[Original] Sky full of song - capitolo 1

Mar 30, 2020 22:36

Rating: PG13?
Genere/warning: angst
Wordcount: 5000
In cosa questa fic consiste: Medea finisce in ospedale dopo aver assunto 23 pastiglie di Paroxetina nel giro di un'ora.
Note: una roba sulla cui sto ragionando da un pochino, tanto per giocare. COW-T, M5, mentall illness


Comincia all'improvviso come a metà di una pellicola di un film. All'inizio è cosciente, poi non più, poi si ritrova nel mezzo della scena, senza costume e senza copione. È quasi sicura che quella in cui si trova sia una stanza d'ospedale, o perlomeno la versione fiabesca di essa - due letti identici dalle lenzuola bianche e azzurro chiaro, una finestra impossibile da aprire, mura bianche e asettiche con un crocifisso nell'esatto centro del muro, vicino al soffitto - e d'improvviso esce una donna dal bagno, senza vestiti, alta, con le spalle larghe e il sorriso di chi la conosce da sempre.

“Ciao! Io mi chiamo Angela, sono la tua compagna di stanza, ho quarantaquattro anni e ho il vizio di girare nuda per la stanza, spero non sia troppo un problema per te. In fondo sei giovane, no? Quanti anni avrai, ventiquattro? Non parli tanto, vero? Beh, parlerò io per entrambe, d'accordo? Tanto dicono tutti che parlo tantissimo, non sarà un problema.”

Ha lo stomaco sottosopra per via della lavanda gastrica, le fa male solo pensare di alzarsi dal letto, ma non è quello a renderla muta: le parole si stanno accumulando, ma non fuoriescono, come tuffatori sul trampolino bloccati dal tempo. Osserva Angela, appena uscita dalla doccia, coi capelli neri che gocciolano per terra e il seno floscio che non si vergogna di essere mostrato. Medea, quando se ne rende pienamente conto, abbassa lo sguardo, imbarazzata. Sua madre le ha sempre detto di non fissare la gente, e immagina che neppure in questi casi sia educato - peccato non l'abbia preparata ad una convivenza in un ospedale psichiatrico.

“Ti troverai bene qui, si mangia bene,” continua imperterrita mentre si strofina i capelli con l'asciugamano. Medea sente il peso delle risposte come sassi in gola, come macigni attaccati alle giugulare. “La gente è simpatica, ieri abbiamo avuto un TSO ma per il resto tutto bene, forse appunto perché abbiamo avuto il TSO, sai, ha spaccato il muro in sala fumatori, l'hanno già riparato eh, sono bravi qui, io ho già fatto un paio di ricoveri da altre parti, tipo Villa Verde e Villa Serena, non so se li conosci, beh quelli sono postacci, d'accordo? Non andarci mai, mai mai mai, se devi farti ricoverare di nuovo chiedi sempre di venire qui a Villa Azzurra, qui al confronto delle altre è una spa... oh, scusami, non ti ho ancora chiesto come ti chiami?”

Medea apre la bocca ma si rende conto che si è dimenticata il suo nome. Si concentra, ma non le viene in mente. Si chiede se l'abbia mai avuto. È mai stata una persona con un nome?

“Oh, tesoro, deve essere lo shock.”

Si avvicina per abbracciarla e Medea si ritira in se stessa nella sua stretta, antagonista al tocco se non da persone precise. (dov'è Sofia? Perché non è qui lei ad abbracciarla, ad avvolgerla col suo odore di pesca, di fragole di bosco? Com'è sempre buono l'odore di Sofia, sembra una fata dei giardini di Londra)

“Quando starai meglio me lo dirai, d'accordo? Io intanto mi vesto e ti lascio un po' da sola, d'accordo? Sei così carina, ti mangerei.”

La stanza, senza la signora, diventa enorme, acquisisce una dimensione spazio temporale sconosciuta e terribile. Si nasconde sotto le coperte, forse così gli alieni non la troveranno, le lenzuola copriranno il suo odore e la sua aurea.

Come è arrivata lì?

///

(una)

La porta automatica del supermercato fa un rumore strisciante quando si apre, un suono che Medea ha imparato ad odiare, che sovente penetra nei suoi sogni a rovinare quei pochi frammenti piacevoli che rimangono.

“A domani”, ricambia il saluto dei colleghi sottovoce, temendo al contrario di urlare. Sua madre le ha sempre rimproverato di avere sempre la voce troppo alta, fin da quando era piccola, e da allora ci sta sempre attenta. Preferisce passare per il topolino di campagna che per la gallina strozzata; i topolini possono nascondersi tra i fiori, le galline ruzzolano nella polvere.

(due)

Finalmente Firenze si mostra soleggiata, dopo quattro giorni di pioggia intensa; le sembrava di non essere mai tornata da Manchester - una settimana è rimasta e per una settimana ha piovuto, a volte a dirotto e a volte a sprazzi, ma se l'è goduta lo stesso, perché era con Sofia, ormai talmente abituata da avere sempre due ombrelli con sé nel suo gigantesco zaino color ocra. Arndale, Debenhams, la Walker, Chinatown, Waterstones, I buns, i meal deal, il porridge istantaneo alla mela e cannella, le pastries cipolla e formaggio a 40p dopo le sette di sera. Medea ha amato tutto, ma sospetta che la compagnia sia stata decisiva. Garda l'adesivo della loro foto che ha attaccato dietro il cellulare, le loro facce circondate da una cornice di animaletti, come i purikura giapponesi.

(tre, quattro, cinque, giù senz'acqua)

Sofia che è stata così dolce con lei, quasi commovente. Non era così in Italia - non che fosse mai stata cattiva, ma era sbrigativa, brusca, fin troppo decisiva e combattiva, se le cose non andavano come diceva lei allora non andavano bene. Medea non è così, si è sempre adattata alla corrente.

(dieci, quindici, diciotto)

Comincia a sentirsi stanca. Strana. Stralunata. Un sacco di aggettivi con la esse. Sssssstordita. Sssssstonata. Sssssscombussolata. Rincoglionita. Ma questa è senza la s. Rrrrrrrincoglionita. Rotola la r come Sofia. Forse - forse forse forrrrrrse - forse dovrebbe chiamare un'ambulanza. Ci sono le ambulanze a Firenze?

(venti)

Ha preso ventitré pastiglie di Paroxetina, riuscirà a chiamare l'ambulanza? Oh, beh, ci proverà. O morirà provandoci, le opzioni non sono moltissime.

///

Ecco qual è il problema. Ha lasciato che l'inverno si avvicinasse, viscido come un serpente, che arricciasse le sue spire attorno alla gabbia toracica e alle arterie, che non lasciasse più niente al suo interno, che non permettesse che nient'altro si avvicinasse. Alcuni la chiamano depressione - o così dicono i medici - lei la chiama una stagione sfortunata, una successione nevosa di eventi. Niente di cui preoccuparsi, davvero. Le serve solo trovare un fuoco, una sorgente adatta di luce, un calcagno sufficientemente duro per schiacciare la testa del serpente come la statua della Madonna della chiesa del paese.

I dottori in visita (“C'è il giro dei medici il lunedì e il venerdì, ti sei beccata proprio il giorno sfigato, a me non piacciono, fanno domande inutili e superficiali, puoi dire loro che vuoi morire e loro annuirebbero e basta.”) le fanno domande, la pungolano con un bastone dalla punta sfibrata e piena di schegge, ma anche se volesse parlare, le parole sono ancora incastrate in gola. Qualcuno gliele ha rubate tutte e lei non sa che moneta usare per pagarne il riscatto. Arranca su una salita ma ruzzolano giù come ciottoli, non fa in tempo a recuperarle. In bocca ha ancora il sapore del carbone, ed è convinta che se riuscisse a parlare uscirebbero solo bolle nere impossibili da scoppiare, di amianto.

Dov'è Sofia? Hanno sempre condiviso tutto, sin dall'inizio - la prima canna, la prima pasticca, il primo antidepressivo, la prima scopata; Sofia era lì che scopava un altro ma intanto la fissava, non le toglieva gli occhi di dosso, Sofia che è fatta di un amore cosmico ed universale e compatto come una pesca, potrebbe sbucciarla e bagnarsi del suo succo, ma lei rimarrebbe nel suo nocciolo. Dov'è Sofia, allora? È a Manchester, ovviamente, testa di cazzo, dove altro può essere? Cerca di raggiungere il cellulare, ma scopre che anche i pensieri sono neri e pesanti e impossibili da registrare in parole. Sofia, Sofia, Sofia. Perché non riesce a scriverle? Lo vuole così tanto. La vuole così tanto.

///

“Don't go wasting your emotion, lay all your love on me...”

Scoppiano a ridere, stanche ed euforiche dalla giornata. Per la prima volta da giorni Manchester si è presentata soleggiata, un regalo a Medea che è da qua da quattro giorni e se ne andrà fra tre. A terra ci sono buste di Marks & Spencer, Debenhams, Accessorize, Lush, e una di Sainsbury's perché devono pur mangiare, anche se si sono riempite di baguette al salmone nel reparto alimentare di Marks & Spencer - ma tanto sono patatine e pizza rolls e banane, non una cena vera. Sofia ha speso metà del suo stipendio in vestiti che forse metterà forse marciranno nell'armadio fino a quando non andranno più di moda forse finiranno al primo charity sulla strada di casa col cartellino ancora addosso, ma al momento le stavano così bene che Medea l'ha supplicata di comprarli: un cappotto blu come quello di Paddington, una camicia verde scuro con piccoli abeti più scuri, un paio di pantaloni scozzesi blu scuro e rossi, un paio di scarpe rosse col tacco che ha già messo buttando via le vecchie All Stars con cui era entrata, e una gonna gialla ampissima con una scena di anatre che nuotano in un laghetto. Quella finirà nella valigia di Medea, lo sanno entrambe. Medea apre il sacchetto di patatine al formaggio, continuando a cantare. “You're the dancing queen, young and sweet, only seventeen...”, ed è proprio così, solo per oggi hanno diciassette anni e la linea e il mal di stomaco non sono loro problemi, non per stasera. Passa il sacchetto a Sofia, che ci infila la mano di prepotenza e se ne infila una manciata in bocca, ridendo ancora. Sofia è sempre stata elegante e raffinata, vederla in questo stato ha uno strano effetto su Medea. Non saprebbe dire quale, solo strano. Eccitante, in una qualche maniera sottile. Si chiede se uno dei suoi ragazzi l'abbia mai vista così, aperta come una stella marina sul letto a mangiare patatine color arancione fosforescente - pensa a sua madre, quella di lei e quella di Sofia in realtà, al puro shock che causerebbe loro questa scena. Le rimprovererebbero aspramente, ma a loro non importerebbe per niente, perché hanno diciassette anni. Con il portafoglio più leggero e il cuore scalpitante la vita assume un altro significato. E' più eccitante, piena di bollicine che può leccare una ad una. Lo sente nelle vene, che improvvisamente non trasportano più sangue ma succo di frutta, denso e zuccherato, energia al sapore di albicocca. Medea stringe forte la mano di Sofia, la solleva fino alle labbra e posa sul palmo un bacio d'altri tempi; allora Sofia si alza sul letto e le fa una piccola riverenza, alzando la gonna di lato. In un negozio che le verrebbe da definire emporio, un affettuoso termine desueto che incornicia le vaporiere, i calendari, le statuine a forma di cane che le hanno ricordato che nel calendario cinese il 2018 è l'anno del cane - lì ha comprato una lattina di Coca-Cola destinata al mercato danese, che ora, vuota, butta nel cestino, e le è sembrato che in essa fosse contenuto il vero significato della globalizzazione, del melting pot. Aveva un sapore diverso che non le è piaciuto, e un po' la intristisce che abbia lavato via il sapore del pork bun. Ma ne ha comprato un altro dopo, con un custard bun e un peanut butter bun. Le piaceva ripetersi i nomi inglesi in testa, pensarli privi di traduzione come un codice segreto che conosceva solo lei. Se lo avesse detto a Sofia lei l'avrebbe presa in giro per ore, lei che ha ormai smascherato ogni trucco da fiera dell'inglese; Medea lo sa abbastanza per capirlo ma non abbastanza per smettere di considerarla una lingua straniera, coi suoi perché e i suoi ma.

Compila il menu del pranzo e della cena senza sapere di cosa si tratta (pasta al pesto, arrosto di tacchino, fagiolini, le sembrano parole conosciute ma dal significato oscuro, misterioso, la lingua italiana le sembra sia andata persa nei meandri di una caverna a cui non ha accesso) e lo consegna ad un'infermiera che le sorride. Medea cerca di sorridere a sua volta ma le labbra pesano troppo. Dov'è Sofia? Perché non la sente dall'altra parte della Manica? Le migliori amiche non dovrebbero essere telepatiche?

Beve poco, mangia ancora meno, gli infermieri si preoccupano per lei, ma a quale scopo? Perché è qui, in fondo? Per un tentativo andato male. Ma il segreto dell'arte non è provare e riprovare e riprovare fino al successo? Che il suo istinto di sopravvivenza vada a fare in culo, non le è mai servito a niente. Gli infermieri la minacciano di metterla sotto flebo, ma sa che dovrebbero aspettare almeno tre giorni di nulla completo, per cui mangia un biscotto ogni tanto, mezzo piatto di pasta, una bottiglietta d'acqua in una giornata, solo per averla vinta. Sofia è troppo lontana, le loro voci non si incrociano a metà strada, e il solo pensiero è insufficiente.

Angela le fa conoscere Rachele, Santina, Federico - hanno tutti l'età di Angela, sembra, tranne Adelaide che ha poco più di diciotto anni che pesa trentadue chili e vive attaccata alla flebo, e Maria Vittoria che ha trent'anni ma ne dimostra cinquanta, usurata da una vita di cui non vuole mai parlare. Angela è simpatica, anche se le stanze rimbombano della sua voce, cerca di includerla quando giocano a carte, quando guardano la televisione, ma Medea continua a non parlare. È troppo difficile, è pesante, le fanno male i denti e la lingua, i polmoni sono pieni delle parole che vorrebbe dire (rispondere alle battute, raccontarne lei stessa, ha una vaga consapevolezza di essere una persona in grado di fare battute, sotto le ceneri, anche se ogni giorno quel fatto si fa sempre più incerto, come l'onda di un lago, perché le persone parlano, anche i bambini piccoli, perché lei no? A quale strega deve domandare un patto?)

“Sarò il suo psichiatra di riferimento. Mi chiamo Filippo Fabbri.”

La prima cosa che nota del dottor Fabbri è che ha dei bei denti. Lei avrebbe dovuto mettere l'apparecchio, da piccola, ma in casa, come al solito, non c'erano abbastanza soldi, e quindi tende a nasconderli, a tenere una mano davanti alla bocca quando ride. Il dottor Fabbri invece sorride apertamente, cerca di metterla a proprio agio con delicatezza, e questo la infastidisce; avrebbe preferito un uomo dispotico di cui essere apertamente nemica. Poi nota le mani ben curate, le lunette delle unghie; Marilyn Monroe diceva di non fidarsi degli uomini con le lunette, e Medea decide di seguire il suo consiglio. Non le piace questo dottore dall'aria troppo ordinata, troppo affabile perché sia reale. La osserva direttamente, e Medea si sente una bestia allo zoo, un corpo sotto radiografie. Il dottor Fabbri ha gli occhi troppo chiari. Distoglie lo sguardo, si concentra sulle proprie mani. Lei ha le unghie rovinate, invece, e la pelle ruvida. Sua madre le diceva sempre di fare attenzione alle mani, che una donna dovrebbe sempre prendersene cura. Le sfrega una contro l'altra, fanno il suono della carta.

“Come sta oggi, signorina Rinaldi?”

Sente gli occhi pizzicare, lo stomaco restringersi. Perché le ha detto che si chiama Filippo? Non conosce il nome di battesimo della sua psichiatra di fuori. Perché deve sapere il suo? È un'informazione importante? Gliela chiederà alla fine dell'incontro? È un test, forse?

“Gli infermieri mi hanno riferito che non ha molta voglia di parlare.”

Si stringe le braccia attorno al busto, sente il corpo accartocciarsi attorno alle ossa, gli angoli traforare la pelle. Le sembra che il dottor Fabbri sia nella sua stanza da ore, a risucchiare tutto l'ossigeno. Dov'è Angela? Perché non è qui ad attirare il discorso su se stessa? Neanche lei sta bene, ma parla e parla e parla, potrebbe intrattenere il dottore molto meglio di lei.

“Pensa che potrebbe riuscire a scrivermi qualcosa? Ho carta e penna con me.”

Gliele appoggia di fianco, e Medea le osserva per un attimo, dibatte con se stessa. Alla fine mantiene fede alla propria promessa, e si allontana da loro come se fossero infette. Alza gli occhi per un attimo, nota che il dottore ancora sorride. Per un attimo un odio profondissimo la attraversa come uno shock elettrico. Via!, vorrebbe strillare abbastanza forte da ferirsi la gola, Vai via, vattene! Cos'hai da sorridere? Perché mi prendi in giro?

“Come si trova nella nostra struttura?”

Riderebbe, se ne avesse la forza, perché sanno entrambi che è una domanda stupida. Non è lì in vacanza, non sono i suoi quattordici giorni di ferie in un villaggio turistico. Vuole scappare, questo colloquio le fa bruciare gli occhi.

“Ho con me anche dei pastelli. Ho dei pazienti, fuori di qui, che preferiscono parlare disegnando. Pensa che potrebbe essere il suo caso?”

Questo la fa infuriare; l'ha presa per una bambina, per una ritardata mentale? Qual è il senso di tutto ciò?

“Dalla sua cartella leggo di un'incongrua ingestione di psicofarmaci. Fuori la seguiva la dottoressa Vecchi, non è così? Se la sente perlomeno di annuire?”

C'è qualcosa, nel suo tono paziente, che assieme la irrita e la commuove. Produce il più piccolo assenso con la testa, e il dottor Fabbri sorride. Questo la riempie di orgoglio, perché è finalmente stata brava, ha risposto bene al professore.

“Voleva morire?”

Cenno di diniego.

“Purtroppo senza parlare posso fare poco per lei.”

Si tira dritta a sedere, disegna un cerchio con le braccia il più largo possibile, unendo le punte delle dita lontano da sé. Vuoto. Una voragine che richiede un sacrificio umano per essere placata e smettere di eruttare lava e detriti.

“Mi dispiace, signorina Rinaldi, ma non sono mai stato bravo al gioco dei mimi.”

L'ha deluso di nuovo e adesso lo odia di nuovo. I suoi sentimenti sono strettamente legati alla sua approvazione, e se essa manca manca anche tutto il resto. Allora si stringe di nuovo a se stessa, anche le mani si ammutoliscono. Il dottor Fabbri sorride ancora come se andasse tutto bene. Medea si è sempre chiesta come si potesse lavorare in campo psichiatrico, farsi carico di un mondo così assurdo, dai colori così violenti e quei suoni che strappano le orecchie a morsi. Il dottore si alza dalla sedia. È molto più alto di quanto sembrasse.

“Direi che ci vediamo la settimana prossima, allora. Le auguro buona giornata.”

Se ne va e la stanza diventa enorme. Medea si mette sotto le coperte, si stringe le gambe alle ginocchia. Il tempo è troppo lento e pesante.

Aveva pensato più volte di scappare di casa, quando era piccola. Riempire lo zaino dei suoi peluche preferiti, di merendine, qualche soldo rubato dalla borsetta di mamma - cinquantamila, trentamila, ventimila lire accartocciate sul fondo della borsetta rossa, quella che non usava mai, qualche moneta raccolta dietro il divano. Le dà quella sensazione, l'ospedale, quel limbo che pensava sarebbe stato trovarsi per strada, da sola, a otto anni, con la notte che le sussurrava nelle orecchie.

In fondo al corridoio c'è un uomo che urla sempre. Angela lo chiama Il Dottore, dice che sono dieci giorni che sta qui e che nessuno lo è ancora venuto a trovare. Medea si chiede se finirà anche lei così; ci sono giorni che durano eterni, che si trascinano dietro privi di attività e contatti umani, rannicchiata sotto le coperte dentro il letto, dentro il suo nido. Avrebbe il desiderio di chiamare i suoi genitori, ma è solo teorico. Cosa dovrebbe dir loro? Che hanno la conferma di avere sempre avuto una figlia pazza? Sua madre non avrebbe parole di incoraggiamento per lei. Non le manderebbe soldi o vestiti, di cui avrebbe bisogno se Angela non avesse deciso di battezzarla la sorella minore che non ha mai avuto. Suo padre non saprebbe che parole usare, imbarazzato dalla realtà dei fatti come sempre. Ma al quarto giorno scrive a Sofia, le dice che è in ospedale a Firenze, che vorrebbe sentirla, se non è troppo disturbo, per piacere? Ma quando lei la chiama Medea non riesce a rispondere perché ancora non riesce a parlare. Ha fatto le prove allo specchio, Pronto Sofia, sì sto bene, va tutto bene, è stato un momento di défaillance, niente di che, mi riprenderò subito, tu come stai? Non mi hai ancora fatto vedere l'ultimo lavoro, no non ho il pc dietro ma l'avrei visto dal cellulare, ma la gola la tradisce sulla prima P, ci sono rampicanti che le si attorcigliano attorno alle corde vocali che si stanno arrugginendo, ne sente il sapore sulla lingua mentre dorme - ma non riesce a parlare, la mano artigliata è ancorata allo stomaco, le parole non fuggono da lei, non possono. Anche Angela comincia a stufarsi di lei.

Se Sofia fosse qui, pensa con urgenza, gliele prenderebbe con la forza e gliele metterebbe in bocca, lei saprebbe come rompere l'incantesimo, perché Sofia può tutto.

Oggi deve vedere di nuovo il dottor Fabbri e ha mal di stomaco fin da prima di colazione. Non sa cosa dirgli, niente è cambiato dall'ultima volta, se non un vago senso di smarrimento che si è acuito. Non la fanno ancora uscire in cortile se non qualche minuto con un infermiere di fianco. I locali sono troppo bianchi, troppo silenziosi o troppo caotici, e Angela parla così tanto che le vibrano le orecchie. Vorrebbe urlarle addosso fino a farla piangere, fino a ridurla ad una foglia d'autunno, ma dentro di lei tutto è bloccato.

Medea si siede davanti al dottore con fare pesante, le linee dure della sua postura che rendono palese quanto non voglia essere nel suo ufficio.

“Non partecipa ai gruppi, Medea.”

Inspira forte, non lo guarda negli occhi. Non ha mai odiato così tanto una persona - il suo tono di voce, le sue lettere lucide dall'usura. C'è un quadretto di fiori, dietro di lui, un calendario fermo a marzo, un crocifisso che Medea vorrebbe bruciare.

“Sarebbe molto importante che lei si sforzasse.”

Vorrebbe chiedergli perché, a quale scopo, ma la voce è ridotta a sassi, ciottoli che graffiano le corde vocali. Ha le mani raccolte in grembo; spinge le unghie nella carne. Vorrebbe essere capace di spaccarla, di farsi sanguinare. Si chiede se il suo sangue sia ancora rosso, se non si sia tramutato in qualcosa di acido, di velenoso. Se trovassero una marcescenza dentro di lei forse potrebbe spiegarsi tutto.

“Neanche oggi ha voglia di parlare, mi sembra. Gli infermieri mi hanno riferito che non parla nemmeno con loro, o con nessuno degli altri ospiti. Le farebbe bene invece provarci, non credi?”

No, non crede. Crede che invece a lui farebbe bene stare zitto. Tutti dovrebbero imparare a fare silenzio, perché non prendono esempio da lei? Lasciare che i loro pensieri corrano liberi, carnivori, pieni di zanne. Lasciare che essi li uccidano.

Il dottor Fabbri le passa un fascicolo. “Facciamo che ti faccio compilare questo, allora. Giusto per avere una prima impressione, d'accordo?”

Medea prende la penna che le viene offerta, ne mastica il cappuccio. Ci mette venti minuti a rispondere alle prime tre domande, poi lascia tutto il resto vuoto. Restituisce i fogli al dottor Fabbri ed esce.

Sdraiata sul fianco, stava guardando i rami dell'albero fuori dalla finestra (ginkgo, le ha detto un'infermiera, Paola le sembra si chiami) quando sente una voce da dietro - un'infermiera molto più giovane delle altre, per la quale non ha sprecato tempo ad imparare il nome, che sembra sempre al primo giorno di scuola elementare.

“Medea, hai una visita,” le annuncia con una voce troppo squillante, troppo frizzante. Medea non si muove perché chi diavolo può essere? La dottoressa Vecchi? Non crede che nessuno degli inquilini lo sappia, né i colleghi. Le viene in mente che deve avvisare il padrone di casa che forse sarà in ritardo con la sua parte di affitto. Forse la caccerà, perché non è la prima volta che le capita di saltare una mensilità. Ma in questo momento è difficile per lei essere interessata al proprio futuro, per cui caccia il pensiero in fondo alla mente, in quell'angolo polveroso e umido in cui ripone da anni le preoccupazioni pratiche.

“Non mi saluti?”

Il cielo si apre, il sole squarcia le nubi: Sofia! Sofia è tornata da Manchester per lei, solo per lei! Sofia, coi suoi bellissimi capelli neri, così lisci e setosi, e gli occhi così scuri, e l'arco delle labbra a forma di cuore, disegnato. Non è truccata ed è stupenda lo stesso.

Medea si mette dritta sul letto ma, quando sta per appoggiare i piedi a terra per correre ad abbracciarla, si rende conto che ha le gambe troppo pesanti, che tutti i nervi dei piedi sono in fiamme. Allora rimane ferma dov'è, un sorriso le apre il viso come un taglio benevolo.

“Sei fortunata che dovevo tornare in Italia per una cosa della casa. Ho girato tutti gli ospedali psichiatrici di Firenze per riuscire a trovarti. Perché non hai risposto al telefono? Sono in giro da stamattina, tra taxi e autobus.”

Medea si acciglia; non ha ricevuto nessuna chiamata, è sicura di aver chiamato lei? Poi prende il cellulare in mano, ci sono venti chiamate perse. Vorrebbe chiederle scusa, ma le parole tremano ancora, si rifiutano di essere pronunciate. Guarda in basso, piena di vergogna fino all'orlo; l'ha delusa di nuovo con quel gesto, come se non volesse avere niente a che fare con lei. (ripensa alla notte in cui Medea l'ha chiamata, dopo il primo tradimento del ragazzo; ripensa a quando è stata Sofia a chiamarla, disperata, perché tutto il suo lavoro artistico era una merda, perché non riusciva a tirarne fuori niente di buono, e allora Medea aveva preso la moto ed era volata sotto casa sua, e avevano parlato tutta notte, ubriache, e il giorno dopo Sofia aveva tirato fuori una serie che aveva vinto due concorsi; ripensa all'unica volta in cui si sono baciate, Sofia ubriaca ma Medea no, al senso di colpa di essersi approfittata di lei, al sapore esilarante della sua bocca.)

“Perché lo hai fatto?”

La voce di Sofia è aspra, gocce di limone su una cicatrice fresca. Medea non ritrova quella comprensione che sperava, che era sicura che avrebbe trovato in lei. Alza lo sguardo, e gli occhi di Sofia sono pieni di lacrime - ma non sono lacrime liquide, sono di fango, piene di frammenti di frecce, amare come il petrolio.

“Perché lo hai fatto, Medea? Hai rischiato di morire, te ne rendi conto? Tua madre non ha il mio numero inglese, come lo avrei mai potuto sapere? Saresti morta da sola e io l'avrei saputo fra mesi, se mai fossi tornata in Italia in vacanza.”

Tutt'attorno la voce è frastagliata come cocchi di vetro. Medea prova ad alzarsi, ma il corpo trema, è instabile. Sta arrivando una tempesta e lei la sente nelle ossa come le vecchie dei film americani. Qui è dove mi sono rotta il cuore, e ora sento i martelli che si avvicinano.

“Io non ne posso più, Medea. Sei così da - sei così da sempre, da quando ci conosciamo. Com'è possibile che non sia cambiato niente? Ti stai sforzando, cazzo? Un cazzo di minimo di impegno ce lo stai mettendo?”

(“Ho iniziato ad andare dalla psichiatra. Domani è la seconda volta, in realtà.”

Sofia la guarda confusa. “E perché hai aspettato a dirmelo?”

“Non ero sicura l'avresti presa bene, non so perché... sono stupida io, lo so che -”

Sofia l'abbraccia, la stringe così forte che per un attimo pensa che le abbia tagliato il respiro. Si chiede, però, se le siano mai serviti dei polmoni indipendenti da lei. “Sono contenta tu abbia iniziato, finalmente. Voglio sapere tutto, poi. Se ne hai voglia. Ti voglio così bene, non vedo l'ora che tu stia meglio.”)

Medea vorrebbe replicare, vorrebbe difendersi, ma non sa con quale coraggio. Non si è mai impegnata in niente, figurarsi in qualcosa di così fragile e pericolante. Apre la bocca per chiedere scusa, ma non esce niente; solo l'odore della polvere delle biblioteche dimenticate.

“Non ne posso più,” ripete, e Medea sente il cuore farsi piccolo, una caramella senza involucro, “non ce la faccio più. Ma ti meritavi te lo dicessi a voce. Non -” un singhiozzo isterico che scappa dai denti come un palloncino ad un bambino, “non lascio le persone via WhatsApp.”

(“Non penso vorrò mai bene ad una persona come ne voglio a te, Medea.”)

“Sono stufa dei suoi sbalzi, sono stufa delle tue lamentele. E ora questo. Sei troppo per me, io non - ho anche i miei problemi, e tu sei -”

Sofia le ha aperto il torace e le sta spaccando le costole con le fauci. Sta soffiando sul sangue perché cambi corso.

“Basta. Per un po', almeno. Basta così, Medea. Voglio sentirti solo quando starai meglio - ma davvero meglio.”

Se ne va. A Medea manca l'ossigeno, e la stanza le si ingigantisce attorno. Non ha la forza di piangere, di strillare. Sofia se l'è portata via, lasciandola con niente.

Una volta davanti allo studio del dottor Fabbri Medea quasi ci ripensa: con quale parole potrà parlargli? Come può spiegargli a fondo cosa sente? Sono così tanti giorni che non parla, e se si fosse scordata come farlo? E in fondo non è mai stata brava a spiegarsi, la sua bocca l'ha sempre tradita, lasciata con una gomma bucata. Vorrebbe aprirsi e sputare il cuore sulla scrivania, sperando che sia lui a parlare per lei, a trasmettere le immagini giuste, la precisa punta di dolore che, come un punteruolo da ghiaccio, le sta affondando nel capo.

Spera che il pavimento si apra sotto di lei, che la inghiotta e che macini anche il più piccolo ricordo di lei, così che nessuno al mondo sappia che è esistita.

Il dottor Fabbri apre la porta. Sorride ancora una volta.

“La vedo preoccupata.”

“Sofia mi ha lasciata.”

Lo dice tutto d'un fiato, le parole appiccicate l'una all'altra, sorprendendosi che la sua voce non sia cambiata, non odori di ruggine. Le lettere le si tatuano addosso; non potrà lavarle via. Sofia l'ha lasciata per sempre, non tornerà, ed è peggio che se fosse morta all'improvviso come aveva sperato quando scorreva le foto del suo matrimonio. (mi ha lasciata due volte.)

Il dottor Fabbri spalanca la porta. “Entri, parliamone.”

E l'istinto di sopravvivenza che ancora, pigramente, vive in lei la obbliga a camminare per impedirle di uccidersi.

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