Titolo: Miles away
Rating: PG-13
Genere/Warning: angst
Wordcount: 2070
In cosa questa fic consiste: Sherlock viene chiamato per l'ennesima volta nell'ufficio del preside.
Note: scritto per "altrove" per la terza sfida del Cow-t.
L’ufficio del preside ha lo stesso odore dello studio del dentista, e forse è questo che lo agita più di tutto. In fondo è da quando frequenta la prima elementare che è lì almeno una volta a settimana, ormai dovrebbe essersi abituato, ed invece questo nuovo odore lo destabilizza, cancella tutti i ricordi e ne stabilisce di nuovo ed inquietanti. Strizza gli occhi come se potesse, in questo modo, tenerli lontani da sé. Il preside ha messo le caramelle al mou nella ciotola di vetro sulla sua scrivania, ma non gli piacciono, preferisce quelle alla fragola dell’ultima visita - tredici marzo, e oggi è il quattordici di maggio, un record, è stato bravo per un sacco di tempo - ma forse se ne prende una riesce a distrarsi dall’odore di anestetico e guanti del dentista, l’ultima volta che ci è andato hanno dovuto trascinarlo con la forza, ma non è colpa sua se fa male e gli viene sempre da piangere e urlare, è colpa del dentista che fa un lavoro in cui fa del male ai bambini.
Agita le gambe e odia quanta distanza ci sia tra i suoi piedi e il pavimento, Mycroft riusciva a toccare terra molto prima di lui, detesta essere così piccolo. Non alza mai la testa perché sa che il preside lo sta guardando. Immagina che abbia la testa appoggiata alle mani incrociate, come sempre quando lo guarda. Forse riposa la testa, forse è più facile tenerla dritta. Fare il preside deve portare un sacco di pensieri pesanti. Lui stesso ne ha un sacco ed è solo un bambino di undici anni, essere un preside adulto di cinquantaquattro deve essere davvero faticoso. Fortuna che lui da grande non farà nulla del genere ma il pirata, quello sì che è un gran lavoro, vai per i mari e non devi pensare a nulla se non al tuo pappagallo e alla tua ciurma, perché lui non sarà di certo un comune pirata, ma un capitano, papà è ricco ed influente, quando si farà arruolare per fare il pirata lui metterà una buona parola e Sherlock sarà il più giovane capitano di tutti, perché si arruolerà finite le superiori o forse anche prima, solcherà tutti i mari e gli oceani e anche i fiumi e gli stretti, se vorrà, ruberà un sacco di gioielli che porterà alla mamma e un sacco di chili e chili di tabacco che papà fumerà contento sulla sua poltrona e un sacco di dolci di tutto il mondo per Mycroft, ma solo se lo supplicherà e ammetterà che è lui quello più intelligente della famiglia, anzi di tutti. Sarà il più grande pirata di tutti e finalmente mamma e papà saranno contenti di lui e non si arrabbieranno e sì, fare il pirata è la soluzione migliore di tutte, stare un po’ lontano così da poter fare amare il proprio ricordo. Stare altrove per farsi amare a casa.
“Buongiorno, signora Holmes.”, dice il preside con tono stanco, interrompendogli i pensieri.
La mamma è arrivata e finalmente Sherlock alza la testa per guardarla, ed è sempre la mamma più bella di tutte, anche con le guance rosse di affanno e l’espressione corrucciata. Si è vestita di fretta, non ha neppure coordinato la borsetta alle scarpe - un tacco sottile, rosso, e le mani strette strette attorno ad una pochette marrone -, è un brutto segno perché la mamma fa sempre attenzione al suo aspetto. Sherlock si stringe le mani una con l’altra, contorcendosele in grembo. Non riesce più a tenere alta la testa, forse anche i suoi pensieri si stanno appesantendo come quelli del preside. Forse sta invecchiando velocemente anche lui.
“Cos’ha combinato questa volta?”, domanda la mamma sedendosi. È stanca anche lei, e improvvisamente anche il cuore di Sherlock si fa pesante. D’accordo i pensieri, ma ora anche i battiti del cuore si fanno d’acciaio?
“Ha picchiato due suoi compagni di scuola in cortile perché l’hanno preso in giro per il nome. Ha fatto sanguinare loro il naso a forza di pugni.”
La mamma sospira, forse si copre gli occhi come fa di solito. “Sherlock, è vero?”, gli domanda, e Sherlock la trova una domanda davvero stupida, e glielo dice, è stupida perché se non fosse vero il preside non l’avrebbe chiamata, e le dice anche questo, e poi si rende conto di aver detto tutto e si stringe forte le labbra perché le parole non scappino più. La mamma lo guarda con rimprovero, Sherlock capisce che se potesse punirlo all’istante lo farebbe, e poi qualcosa cambia, nei suoi occhi, e capisce che è stanca, così stanca che non l’ha mai vista.
“Signora, questa è la terza volta che -”
“Lo so perfettamente.”
La voce della mamma è affilatissima, Sherlock sente freddo in mezzo al petto, poi un’ondata di caldo dalla punta dei piedi all’ultimo ricciolo, una vergogna profonda a cui non sa dare nome.
“Sherlock è sempre da me, da quando è entrato in questa scuola, la situazione non è più gestibile per noi. Fa confusione durante le lezioni, non ha rispetto degli insegnanti, si comporta come se avesse cinque anni. Non potrebbe pensare ad uno psicologo, a -”
“Assolutamente no, mio figlio sta benissimo, non è certo colpa sua se i bambini lo provocano. Non ha certo bisogno di andare da un dottore.”
“Signora -”
Sherlock la sente ribollire come acqua calda nella pentola, fra poco fischierà come un treno e poi esploderà. Alza lo sguardo e la mamma si limita a guardare il preside come se volesse trafiggerlo. Ha quasi paura.
“Un’altra parola e lo ritiro da questa scuola, e farò sapere che cercate di insabbiare tutto mandando i vostri alunni da uno strizzacervelli. È solo un bambino vivace e voi non siete in grado di stargli dietro? Non sapete trattare con un bambino di undici anni e io dovrei ancora lasciarvelo? Un’altra possibilità, un’altra sola, signor preside, e poi non vedrete più nemmeno un capello della nostra famiglia. Sherlock, vieni, sei in vacanza per un paio di giorni.”
Acchiappa velocemente la cartella del figlio e poi lo prende per un braccio: forse ha cercato di essere delicata, ma Sherlock sente malissimo, come se volesse strapparlo. Non l’ha mai vista così fuori di sé - lo sgriderà da morire, appena saranno a casa, e poi lo sgriderà il papà, e poi lo sgriderà Mycroft, e anche le maestre e tutti perché a nessuno va mai bene quello che fa, niente di quello che fa è mai la cosa giusta, dai compiti a quando dice la verità su qualcuno a quando racconta quello che ha studiato da solo, invece di lodarlo gli dicono che è strano e che dovrebbe smetterla di mettersi in mostra perché non va bene, non va bene mostrarsi più bravo o intelligente di altri, non va bene essere superbi, non va bene niente.
“Signora!”
“Vaffanculo!”, urla la mamma sbattendo la porta e Sherlock capisce che è la fine perché la mamma non dice mai le parolacce.
“Ecco, vedi, mi fai anche imprecare!”, gli sibila contro mentre percorrono velocissimi i corridoi e le scale, con il viso rosso di rabbia. Passano davanti ai suoi compagni di classe che lo guardano ammutoliti, e se non sapesse il vero motivo crede che ne rimarrebbe lusingato, perché tutti rimangono senza parole davanti alla sua mamma che è sempre bellissima, ma adesso sa che non è per quello e prova un istintivo e profondo senso di vergogna, vorrebbe non aver picchiato nessuno di quei bambini che lo prendevano in giro perché così la mamma non sarebbe stanca e arrabbiata, esausta fino al midollo, e tutti quelli che li stanno guardando non prenderebbero a bisbigliare tra loro - vorrebbe l’udito come quello dei supereroi e sentire cosa dicono, ma c’è qualcosa in fondo allo stomaco che gli dice che non sarebbe contento, che è meglio cullarsi nell’ignoranza - oh, Dio, quanto odia l’ignoranza.
Nella macchina della mamma c’è un buon profumo, dolce, ma in questo momento preferirebbe essere in qualsiasi altro posto, anche lo studio del dentista. Lo fa sedere davanti, si assicura che abbia le cinture ben allacciate, butta la cartella alla rinfusa nei sedili di dietro, mette in moto e Sherlock sente gli occhi pizzicare.
“Mamma, io -”
“Sherlock, non ora.”
Non ora è sempre la sua espressione preferita quando non vuole che Sherlock insista, e di solito non lo fa. Se ne resta seduto aspettando di arrivare a casa, e spera che casa arrivi presto, che si sposti e cammini verso di loro.
A cena nessuno parla, e Sherlock odia questo silenzio. Neppure Mycroft dice una parola, non aggiorna la famiglia riguardo alle possibili università (e Sherlock, almeno di questo, è contento, perché l’idea che Mycroft se ne vada non gli piace, non gli è mai piaciuta e non crede che riuscirà a farsela piacere mai), mangiano tutti come se fosse il loro ultimo pasto; senza un fiato, concentrandosi su ogni boccone. C’è la carne, per cena, e i broccoli, e Sherlock li odia, ma per una volta li butta giù senza fare storie, enormi bocconi senza respirare, stringendo gli occhi come se potesse distrarsi dal loro brutto sapore.
Guarda la mamma che non sembra avere fame, e le chiede se c’è il dolce, dopo. Di solito c’è, un premio se tutte le verdure vengono mangiate, ma visto quello che ha combinato a scuola vuole esserne certo.
“No, Sherlock.”
“Perché?”
“Non l’ho preparato.”
“Come mai? Di tempo ne hai avuto…”
“Lo so, Sherlock, ma non c’è comunque.”
“Perché?”
Non lo ha mai guardato, ha continuato a concentrarsi sul suo piatto. Ha ricominciato a tagliare la carne nel momento in cui Sherlock le ha rivolto la parola. Ma adesso volta la testa per rispondergli, e ha gli occhi rossi e gonfi, la voce appena scheggiata.
“Perché sei in punizione, Sherlock, e non potevo prepararlo neppure per gli altri.”
Il papà apprende la notizia per la prima volta, è chiaro dall’espressione sorpresa che ha. La forchetta rimane in aria, vicino alla bocca, poi l’appoggia al piatto. Aggrotta le sopracciglia e Sherlock sa già che non va bene.
“Perché è in punizione? Che hai combinato stavolta, Sherlock?”
“Niente, io -” prova a mentire, ma non viene ascoltato neppure un attimo.
“Violet, cos’ha combinato tuo figlio questa volta?”
La mamma stringe gli occhi, i pugni in grembo, un labbro tra i denti. “Perché è mio figlio quando fa qualcosa di male, Sieger?”
“Non cambiare argomento.”
“Ha picchiato due compagni di scuola, d’accordo? Lo prendevano in giro e lui li ha picchiati, ti senti più contento, ora che sai cos’ha combinato Sherlock, eh? Non c’è nessun cambiamento, mai, che tu sappia le cose o no, potrebbe anche aver ucciso qualcuno che sarebbe sempre e solo mio figlio, quindi colpa mia, no? Cosa cambia se lo sai o no?”
Mycroft lascia andare le posate con un gran rumore e prende Sherlock per un braccio, trascinandolo in camera. Sherlock vorrebbe restare e proteggere la mamma dalla rabbia di papà, che ha quegli occhi infuriati che gli fanno paura, quelli delle punizioni più terribili e dolorose, ma suo fratello è più forte e fare resistenza è più difficile del previsto.
“Andiamo a giocare, Sherlock? Andiamo a giocare ai pirati.”
“Hai detto che non ti piaceva più.”
“Mi è venuta voglia, non sei contento?”
“No, voglio rimanere, voglio -”, ma gli si rompe la voce, e punta i piedi per terra ma suo fratello lo prende in braccio, gli sussurra che va tutto bene, che adesso giocheranno e passerà tutto. “Giochiamo fino a quando non devi andare a letto.”
“Domani non ho scuola…”
“Ancora meglio.”
L’ultima frase con un senso che sente è “Sono stanca, cazzo, sono stanca!” di sua madre, e non è neppure completa, sente che dovrebbe aggiungere qualcosa ma poi diventa tutto un miscuglio odioso e pungente di urla e strepiti, ed è colpa sua, è sempre colpa sua quando la mamma e il papà litigano, non hanno mai litigato per Mycroft, ne è sicuro, lo sa - perché lui sa tutto ma non è bene mostrarlo, perché poi si è superbi e cattivi.
Mycroft chiude entrambi nella stanza di Sherlock e si mette in ginocchio, tira fuori uno scatolone da sotto il letto e da quello le spade di legno e i cappelli da pirata.
“In guardia!”, grida Mycroft puntandogli la spada contro. È abbastanza bravo in questo gioco.
Sherlock sorride e le urla diventano il sottofondo dell’oceano, e adesso lui è altrove, in un posto in cui tutto quello che fa è bene, ogni suo gesto aiuta lui e la sua ciurma a diventare sempre più forti, in cui la sua intelligenza è l’arma più potente di tutte. Altrove, in un posto in cui sta bene davvero.