bui pratiche del genere avrebbero significato la corda, sebbene molti facoltosi signori oltre che uomini di cultura, fossero riusciti a scapolare le punizioni dopo aver riempito con sonante di carlini le pieghe della nera sottana dei giudici, davanti ai quali dovettero lo stesso comparire, e in ogni caso con gran scandalo, vuoi attivo o passivo.

Insomma, arruso era espressione gergale/regionale che stava per uranista.
Quando il Cimatti comunicò con la dovuta costernazione la cosa ai compagni di (s)ventura, dopo un primo stupore i ragazzi si guardarono in viso incerti sul da farsi. Che ricordassero, nessuno li aveva scherniti fino ad allora “con certi epiteti”.
Che poi, quante volte l'uditorio aveva urlato lor: Arrusi! E loro, chiusi nella morta gora dell'ignoranza filologica proprio non erano in grado d'intendere tutte le implicazioni connesse al calor bianco del signor pubblico.
Uno pensa, sudando nel golfo mistico, nell'ondata di watt che vortica da alfa a omega, il piede puntato sul monitor di palco affinché meglio si abbia modo di spingere di pelvi contro al corpo d’ontano dello strumento elettromusicale - uno pensa in un simile frangente: essi mi incitano; essi sono dalla mia parte [lo pensò anche Chamfort, prima d’aprirsi i popliti con un rasoio].
Mica gli va alla mente a quello ch'essi lo canzonino dandogli del ricchione!

Certo, i concerti degli Arrusi s'erano svolti al massimo nella regione di cattività, ove evidentemente le parole del lontano meridione erano cosa rara finanche tra coloro che, discernendo per portato genetico tra labiali e palatali, avrebbero dovuto conoscerle, cioè i giovani figli compiutamente conurbati di coloro che un tempo migrarono da giù a su stipando le masserizie nei vagoni di terza classe.
Ma probabilmente non era così: con ogni evidenza la successiva generazione certo recava in sé i codici d'appartenenza ma scancellati alla radice. Però chissà... magari qualcuno ne avrà avuto lo stesso contezza, e in ogni caso vallo a capire dove finisce il tifo da stadio e comincia il dileggio.
Ora, grazie alla scoperta casuale del bassista Cimatti, veniva al fuoco della controversia cotesta cosa che praticamente loro, un'accolita di eterosessuali, anzi diciamo tranquillamente dei donnaioli che profittavano per quanto possibile, nella gagliardia dei venti-ventuno anni, della loro condizione di musicisti wave certificati in emergenza cioè emergenti, e con in arsenale il cantante Enzo titolare di notevole impatto sul pubblico femminile oltre che dotato di avvenente fidanzata con papà di professione notaro, nella sostanza si chiamavano Pederasti.
Pedè, bucionici, culatina ed altra terminologia assortita, da cortile busecche e cavoli, a discrezione.
Fortunatamente non a furor di popolo, che a quello, la bassura, dategli piuttosto la carica dei carabinieri a cavallo fuora le sciabole.

Era lecito allora chiedersi, in limine, come s’attorcono tra loro le traiettorie di rock'n'roll e pederastia?
Qualcuno tra i presenti pensò ai vecchi dischi di Jayne County, che prima si chiamava Wayne e poi, cambiato il sesso, appunto Jayne. E quel personaggio lì sul valico veramente de' generi sessuali, di genere musicale invece va detto che suonava propriamente il punk, quello primigenio e un po’ spurio di quando ancora non si sapeva bene quale piega avrebbero preso le cose nello stracco Occidente industrializzato [come sempre andò peggio].

Però quelli che stavano sotto, l’infoiata massa che il borghese chiamava di scalmanati ma che erano invece la linfa vitale di tutti loro Arrusi poiché constante delle genti che gremivano le stie da concerto e inoltre acquistarono fidenti i due quarantacinque giri fin lì editati, peraltro a far giungere il bilancio dell'operazione alla copertura dei costi, cosa questa che molto aveva fatto felici quelli dell'etichetta discografica [nulla di particolare, una cosa piccolissima di volonterosi; un'intrapresa da aeronauti della lavorazione della codifica sonica, xilografata nel soffice vinile quando ancora sfrigolava nella pressa cogente]... capace che l’infoiata massa avrebbe storto la grugna a sentir parlare di transessuali.

Ma insomma Gli Arrusi dove l'avevano preso il loro nome?
E' la stessa domanda che dovrebbe porsi lo studioso di fronte al fatto che un appartato scrittore della provincia ubertosa inserì nel suo racconto più famoso una poesia addirittura in lingua basca. Lingua antichissima, ugro finnica e totalmente sconosciuta da noi, soprattutto in quei tempi d'anteguerra.
Che il regime una siffatta massa consonantica, già di per sé d’inusuale durezza nel paese della merluza al pil pil, non le avrebbe dato il benestare, men che meno le vidimazioni.
Per cui: lo scrittore dov’era andato a rimediarla la poesia in lingua basca?

Allo stesso modo, come successe che quei gran uranisti degli Arrusi decisero di chiamarsi Pederasti, pur avendo appunto deliberato innocentemente di porsi sotto l'usbergo della ragione sociale di Arrusi?
Non se lo ricordavano nemmeno loro - era che magari aggradava la parola, la quale aveva in sé una congiuntura d'angiporto, più nel suono che nella sequenza alfabetica propriamente intesa. E anche una connotazione sessuale, parve, cosa che colse i ragazzi ad un livello men che subacqueo, datosi che la confluenza esisteva davvero, benché da un altro versante, quello pedè, che loro ignoravano totalmente.

Enzo disse: 'a me sembra che quella volta nessuno sapesse cosa voleva dire. Io per primo pensavo che stavamo parlando di una parola inventata'.
'Ma chi l'aveva tirata fuori, allora?'.
'Cazzo c'entra...'.
'E cos'è, se uno dice, però chiaro che io non lo sto dicendo, perché io non sono stato, sappiatelo subito prima di mettere giù storie… se uno dice: è venuto in mente a me quel nome, quella parola. Cioè se uno lo dice, noi che si fa, lo dobbiamo pestare a sangue per una cosa così?'.
‘Scusa, che discorso è? Guarda che qua siamo in quattro. Io non sono stato, Enzo no, Simone boh, tu no'.
'Ma che ne sapevo io di questa storia? Tu non sei stato e invece io sì, dovrei essere io... e chi lo stabilisce?' interloquì Simone già con impeto rubesto.

Le voci di tutti loro si sovrapponevano [tranne quella del suonatore di chitarra, il quale ora taceva], cosicché la situazione stava andando a prendere una piega spiacevole.
Quando fu tornata un po' di calma e mentre ognuno scrutava invelenito l’altro come congiurati a convitto nella medesima segreta - cari miei arrusi, dite all’alcalde vostro chi tra i presenti ha tradito la causa, rivelato i nomi, rivoltato il corbello dell'organizzazione? -, Enzo ancora una volta parlò. Furono quelle parole come l’innesco, bensì benevolo.

'Ragazzi, chiaro che è inutile stare qui a darci addosso dicendoci tra di noi le peggiori cose. A me, se volete saperlo, non me ne frega niente di sapere chi è stato o non è stato. E poi, in ogni caso, chiunque abbia sbagliato qui, ha sbagliato per il bene della nostra causa, cazzo. Una roba così per me ammazza qualsiasi discussione. Ascoltate, l'unica cosa che dobbiamo fare adesso è di trovare un altro nome. Alternative non ne abbiamo - arrusi quello di sicuro non lo siamo [catzo! esclamarono tutti a quella]. All'inizio sarà un casino comunicarlo a tutti, renderci identificabili col nome nuovo eccetera, ma siccome è una cosa che dobbiamo farla per forza, non perdiamo altro tempo e mettiamoci a pensare a qualcosa che può andar bene anche per la nostra immagine. E se comunque il nome è molto buono ma non va bene per l'immagine, cambiamo anche quella. Persa per persa...'.

Enzo era inevitabilmente il leader del gruppo: a fronte di quel discorso, decisamente ragionevole, chi potrebbe negarlo, le fattezze di canidi furiosi che tutti avevano incominciato ad avere fino a pochi momenti prima, subito si distesero.
E senza tante rotatorie di turibolo cominciò allora una lunga discussione nella quale ognuno tirò fuori le proprie ragioni con una foga da far pensare che da qualche parte avessero di colpo liberato le paratie. Il chitarrista sempre per lo più taceva.

Ma quello fu soltanto l’inizio dei lavori. Partiti seriamente, dopo un po', complici alcune lattine di birra che non avendo visto la ghiacciaia uscivano così com'erano dalle confezioni da sei in cartone, e sigarette la cui anima di trincia era stata addizionata dei soliti glutammati, i quattro persero la rotta e cominciarono qua e là a parlar d'altro, a ridere, sputare negli angoli, ad ammazzare formiche contro il battiscopa con le punte degli stivaletti sessanta.
Il batterista Matteo R., che da adolescente aveva studiato in un collegio tenuto da religiosi ma costruito dalle fondamenta per menar dritti i liceali svogliati, disse ad un certo punto che in Irlanda la spessa, pastosa birra locale color della bevanda di chinotto la si beveva praticamente soltanto càuda, cioè il contrario che fredda, o per meglio dire alla temperatura ambiente.

Per aprire le bottiglie, bastava poggiarle sulla mensola del camino, ovviamente quand'era acceso con dentro qualche bel ciocco rossigno di bragia, e i tappi saltavano da sé, insieme ad un poco di spuma che riusciva persino cremosa nella sua compattezza.
Una notazione etnografica, quella della birra, che non raccolse gran consenso, visto il mareggiare di una distrazione erbivora che rischiava di mandar quella riunione a finire nel botro del non luogo a procedere.

Fu a quel punto che Enzo, sempre Enzo, soltanto Enzo si levò faticosamente in piedi dalla vecchia poltrona in cui era sprofondato all'apparenza oblato di sé e disse: 'mi pare che forse... forse m'è venuto in mente il nome che potremmo darci da qui in avanti'.
I convitati com’era prevedibile si riscossero dal torpore, brancicando l'aria in gesti mezzi convulsi mentre cercavano di tirarsi decentemente seduti, mani sotto le sedie alla ricerca di cinturoni e giberne finiti a terra insieme agli alamari nella polvere.
Non che la farragine non li avesse schiantati, poiché quella come altre cose cala dal cielo in forma di folgore, per la quale deficitavano di una prontezza da porre sullo scacchiere, una prontezza che potesse dare adeguata cromatura ad una scena romanzesca nella quale si pervenga ad uno scioglimento, ad un'agnizione che tutto chiuda nel disegno affiorante alfine.

La scrittura può permeare d'irrevocabilità anche un consesso di musi lunghi come questo degli Arrusi, appunto in procinto di cambiare nome.
Ma via la cispa dagli occhi, la catatonìa da fumeria d’oppio!
Tutti ora guardarono Enzo, e Enzo disse: 'io credo che come nome andrebbe bene I Decabristi, cosa ne pensate?'.
'E che roba è?' chiese il bassista Cimatti.

Racconta che in un umido recesso della città che fu capitale dell’impero romano d’Occidente, recesso magari ora bonificato con gran dispiegamento d’idrovora, in ragione del fatto che l’evolvere delle genti esige igiene e salubrità persino tra le dita dei piedi del tessuto urbano, v’era una pietra la quale le antiche storie di sestiere raccontano fosse stata fessa da un colpo di spada.
La pietra in effetti, com’era posta contro un muro papalino così umido all’apparenza da non poter fare a meno di pensare ch’esso avesse avuta funzione di pisciatore, pareva incisa per il lungo come pane da cuocersi.

Ebbene, lo medesima seconda battuta psichica di pietraspaccata si propagò tra gli Arrusi nel sentire quel nuovo nome che avrebbero potuto darsi da lì in avanti.
E dire che nessuno dei componenti il gruppo ne aveva mai sentito parlare, a parte Enzo, è chiaro.
Perché si dava come elemento inoppugnabile il fatto che fosse egli una persona non digiuna di letture, anzi, tutt’altro. Apparteneva infatti a quell’immaginaria consorteria di lettori che i libri li hanno sempre nella tasca del paltò o comunque nel tascapane. Lì al caldo dove i libri trovano l'agio di cagliare come latticello, poi di sfragnarsi novello scamone durante la lunga cottura ne’ fondi, indi volare via progressivamente di pagine nel tumulto della ferrovia locale, ma solo le carte già lette, che alcune già s’erano imbarbarite con grazia di freghi e postille a pennarello che il compulsatore inserì in un’ostinata interlinea.

Era tutto un molcere la carta, giacché un giovane assaltatore [microfono alla mano] di un gruppo rock, come Enzo, vive o dovrebbe vivere, ciò secondo l’iconografia universalmente riconosciuta, in un perenne tumulto dell’intelletto che alla centralina remota mandi segnali su segnali, molti di consuete faccia e ginocchia sporche, ma altri con dentro panoplia di poesia.
Del resto Jimmy Dean quand'era in libera uscita, quindi con quei buffi occhiali dalla montatura di bachelite che non gli vedevi nei film, sorpreso dal fotografo di scena a leggere in un momento di pausa della lavorazione, il libro che aveva in mano lo teneva ripiegato come consultando la cartina toponomastica d'una città sconosciutagli.
In guisa di portolano e con orecchie al bordo che s’arricciola per estrusione. Alla stessa maniera, anche Enzo stava nelle regioni tascabili, agli antipodi dell'in-folio.

E comunque alla fine, stante questo accartocciante polimorfosi di cartoleria, leggendo non si sa quale romanzo di Dostoevskij Enzo era incorso nella parola Decabristi, e come per un particolare istinto, la cui onda lunga solo a tempo debito sarebbe affiorata dalle doline, se l'era praticamente imbertata sotto forma di qualcosa che magari un giorno avrebbe potuto tornar buono.
Certe cose, come dire, le si avvertono in un pizzicore di capillari alle estremità.
Siccome poi egli talvolta mulinava l'idea di darsi a scrivere qualcosa di più ampio dei testi delle canzoni degli Arrusi, magari dei racconti brevi ma anche lunghi sebbene non troppo, ché non ardiva pensare a quella catasta di laterizi che prende il nome di forma romanzo, il termine Decabristi poteva andare a misura per un titolo, o meglio ancora come movente o scaturigine, anche se il contesto storico gli riusciva poco immaginabile.
Per quello s'era anche dato a ricercare relativa voce presso l'atlante enciclopedico, trovandovi non grande riscontro documentario ma insomma.

'I Decabristi erano dei rivoluzionari che volevano fare il colpo, ammazzare lo Zar e al suo posto metterci la repubblica col Parlamento eccetera. All'incirca. Parliamo di una storia dell'inizio dell'Ottocento eh' disse Enzo con semplicità.
Il batterista Matteo R. subito intervenne: 'questa cosa dei rivoluzionari mi piace. Da finocchi a ribelli è un bel salto in avanti... a parte la questione della reputazione'.
Cimatti dal canto suo aggiunse: 'io però lo affermo subito qua, per cui dopo non venitemi a dire che io non l'avevo già sotto-lineata questa cosa'.
E poi tacque.
Gli altri lo guardarono ovviamente.
'Ma è chiaro: finisce che se ci chiamiamo così tutti poi ci vengono a chiedere: ma cosa vuol dire Decabristi? Cioè, quasi tutti, perché ci sarà pure quell'uno per cento che invece fa quest'altra domanda: ma perché proprio i Decabristi e non per esempio i guerriglieri del Salvador?' concluse allora.

Enzo gli batté la mano sulla spalla.
'Hai ragione. Però se è solo questo il problema, noi glielo spieghiamo il perché. Se uno poi, mettiamo che sei tu, si dimentica cosa deve dire, può sempre tenersi un foglietto in tasca per ripassare la lezione. Alla fine, domanda domanda, si stancheranno pure loro, no?' disse.

A questo punto, il chitarrista degli ormai ex-Arrusi, un fanciullo biondo che somigliava ad un famoso mezzofondista di cui momento il nome sfugge, il quale chitarrista pure l'avresti immaginato assai a suo agio con addosso gli stivali di feltro infilati dentro ai pantaloni e la kosovoròtka dall'abbottonatura rettilinea lungo la spalla - il chitarrista, che quasi mai parlava [bere però beveva forte, e fumare anche, ma sempre secondo l'armonia in grigio et in silenzio], disse: 'allora restiamo intesi così?'.
In presenza di un segnale convenuto l'assemblea si sciolse.
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