Mister V. era uomo di vaste, tumultuanti e disordinate letture. Essendo di bassa estrazione sociale, aveva trascorso un’adolescenza ossessionata dalla necessità di possedere libri, ovvero la corrusca e gutenberghiana arma d’incantamento di massa che nella sua percezione di fanciullo semi-obeso della suburra della gargotta del nulla equivaleva al vento biblico che scaccia la tormenta dal mondo et all'interno di lui fanciullo semi-obeso la tenebra dell’ignoranza.
Suo padre di mister V. per mestiere scrocchiava a mano con la chiavarda gli scambi ferroviari. Riposto a fine turno il colossale apriscatole pari a lanza da fera con cui interveniva a disincagliare la linguassa di ferro di tutta quanta la provincia, si recava all’osteria per donarsi a sua volta tutt'intero all’ebrietà dell’alcol.
Una volta enfio fino a qui [fino a qui] del distillato pestifero di buccia di patata, ritornava a casa per pigliare a calci in testa il figlio e la moglie invalida, prima atta a casa, poi appunto colpita dall'emiparesi invalidante che la rincretinì senza remissione.
Si può immaginare quale fosse dunque la situazione in quella casa, due stanze più cucina affacciate sul deposito dei tram, ove il campanello fuori l’uscio faceva ding dong letteralmente ad portam inferi.
Inutile dire che la presenza là dentro di biblioteche del signor padre, il conte navigante l’abisso cavalcioni una botticella di Amontillado, il monarca delle Indie senza fossili nello studiolo, era materia pertinente più alla fantascienza, e di quella bella spinta alla Bustos Domecq, che non alla realtà.
Stanti queste premesse e antropologiche e genetiche, Mister V. era venuto alto dunque nella forma d'una tenace, financo a suo modo commovente, pianta di grataculo, alimentatasi fino a suppurazione del più sterile tritume proletario.
Lo stesso la sua fame di conoscenza era tale che negli anni a seguire, una volta libero del tutto o relativamente dal giogo familiare, s’era dato senza posa a trovar tempi e metodi che soddisfacessero la sua immedicabile istanza.
Aveva egli letto morsicando i libri, comprandoli tot piastre al chilo venduti da genti che liberavano gli scantinati.
Alcune volte addirittura, poiché era moltissimo ristretto quanto a denari, nel senso che proprio non ne aveva, datosi che per il resto prodigo era prodigo, per risolvere a suo modo la transazione dileggiava in maniera assai irritante [specialità sua questa] i proprietari di detti scantinati fino a portarli a un livello tale d’imbestiamento che quelli finivano col tirarglieli dietro, i libri suddetti.
Poi a lui non restava che andare per la strada raccogliendo dietro sé fracassati risguardi o quinterni, divertendosi talvolta, una volta rientrato alla base, ad incollarli mischiando parti di un testo insieme ad un altro in una minestra di nitrocellulosa in cui all'apparenza nulla centrava con nulla... non fosse che appunto il caos in tale maniera funziona, ed il caos, sillogisticamente, alligna dovunque.
Ve n'era una dovizia: patristica in limine al vaudeville, elisabettiani con acmeisti, pasquinate contro canzoni dolenti sopra i costumi della nazione, carmi, pastorali, Arcadia, Accademia degl'Infiammati, Bourbaki.
Testi che frullati dal magistero cartotecnico di mister V. chissà come ogni volta andavano a terminare nell'altra branca letteraria ormai scomparsa ma sempre d'affascinante antiquaria, aliena ai tempi ma rilevata come le vene nelle cosce dei cavalli dipinte dai pittori di scuola ferrarese, branca letteraria che altro non era se non il per nulla trascurabile arcipelago dei bestiari.
Lo stesso mister V., che conosceva, sebbene probabilmente alla lontana, codesta materia di draghi, anfisbene e altra fauna con il sangue invelenito color della melanzana, diceva che quelle cose gli erano nate dapprima come uno di quegli atti di gratuito dadaismo.
Ancorché essi gesti venissero porti al mondo in un'inquinatissima città ove si vulcanizzava la gomma su larga scala e non nella vecchia Europa, il loro potere eversivo mostrava ben presto d'aver poco propellente.
Avesse pisciato nel bidone della birra, allora sì che sarebbe scoppiata la rivoluzione [e lui smembrato in quinti], ma atti altri che presupponessero una qualche seconda battuta psichica, erano vera e propria lettera morta.
Nella sua lurida stanza della cinta erniario-cittadina, mister V. si trovava con quelle frante rilegature in mano da immerso in un silenzio blu screziato talvolta dal ritorno sonico di qualche litigio di gente in istrada; e con la caldaia andata in blocco.
L'oggetto libro violato, in forma scalena perché i quinterni spesso non erano dello stesso formato.
Nella montante frustrazione, giacché il vitalismo che possedeva congenito lo salvava dal sentirsi totalmente disperato, ad un certo punto si mise a leggerli quei libri che aveva creato, e leggendoli scoperse non senza sorpresa che l'assurdità della lingua che vi si determinava, ch'era come carne in cui indiscriminatamente chiazze di cianosi venivano annunciando la morte, era attraversata da folate di parole che andavano a comporre periodi curiosamente atonali.
Essa lingua rispondeva ad intermittenza o sporadicamente alle sollecitazioni, le strisciate cartacee dello strumento di riscontro stavano a dimostrarlo. Invece la frequenza delle accensioni poetiche [da teatro della crudeltà, sia chiaro] aveva aritmeticamente della frenesia.
Cadevano dai nembi frammenti di un canto creato con un'altra tensione modale ma piantati a vivo dentro al rumore bianco.
Ergo, mister V. fu immerso come in uno stato di trance: si mise a precipizio, con la foga che lo contraddistingueva in tutto, a mettere insieme nel caos i libri-bestiario e poi a leggerli e poi nella lettura rinvenire quei barbagli di macchina da cucire sul tavolo operatorio, cioè le frasi, che gli parevano aggregati di carbonio splendenti nella pozza di sterco, oltre che chiavi d'accesso verso altri livelli di coscienza, di poematica.
Non contento, col cartone da imballaggio che facilmente si rimediava nello sversatoio in fondo alla via si mise a fabbricare per questi suoi oggetti di carta delle copertine tutte colorate.
Li (ri)legava e cuciva con cordacci del salame o stringhe da scarpe. Tracciava ne’ solchi aerati ad uso industriale frasi-disegni in copto immaginario, così lo chiamava lui, che prendevano vita unite a macerazioni di colore, in particolare il sangue di bue, che era il preferito da mister V.
Alla fine da queste fabbriceria suburbana cui era stato dato luogo uscivano manufatti che ritrovati in altri tempi, ma con la torta ancora calda uscita dal forno della storia, tenevano dell'art brut e della cartoleria alchemica.
Quella fu in assoluto la prima manifestazione artistica di mister V.: se il Magliabechi fosse stato un raccoglitore di libri d'artista, declinati al fauvismo ma anche alla contumelia dell'idiot savant, non avrebbe senz'altro esitato ad accaparrarsi codesti volumi fuori asse che provenivano dal centro del nulla del continente d'oltremare.
Poiché, come pare abbia scritto anni dopo nel foglietto di presentazione - riportato in fonti più tarde, non riscontrabile in alcun modo l'originale - l'organizzatore della prima uscita pubblica di mister V. come artista e non, com'era stato fino ad allora, rissaiolo di strada: 'questo ragazzo ha visto, anzi ha letto qualcosa di cui noi evidentemente non riuscivamo a renderci conto. Peccato che quel qualcosa sia a noi incomprensibile... a lui non so, domandateglielo!'.