[Shame] Love has seen your run-around, who wanna seek you now?

Feb 15, 2020 16:31

Personaggi: Brandon Sullivan/Sissy Sullivan, Thomas Sullivan (OC)
Rating: NSFW
Genere/warning: abuso su minore, incest vario ed eventuale
Wordcount: 5705
In cosa questa fic consiste: brutture varie ed eventuali che girano attorno ai warning sopra.
Note: scritto per il COW-T, M2, Big Brother Instinct

Gli era stato raccontato che Thomas Sullivan incontrò Rosalie Moreau una domenica di marzo, durante una giornata di volontariato alla mensa dei poveri, e che era stato amore a prima vista, come si conveniva ad ogni favola. L'amore coltivato, che cresce come un fiore ostinato, non fa battere i cuori. Si diceva che Thomas l'avesse conquistata con il suo umorismo, i suoi modi di fare dolci nonostante fosse un uomo come si conveniva, virile e sicuro di sé; anche lei era dolce, ovviamente, e remissiva, ma con una sua personalità - non troppo forte, come si conveniva, ma colorata il giusto perché non fosse un gioiello di plastica, buono per andare al mercato. Ed era bellissima, perché cos'altro potevano essere le donne nelle storie? Gli avevano detto cantasse con una dolcezza che vibrava nel cuore dei sordi, rendeva il cielo più chiaro. (Brandon ne ha un ricordo acquerellato, un rivolo di ruscello mentre lo vestiva, granelli di zucchero durante una giornata di neve, e non è sicuro non sia un riverbero di Sissy, lei che si mescola ai suoi ingranaggi come un virus, un terremoto che riscrive la topografia.)
Si erano sposati a fine luglio, sotto un cielo nuvoloso ma che sembrava potesse reggere fino a notte; e invece, poco prima del sì, aveva deciso di rompere la promessa aveva tuonato così forte da far tremare le preghiere. Rosalie aveva riso, e anche Thomas aveva riso, e avevano spostato il ricevimento dal gazebo all'aperto nello stanzone adiacente alla chiesa, grigio e spoglio e comicamente inadatto ad una festa, ma ovviamente era stato tutto perfetto, perché cosa non era perfetto quando c'erano amore e bellezza? Non esistevano soldi o beni materiali che potessero competere - e lo sapevano bene, perché ne avevano pochi; si erano sposati con i vecchi abiti dei genitori, e il ricevimento si era interamente composto della generosità di amici e parrocchiani. Ma avevano riso e avevano ballato e avevano mangiato e bevuto, e avevano giurato di aver avuto abbastanza forza per consumare la prima notte di nozze, quando Rosalie gli aveva offerto con timidezza e riserbo la sua verginità rosa cipria, che lui aveva tenuto tra le mani come un uccellino tremante. Lui l'aveva baciata fino all'alba, tenendola fra le braccia..
(non sono così le prime volte. Le prime volte sono dolore e sangue e urla e una voce maschile che ti graffia lo stomaco e ti implora di fare silenzio, che ti dice che stai esagerando e che ti ama troppo per farti del male, che le tue urla lo stanno ferendo.)

Erano andati a vivere a dieci case di distanza dai genitori di lui, in un appartamento su cui avrebbero dovuto lavorare per anni. Lei era orfana, e originaria della campagna francese; nessuno dei suoi parenti era venuto al matrimonio, forse nessuno lo sapeva. (da bambino gli piaceva immaginare di aver avuto parenti lontani nella guerra d'indipendenza francese, il suo periodo storico preferito, pieno di rabbia e vendetta e giustizia divina rivendicata con gli artigli.) Ma a Rosalie non serviva la vecchia famiglia, in quanto aveva Thomas. Lo ripeteva spesso, quando a lui sembrava che lei fosse sola; non c'erano amiche che venissero a mangiare biscotti da lei, ragazze della sua età con cui scambiarsi piccoli regali pieni di significato, con cui ridere delle piccole idiosincrasie dei rispettivi mariti. Lei affermava che ci fossero, che ne parlava poco perché non voleva annoiarlo, e che non doveva preoccuparsi, allora lui non si preoccupava. Erano felici e tutto andava bene.

Brandon era arrivato alle due di notte precise con una settimana d'anticipo. Era nato in casa, perché la mamma di Thomas aveva voluto così; lei aveva avuto tutti i suoi sette figli in salotto, perché la nuora avrebbe dovuto fare diversamente? Lui era nato nella vasca da bagno, e per tre anni era stato impossibile lavarlo lì, per cui Rosalie aveva dovuto usare una bacinella gialla in cui lui si divertiva molto.
Non si ricorda del momento, ma gli è stato raccontato così tante volte da essersene fabbricato una versione realistica da giostrarsi come vuole; la mamma esausta, in lacrime, rossa e bianca e con la gola spaccata, le sue urla ancora incastrato tra gli arzigogoli della spazzola di Rosalie (l'unico lusso che si era mai permessa, una spazzola antica con l'impugnatura d'argento e rose in rilievo sulla parte anteriore), ma ancora abbastanza forza per stringerlo a sé e piangere ancora più forte, perché il suo primo bambino era un maschietto forte e in salute che a sua volta piangeva così forte da tenere tutti lontani tranne lei. “Ti darà guai, questa creatura,” pareva avesse annunciato la nonna con una smorfia virgolettata agli angoli della bocca, lanciandogli solo un'occhiata rapida, tronfia della sicurezza della sua età. Rosalie non l'aveva ascoltata, e aveva detto sottovoce (questo è sicuro di ricordarselo, ricorda le pause, la punteggiatura) “Brandon, tesoro mio, vivrò per sempre solo per te”. Thomas le aveva baciato le labbra scarlatte e spaccate, nonostante i mariti usassero non trovare più attraente la moglie dopo un parto; lui aveva assistito, ma niente avrebbe mai scalfito il suo amore.

Era stato un infante silenzioso, sospettosamente angelico, e poi un bambino terribile: aveva rotto bicchieri, sedie, le preziose porcellane del matrimonio frutto di una colletta dell'intero villaggio; le aveva lanciate contro il muro perché sua madre non gli aveva preparato un panino col burro d'arachidi e la marmellata, perché la marmellata era finita - ma era un dettaglio che a lui non importava, lui voleva una cosa e sua madre gliela aveva negata perché lo odiava. I suoi sentimenti più forti erano sempre rivolti alla madre, perché lei lo amava con ferocia, con un senso di protezione animalesco. Si era fatta più dolce e fragile, dopo il parto, e per questo ad ogni angolo si nascondevano paure, predatori, spaventi. Uscivano poco, non voleva mandarlo all'asilo. Thomas aveva ceduto, avrebbe avuto tempo alle elementari per andare a scuola, non aveva senso sprecare anche l'infanzia in mezzo alle regole. Passavano la maggior parte del tempo da soli a giocare dentro il salotto, all'ombra del sicomoro sul ciglio della strada. Brandon aveva paura di quell'ombra che si allungava durante il pomeriggio, non comprendeva lo scorrere del tempo e della luce e i tentativi di sua madre di spiegarglieli andavano perduti contro il battito del suo cuore troppo forte, che gli inondava le orecchie. “Mi mangerà!”, strillava quando la punta dei suoi piedi toccava l'ombra, “Se mi avvicinerò troppo si staccherà dal pavimento e mi mangerà! Tu vuoi che mi mangi, mamma? Per questo giochiamo sempre in salotto? Non mi vuoi più, mamma?”, e crollava sul tappeto in una pozza inconsolabile, senza forma, con i contorni che bruciavano, ma con un peso eccessivo per il suo corpo di bambino, e a niente servivano le coccole e i sussurri dolci e le continue rassicurazioni; dopo qualche minuto si calmava, e giocava attorno ai contorni dell'ombra, senza mai guardarla. “Se non la guardo non sa che ci sono, e se non sa che ci sono non mi mangerà,” spiegava con aria saggia, come se il suo cervello si fosse aperto durante la crisi, e sua madre annuiva, sollevata. E il giorno dopo le faceva i disegni, e quello dopo ancora usava, con consapevolezza, l'unico rossetto che si era comprata nell'ultimo anno, perché quello significava una delle sue (rare) uscite fuori da sola, e lui non voleva essere lasciato sollo, perché c'era troppo rumore nel mondo quando era da solo, e in fondo lei cosa faceva là fuori, nel mondo esterno, senza di lui? Che scopo aveva la sua vita se non c'era lui al suo fianco?
E poi c'era il sesso, perché quando mai non c'era stato il sesso nella sua vita? Un bullone nelle ginocchia, edera velenosa artigliata alla sua ugola. Aveva sei anni quando aveva visto sua madre nuda per la prima volta (era sempre stata riservata, con gonne lunghe fino ai piedi anche nelle poche giornate calde di luglio), ma non lo aveva collegato a niente di carnale, fino a quando non aveva ricordato di aver visto i suoi genitori fare sesso nella vasca da bagno, quando pensavano stesse dormendo, quando aveva quattro anni; allora entrava nella vasca carico di una consapevolezza pesante - respiro affannato, occhi liquidi - e rimaneva lì seduto per ore, con le gambe larghe e i pantaloni abbassati, guardandosi fra le cosce, aspettandosi che accadesse qualcosa. Aveva cominciato a strusciarsi sui cuscini in quei minuti che battevano lenti tra quando si svegliava e sua madre veniva a chiamarlo per la colazione. Gli esplodevano le stelle davanti agli occhi e ricercava quel piacere ovunque, ed era deluso quando non poteva trovarlo da nessuna altra parte che non fosse nel suo letto, sotto le coperte. Quando era più piccolo si era strusciato contro la gamba del tavolo, un pomeriggio appiccicoso di fine aprile, mentre la madre dormiva, e quando suo padre lo aveva scoperto, di ritorno dal lavoro prima del previsto, lo aveva sculacciato fino a fargli mancare il respiro; sapeva che non doveva farlo, ma nessuno gli aveva spiegato perché, ed era così piacevole che non capiva perché non doveva farlo. Ma sapeva che doveva vergognarsi, che i bravi bambini non ci pensavano neppure, a trattare così il proprio corpo.
(avrebbe pensato che fosse per quel motivo che gli accadevano quelle cose. Che fosse colpa sua, che in un qualche modo i suoi desideri avessero preso quella forma sbagliata - ma era colpa sua perché li aveva espressi in primo luogo. Era colpa sua perché non riusciva a trovare colpe in nessun altro, e doveva essere responsabilità di qualcuno.)

“Mamma, le fai sempre quelle cose con papà?”
“Quali cose, tesoro?”
Come poteva non sapere di cosa stesse parlando? Era palese. Faceva la finta tonta pensando che lui fosse troppo piccolo e stupido per non capire, e lui odiava gli adulti che si comportavano così. Solo che quella era la sua mamma, per cui era diversa dagli altri adulti. Forse non fingeva. Papà diceva sempre che la mamma era ingenua, una bambina anche lei sotto tanti aspetti. Diede un morso al suo panino col prosciutto, facendo schizzare la maionese ovunque. La mamma ne metteva sempre troppa. Si leccò il braccio, rifiutando il fazzoletto offerto.
“Quelle che servono per fare i bambini.”
“Chi te ne ha parlato, tesoro?”
“Andrew, mi ha detto che i suoi lo fanno tutti i giorni, a volte anche due volte al giorno. La domenica quattro, perché non devono lavorare e sanno che Gesù è contento se fanno le cose per fare i bambini.”
“Brandon, pulcino, non sono cose di cui posso parlare con un bambino della tua età, dovrai aspettare di essere grande.”
“Ma io non voglio aspettare! Le voglio sapere ora! E voglio fare i bambini ora!”, aveva strillato, indignato, e aveva lanciato i resti del panino contro il muro.
“Ma sei un bambino anche tu, tesoro, come -”
“Così potrò avere il mio esercito di bambini e conquistare tutto questo stupido paese!”
La mamma sorrise di quel piano, e lui si offese. Perché non lo prendeva mai sul serio? “Oh, capisco. Mi sembra una buona idea.” Un bacio sulla fronte, due sulle guance. “Ma per quello ti basta avere dei bravi amici. Sono bravi i tuoi amici, Brandon?”
Ma lui voleva fare le cose dei grandi, non voleva parlare dei suoi amici. Ma la mamma era stanca e lui non aveva abbastanza parole per spiegarsi. Le si accoccolò sulle gambe, appoggiando la testa sulla sua spalla. Si fece cullare come un bambino molto più piccolo di quanto fosse. Il sole era rosso, il mondo stanco, la casa stretta attorno a loro.
Quel giorno sua madre rimase incinta la seconda volta.

Sissy nacque a maggio in ritardo, come se avesse già capito che fuori dalla pancia non ci sarebbe stata nessun vera protezione. Brandon aveva deciso di odiarla appena i suoi genitori gli avevano annunciato che sarebbe nata. Non voleva condividere i suoi spazi, i suoi giocattoli, la sua mamma. Aveva pregato intensamente perché morisse nella pancia della mamma, o appena nata.
Era rossa e deforme quando era arrivata a casa, mentre la mamma era pallida, un ricordo di persona. Papà gli disse che era normale, che era stato un parto difficile. Non sapeva cosa volessero dire quelle parole, ma non gli sembravano belle. Strinse le gambe della mamma così forte che per poco Sissy non finì a terra. Peccato, pensò quando la mamma riprese l'equilibrio, avrei voluto vederla a pezzi sul pavimento, col cervello sparso come un piatto di spaghetti.

La mamma morì dieci giorni dopo, dopo aver sofferto come una strega al rogo.
Non c'era nient'altro da dire.
C'erano tante persone, al funerale, ma Brandon non conosceva nessuno. Sissy dormiva nel passeggino, ignara del mondo. Il prete parlò a lungo, suo padre pianse. Venne rimproverato perché non era in grado di piangere. Fissò a lungo la bara, supplicando Dio di aprirla, di farla uscire da lì. Davanti alla fossa desiderò avere la forza per buttarsi con lei, ma il suo corpo non ubbidì. Odiò le propria ossa disubbidienti e cominciò a prendersi a pugni. Suo padre cercò di fermarlo e lo morse, allora intervenne il padre, ma morse anche lui. Non pianse neppure quando la nonna gli diede uno schiaffo, ma smise di picchiarsi. Scappò dal funerale, ma nessuno gli corse dietro. Rimase nell'armadio della mamma fino a quando non tornò il padre, che non andò a cercarlo, perché Sissy stava piangendo e non riusciva a consolarla. Si addormentò avvolto intorno al suo abito da sposa, inalando ricordi non suoi ma che si intrecciarono con maestria dietro le sue palpebre.

Sapeva come andavano questo tipo di storie, lo aveva visto accadere a Richard. Ora il padre avrebbe iniziato a bere, avrebbe iniziato ad essere violento. Avrebbe dovuto proteggere Sissy, ma non lo avrebbe fatto perché sperava morisse. Lui sarebbe scappato, non gli avrebbe permesso di ricoprirlo di lividi. Ogni settimana Richard veniva a scuola con qualcosa di rotto, o un occhio nero, e Brandon provava una pietà che gli faceva male allo stomaco, e non avrebbe permesso a nessuno di provare pietà per lui.
Ma suo padre non si trasformò. Non cominciò a bere, non cominciò ad urlare. Rimase dolce, attento. Portava Sissy con sé in negozio per poterla controllare meglio, portava a Brandon lecca lecca e cioccolatini, i giocattoli che voleva. Era confuso, le storie non andavano così, seguivano un percorso prestabilito, e non era questo.
“Papà?”
“Sì, Brandon?”
“Come fai a volerci bene?”
“In che senso?”
“La mamma non c'è più.”
“E io vi voglio bene il doppio proprio per quello.”
“Perché?”
“Perché mi hanno programmato per questo, Brandon.”
Il papà lo abbracciò, e lui lo lasciò fare senza trovare la forza di restituirlo. Sissy scoppiò a piangere in quel momento, ma il papà rimase con lui qualche secondo in più. Brandon si sentì incredibilmente amato in quel momento, come se tutto fosse ancora normale, come se il mondo stesse girando nel verso giusto, non tremando come una biglia nella tasca di un bambino.

La mamma non aveva vissuto per lui, ma era morta per sua sorella, e per questo lui le odiava entrambe con un sentimento simile alla lava, al fumo del camino, che arriva fino agli occhi e si incastra nelle ciglia. Il dolore lo aveva lasciato intontito, rendendolo immune al mondo esterno. Non sentiva più il suo corpo, i suoi impulsi e i suoi istinti. Rimaneva nel centro del salotto, espanso e senza un centro come un'alga sul fondo marino, incurante dell'ombra del sicomoro. Fissava il soffitto e ricreava il viso della madre sopra quel bianco abbacinante, ma faceva fatica; si rese conto di non averla mai guardata abbastanza. Non ricordava la curva del naso, il colore dei suoi occhi, la curva della mascella. Ricordava che fosse bella, ma era così davvero? O aveva deciso che assomigliasse ad una delle illustrazioni dei suoi libri di fiabe? Ricordava che aveva visto una regina delle nevi e che gli aveva ricordato la mamma (capelli lunghi e biondi, la pelle chiara, una certa idea nel viso che gli aveva fatto decidere che fossero sorelle, quando ancora pensava che le fiabe fossero storie vere che stavano accadendo da qualche parte lontana nel mondo; e la Francia, per lui, equivaleva al regno delle fate), e forse era quella che aveva in mente, non la sua vera madre. Quel pensiero, l'idea di essere un traditore, lo aprì in due, e finalmente scoppiò a piangere, arricciandosi su se stesso come un foglio di carta nel camino, e come tale sperò di bruciare.

Doveva essere colpa sua. Non poteva spiegarselo in altro modo, quindi era colpa sua. I bambini devono trovare risposte chiare e semplici, in rilievo, e non ammettono sfumature, ci sono solo assoluti nel loro mondo. Sua madre era morta, e solo i vecchi muoiono, e lei non era vecchia, e non c'era risposta che riuscisse a trovare da nessuna parte. Non l'aveva uccisa il papà, la sorella era troppo piccola per averlo fatto; questo lasciava solo lui, l'unica persona abbastanza vicina a lei e abbastanza grande per compiere un gesto del genere. Non sapeva come l'aveva fatto, ma non era la prima volta che qualcosa del genere accadeva: non aveva forse rotto quell'orologio a cui la mamma teneva tanto, senza ricordarsi come? Quindi era possibile che fosse colpevole di un omicidio. Avrebbe chiesto scusa tutta la vita e forse, allora, potrà essere perdonato.
Cominciò a strusciarsi furiosamente contro qualsiasi cosa trovasse, appena tornato da scuola, quando la casa era silenziosa e immobile e gli faceva un po' paura. Pensava ai mostri del sicomoro, al male che gli avrebbero fatto se l'avessero preso. Sentiva l'aria sciogliersi attorno a lui, farsi calda e appiccicosa sulla pelle, come vento del deserto. Rimaneva sdraiato sulla pancia per un lungo tempo, minuti che si allungavano e si intrecciavano fra loro come le trecce delle bambine. Pensava alle sue compagne di classe, a quando lo abbracciavano. Pensava a fare bambini con loro, e gemeva come aveva sentito la mamma fare quella volta. Si chiedeva se fosse un prerequisito, se fosse utile; pensava di sì, perché sia la mamma che il papà lo avevano fatto. Qualche volta la mamma si infiltrava in quei pensieri, gocciolando, e allora il tempo si strappava e gli pesava sulle spalle, e lui si nascondeva sotto le coperte, sperando che il fantasma smettesse di tormentarlo.

Aveva nove anni, e Sissy quasi quattro, la prima volta che era accaduto. Una vicina aveva Sissy per la notte, quando Brandon aveva supplicato suo padre di avere una serata solo per loro per guardarsi assieme una partita, mangiare patatine, magari bere birra. Brandon sapeva che suo padre non approvava l'alcool, ma sperava di poterlo convincere a fargliene assaggiare un po'; tutti i suoi compagni avevano bevuto almeno un bicchiere di birra, non voleva essere l'unico escluso assieme a Dominic - Dominic era uno sfigato e lui non voleva rischiare di essere considerato della stessa categoria.
Com'era bello stare a casa senza Sissy, senza strilli e pianti e continue richieste di “Papà, mi leggi una favola?”, “Papà, mi dai una caramella?”, “Papà, guardiamo i cartoni assieme?”, “Papà, mi accompagni in bagno?”. Voleva stare tra grandi, e lui ormai era grande, non era più un bambino. La televisione era accesa e il papà gli aveva messo una mano attorno alle spalle, tenendoselo vicino. Gli piacevano le coccole del padre, che di solito non era un uomo affettuoso, e per questo le accoglieva con una gioia doppia.
“Come va a scuola, tesoro?”
“Tutto bene,” rispose un po' scocciato, perché non era la serata per parlare di scuola. Voleva solo guardare la partita. Chiese il suo bicchiere di birra e, sorprendentemente, suo padre acconsentì. Glielo riempì fino all'orlo, rassicurandosi di fare in fretta a bere la schiuma, che faceva diventare intelligente. Brandon voleva essere intelligente, perché sapeva che era l'unico modo per diventare una persona di successo. Lui voleva in America, dove vivevano le persone ricche, e vivere con suo padre in una di quelle case col giardino e il maggiordomo. Se Sissy fosse stata brava l'avrebbe fatta vivere nella cuccia del cane.
“Aspetta, sei sporco...”
Suo padre lo pulì con la lingua. Brandon si staccò, chiedendogli cosa stesse facendo. Suo padre rispose che non aveva fazzoletti a portata di mano, e riprese a guardare la partita. Gli chiese di tornargli vicino, che si sentiva solo con Brandon dall'altra parte del divano, e Brandon ubbidì.
Suo padre lo baciò di nuovo nei giorni successivi, e mai sulla guancia. Lo toccò sul sedere, e Brandon sentiva caldo tra le gambe e gli veniva voglia di strusciarsi contro i cuscini; scoprì che non era abbastanza, e lo stava facendo impazzire, si sentiva frustrato e stretto nella sua pelle. Suo padre lo scoprì, una domenica mattina prima della messa, ma questa volta non lo sculacciò; lo prese sulle gambe, gli aprì le sue e gli fece vedere come toccarsi come un adulto.
(la prima volta che Sissy lo tocca si trattiene dall'urlare, e si ritrae, sentendo le ossa prima allargarsi e poi stringersi fino a diventare sottili come fili, lasciandolo pieno di sangue. Sissy non parla, ma lo stringe a sé, attenta che il suo corpo non gli dia fastidio. Non lo fa, e Brandon la stringe fino a scordarsi di non essere lei.)
“Ti voglio tanto bene, tesoro,” gli sussurrò suo padre, quando Brandon gli sporcò la mano.
Era giugno, era sabato, Sissy era di nuovo dalla vicina, e la finestra era aperta. Suo padre la chiuse quando entrò in camera. “Fra poco viene freddo, rischi di ammalarti.”
Brandon alzò per un attimo gli occhi dal suo libro, quando suo padre si sedette sul suo letto. Non entrava mai in camera sua, al contrario degli altri genitori. Gli chiese se gli voleva bene e, quando Brandon gli rispose di sì, suo padre gli infilò delicatamente una mano sotto la maglia del pigiama.
“Tua madre mi diceva sempre che eri così curioso di come si fanno i bambini. Ti faccio vedere come si fa, così quando sarai grande saprai come farli.”
“Ma io non posso farli, perché non lo fai vedere a Sissy? Lei è femmina.”
“Sissy è troppo piccola. Sarà il nostro segreto. Non sei contento di avere un segreto con papà? Non puoi dirlo a nessuno, perché è solo nostro. Sarai bravo, Brandon? Un bravo bambino silenzioso che vuole imparare?”
Lui voleva imparare, voleva sapere tutto. Annuì, pensando che suo padre volesse il suo bene, volesse che fosse un bambino istruito.
Ma faceva male, ed ebbe l'istinto di scappare. Suo padre lo tenne sotto di sé, gli mise una mano sulla bocca, mentre aveva rallentato il movimento tra le sue gambe.
“Faccio più piano, Brandon, se non ti dibatti. Stai fermo, stai buono, e andrà tutto bene.”
Brandon chiuse gli occhi, e poco dopo le stelle esplosero dietro le palpebre serrate.

(“Brandon, mi ami?”, gli chiede Sissy sotto le stelle. “Io ti amo come una canzone, che cambia quando non te lo aspetti.”
Brandon le bacia una mano, i denti che tremano per trattenere le parole, pericolose perché scottano come metallo.)

Era dolorante ma felice. Aveva qualcosa che Sissy non aveva, un legame col padre che lei non avrebbe mai posseduto. La guardava con sufficienza, e decise che non valeva la pena di odiarla, perché la sua vita era migliore.
Ma aveva paura e si odiava per questo. Non voleva temere suo padre, non voleva temere quel dolore passeggero e necessario. Si obbligava a stargli vicino, a baciargli le guance quando tornava dal lavoro. Sissy passava la notte dalla vicina una volta al mese.

Sissy lo adorava. Lo seguiva ovunque, voleva sempre fare quello che faceva lui. Una volta si era tagliata da sola i capelli come lui, usando le forbici con la punta arrotondata. Brandon ne era lusingato ed irritato; non voleva che quell'essere fastidioso lo imitasse, ma gli piaceva avere una serva. La mandava sempre in cucina a prendergli la merenda quando era davanti alla televisione, e lei ubbidiva felice, ignara.
Frequentava l'asilo nella stessa scuola di Brandon. Era piena di amici, perché era dolce e generosa. Ma una volta dei bambini più grandi si erano messi a prenderla in giro perché era orfana di madre, e Brandon era stato costretto a mandarli in infermeria col naso rotto. Sissy, al contrario di tutte le altre bambine attorno a loro, era contenta, e alla fine aveva abbracciato il fratello, ringraziandolo spumeggiante di gioia.

Stava giocando con le bambole, seduta per terra con le gambe incrociate. Brandon le si avvicinò e le diede un bacio in testa, come aveva visto fare ai genitori di Margaret.
“Tesoro, sono a casa!”, le annunciò, e Sissy si voltò per abbracciarlo. Era sempre così felice di vederlo.
“Com'è andata a scuola?”
Brandon non le rispose e la baciò sulle labbra, premendo forte la bocca sulla sua. Sissy esclamò un “Oh!” rotondo quando si staccarono, rise. “Perché mi baci?”
“Perché ti amo.”
“Oh! Anche io ti amo!”, e lo baciò di nuovo, e Brandon la fece sdraiare, le mise una mano sotto la maglietta. Sissy si imbronciò, cercò di scacciare le mani. “Cosa stai facendo, Brandon? Lo sai che papà dice di non toccarci mai sotto i vestiti, è peccato, Gesù lo vede e piange.”
“Stiamo facendo un bambino, Gesù è felice se facciamo i bambini.”
“Ma io non voglio fare un bambino, Brandon.”
“Non è una cosa che vuoi, è una cosa che fai e basta quando qualcun altro lo vuole, Sissy.”
Se avessero avuto un esercito di bambini sarebbero potuti scappare. Lui non riusciva ad averne, per cui era rimasta solo lei. Ma Sissy si dibatteva sotto di lui un pesce, non riusciva a toglierle i pantaloni della tuta.
“Stai ferma! Non ti faccio del male, stupida! È una cosa bellissima!”
“No!”, strillò lei isterica, e lui prese la bambola che aveva vicino e la colpì in faccia con quella. Sissy si ruppe completamente, piangendo così tanto da sciogliersi, da fare fatica a respirare; Brandon si mise le mani sulle orecchie, continuando ad urlarle di smetterla, che stava facendo casino per niente, che voleva solo renderla felice, perché le mamme sono sempre felici, e lei si meritava di essere felice, ma se era così stupida da non volerlo essere erano fatti suoi, a lui non importava, poteva anche crepare. La lasciò dov'era, chiudendosi in camera, rabbioso. Perché le femmine non capivano niente? Anche le sue compagne strillavano quando qualcuno cercava di vedere cos'avevano sotto la gonna. Odiava le femmine, non voleva averci niente a che fare.
Fu Sissy ad andare a cercarlo un'ora dopo, quando il padre non era ancora tornato.
“Brandon, scusami, non volevo urlare...”
“Però l'hai fatto, perché sei troppo stupida per capire.”
“Non sono stupida!”
“Certo che sei stupida, fai ancora l'asilo! Chi va all'asilo è stupido! Io infatti non ci sono andato.”
Sissy si mise a tirare su col naso, e Brandon sapeva che avrebbe ricominciato a piangere. La prese per un polso e la trascinò a letto con lui per evitarsi il mal di testa. Sissy si calmò subito e lo riempì di baci.
“Vogliamo fare un bambino adesso?”
“Solo se non strilli come la gallina che sei.”
Sissy si fece una croce sul cuore come gli aveva insegnato il fratello. Brandon le allargò le gambe e ci si posizionò in mezzo. La baciò di nuovo sulla bocca, come faceva suo padre, ma senza lingua. La spogliò, ma non riuscì a toglierle le mutande. Non voleva che Sissy avesse paura di lui e non voleva farle del male. Si rese conto che suo padre non l'amava. Lei lo guardava con occhi grandi e dolci, pieni di amore liquido. Le diede un bacio sull'ombelico, le disse che i bambini si fanno così. “Oh”, disse lei, “quindi devo stare attenta a chi bacio.”
“Molto attenta. Puoi baciare solo me.”
“Perché? E se fai un bambino anche tu?”
“Non posso, cretina, sono un maschio.”
L'aveva rivestita e Sissy l'aveva baciato.

Per un po' avevano smesso, una volta che Brandon si era arrabbiato. Aveva quattordici anni e non voleva più essere toccato in quella maniera. Lo lasciò stare per parecchi mesi, e Brandon era sicuro che sarebbe tutto finito, che fosse ancora in tempo per riconquistarsi una vita normale.
La prima volta che aveva fatto sesso lui aveva dodici anni,; lei era più grande, una sedicenne di cui non ricordava il nome che si era dimostrata distaccata tutto il tempo, quasi non fosse presente, ma a lui non interessava, lui voleva solo ripulire l'atto dal significato che ne aveva dato suo padre. Faceva sesso ogni quanto potesse, con qualunque ragazza aprisse le gambe. Tutti dicevano che era piacevole e lui non avrebbe smesso fino a quando non fosse stato così anche per lui.
Ma una sera - pioveva, e lui era senza ombrello - tornò a casa dopo il lavoro e aveva trovato suo padre dalla porta della camera di Sissy.
“Cosa ci fai lì?”
Lui lo guardò, tenendo una mano sulla maniglia. La pelle di Brandon si alzò di qualche centimetro dal suo corpo. “Stavo pensando che potrei insegnare anche a tua sorella quello che ho insegnato a te. Ha l'età giusta, ormai.”
L'acqua si stava accumulando ai suoi piedi. Suo padre lo guardava dritto negli occhi: gli stava offrendo una via d'uscita. Se lui avesse sacrificato Sissy non gli sarebbe successo più niente. Ma come poteva farlo? Sissy non se lo meritava. Non aveva fatto niente, non era colpevole di un peccato troppo grande perché un corpo umano potesse contenerlo (troppo grande perché una preghiera potesse lavarlo, e per questo aveva permesso a suo padre di toccarlo per così tanto tempo).
“No”, sussurrò.
“No cosa?”
“Non farlo, per favore. Possiamo ricominciare, ma non toccare Sissy.”
Suo padre aveva sorriso, dolce, e l'aveva stretto a sé, baciandogli la fronte. Dietro la porta, Sissy leggeva, ignara, accoccolata contro il suo coniglio di peluche.

Il sesso non era sufficiente, allora cominciò a bere e a fumare, ma anche quello non bastava, allora cominciò ad infilarsi nelle risse, a farsi spaccare le ossa, la testa. Niente era abbastanza e le urla rimanevano incastrate nelle sue vene, perse nelle diramazioni delle sue colpe.

Cominciò a stare fuori di casa più notti possibili, sapendo che ogni notte che passava sotto quel tetto era una possibilità in più per suo padre. Allora Sissy cominciò a stare a casa ad aspettarlo.
Se ne rese conto una notte di febbraio, quando le strade erano scivolose e le ossa indurite. Erano le quattro del mattino, aveva alienato ogni singolo amico che avesse. Aveva diciassette anni e il suo corpo stava per spaccarsi sotto la pressione.
Il salotto era fiocamente illuminato dall'unica lampadina che non si era ancora fulminata; Sissy faceva fatica a tenere gli occhi aperti, ma era forte della propria determinazione. Aveva quasi tredici anni e stava crescendo testarda e volitiva, ma col cuore senza scorza, lasciava che tutti lasciassero il proprio livido sulla superficie. Il suo amore per Brandon era solo cresciuto ogni giorno.
“Ma sei stupida?”, disse, appena entrato, carico di un nervosismo elettrico e acido, “Domani hai scuola, cosa cazzo fai ancora sveglia?”
“Non tornavi,” rispose lei, senza offrire altra spiegazione. Si alzò dal tavolo e gli abbracciò il collo. “Bentornato. Ho fatto i biscotti.”
Brandon la scacciò, irritato dalla sua stupidità. Era una cretina, una sciocca, una gallina senza cervello, a preoccuparsi di lui invece che di se stessa. Non sapeva che doveva andare bene a scuola, così sarebbero scappati assieme? Imbecille.
(pensò a lei, a letto. Pensò al suo affetto, al suo odore, ad un desiderio informe e senza nome che lo riscaldava a partire dai calcagni. Erano anni che non si toccava, ma ci andò estremamente vicino. Si sentì sporco e senza valore.)

Aveva quasi diciotto anni quando suo padre smise di toccarlo. Se ne rese conto un giorno quasi per caso; erano tre mesi che non succedeva niente. Si chiese se finalmente sua madre avesse visto qualcosa e avesse intercesso con Dio a suo nome, ispirando suo padre a smetterla di fargli del male.
Aveva osservato suo padre negli anni, cercando di assumere un punto di vista esterno: un brav'uomo, un onesto lavoratore, generoso durante l'elemosina domenicale, sempre pronto per fare il volontario per qualche opera di bene. Aveva forse, allora mal interpretato i suoi comportamenti? Era la sua natura mostruosa a leggere malizia e dolore nei suoi insegnamenti? Si sentì ingrato, viziato. Aveva un tetto sopra la testa, cibo, affetto. Non c'era niente di male in quello che facevano, era colpa sua che era fatto male e incapace di vedere la verità.

(“Brandon, non era amore. Dimmi che lo sai.”
“Non farmene parlare, non farmi dire niente.”
“Nostro padre non ti amava.”
“Non puoi saperlo, non eri lui.”
“Oh, Brandon. Ti aggiusterò io. Ti amerò così forte che tutti i pezzi torneranno al loro posto.”)

Si svegliò di soprassalto perché Sissy aveva urlato. Si precipitò in camera sua, e lì c'era suo padre, e Sissy sotto di lui, il seno scoperto. Aveva quattordici anni e stava cominciando a sbocciare, delicata come una ninfea. Thomas Sullivan aveva i capelli grigi ma la presa ancora forte, e le stava tenendo un polso.
Il padre sorrise, forse cercò di dire qualcosa, ma dentro Brandon la corrente era saltata; i sentimenti umani erano al buio, cacciati in una riserva, e rimbombava solo il grido di una rabbia animalesca. Velocemente prese le forbici dalla scrivania di Sissy e le affondò nell'occhio del padre una, due, tre volte. Quando si rese conto di quello che aveva fatto, si fermò, il corpo immobile e il cervello tremante. (stava uccidendo il secondo. Come avrebbe potuto chiedere perdono a Dio dopo il secondo?)
Il padre era a terra, sanguinante, rantolante, le parole intrecciate fra loro in frasi bagnate e sconnesse. Sissy, con un lenzuolo sul petto, disse, carica di intenzione:
“Non è stata la prima volta.”
Brandon, allora, lo sfigurò completamente. Gli aprì lo stomaco con un coltello da cucina.

Uscirono di casa senza preoccuparsi di niente. Il loro cervello si era distaccato dal piano in cui viveva il loro corpo. La notte era dolce, l'aria era calda attorno a loro, ma non più immobile; si mise a portare l'odore del sangue per le strade, come monito per i mostri.

film: shame

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