Quattro chiacchiere con Iain Chambers.
I lunghi anni di domicilio partenopeo non hanno cancellato il marchio british dal suo accento. Iain Chambers, uno dei più acuti osservatori dei fenomeni culturali post-coloniali, sembra così condensare, nella propria stessa identità, quegli aspetti di ibridazione e ricombinazione che gli incontri tra culture migranti sollecitano, aprendo spazi a nuove possibilità, a nuovi mondi. Lo abbiamo ascoltato a ridosso dei due incontri santamiresi, legati a due momenti diversi della sua ricerca: sulle sottoculture urbane e sugli spazi culturali post-coloniali.
Sintetizziamo il senso di queste ricerche?
«Si tratta di due tappe nel percorso intellettuale della mia formazione. Il primo lavoro che ho svolto, ormai molti anni fa, era sulla musica - il libro Ritmi Urbani, del 1985, da poco riedito - in cui cercavo di fare la storia culturale della musica pop in Inghilterra, dalla metà degli anni Cinquanta fino agli inizi degli anni Ottanta, elaborando l’idea che i suoni non sono solo sintomi, ma segni per sondare, per indagare il modo di pensare la realtà, per riconfigurare la realtà stessa. Era un lavoro collegato a quanto andava svolgendosi nel Centro di Studi Culturali a Birmingham, distintosi nello studio del senso delle sottoculture mass-mediali. Gli stili musicali e di comportamento dei protagonisti di quegli anni - mod, rasta, punk - erano finalmente intesi in un contesto più complesso di identità, di classe, di generazioni».
Il libro che qui presenterà, invece, segue altri interessi.
«Sostanzialmente sviluppa quanto già avviato in Paesaggi migratori. Lì si parlava della centralità dell’immigrazione nella formazione della modernità, dal 1500 ai nostri tempi: le grandi migrazioni, dai milioni di neri deportati nelle Americhe, agli italiani all’estero del secolo scorso, sino agli approdi recenti sulle coste pugliesi dei cosiddetti clandestini. Nel nuovo libro c’è il tentativo di riportare questa storia all’interno dell’Occidente: gli studi post-coloniali, come io li intendo, sono un invito a ripensare tutta la storia della modernità alla luce della storia rimossa dal colonialismo, per rileggere criticamente questa storia e dunque riconfigurare noi stessi, la nostra “casa”, intesa anche come senso dell’identità e del linguaggio, che diventa così più fluido, meno statico, meno incline ai miti fuorvianti della purezza originaria, dell’autenticità incontaminata. Si pensi a quanto accade nella letteratura inglese contemporanea - da Salman Rushdie ad Hanif Kureishi ai nuovi scrittori - non più gestita soltanto da gente nata o radicata nella vecchia Inghilterra: lo spazio linguistico-letterario britannico, in età post-coloniale, è finalmente anche una casa per altre storie, altri linguaggi, altre culture».
Tornando alla sottocultura pop, c’è chi sostiene che tutto si sia esaurito nei primi vent’anni e che ora non si fa altro che replicare stili e stilemi del passato.
«Non penso che ci troviamo di fronte ad una vuota ripetizione di cliché. E’ chiaro che con l’età che avanza il divario tra quello che sta accadendo nell’universo giovanile e quello che io riesco a registrare si amplia. Tuttavia so che la storia della musica, anche popolare, non è mai stata un’evoluzione lineare: in qualche modo la novità emerge anche attraverso la ripetizione. Tornando a Rushdie, lui in Versetti satanici parla di come la novità entra nel mondo: come ripetizione, ricombinazione appunto di quello che è già stato. E’ quello che nell’hip-hop o nella club culture fanno i nuovi deejay: prendendo suggerimenti, ritmi, sampling, suoni già incisi per creare nuove composizioni. Per cui non mi sento di esser duro con ciò che attualmente si produce, non sono tra quelli che sostengono, un po’ nostalgicamente, che tutto è stato fatto tra il 1956 e il 1977. E poi bisogna lasciare spazio a tutti, a chi abita la musica adesso, permettergli di creare un senso».
Quanto è importante l’incontro tra culturale globali e locali nelle sottoculture dell’Italia del Mezzogiorno?
«E’ molto importante: dà l’idea che anche i suoni viaggiano. I suoni metropolitani, i suoni urbani viaggiano nel mondo senza rispettare confini culturali, linguistici, nazionali. Diventa però centrale l’idea di traduzione, in senso profondo, culturale. Uno dei fenomeni importanti nel Sud Italia è l’uso di suoni che hanno origini in Los Angeles o New York, hip-hop, etc., che si trasmutano in suoni locali. Pensiamo a Lecce col Sud Sound System o a Napoli con gli Almamegretta, per fare nomi noti. I suoni dai Caraibi, dagli States, vengono ripetuti, riarticolati, tradotti a contatto con le tradizioni locali. Alla fine è proprio il divario tra la musica metropolitana e le radici folk ad essere messo in discussione, in ambedue i sensi: non solo il suono globale viene rimodulato, ma la stessa tradizione locale, la lingua presunta dei padri, viene sottoposta a una torsione critica. Si crea un “terzo spazio”, una casa nuova, dove sia le tradizioni locali sia i linguaggi globali vengono trasformati in una nuova serie di eventi culturali».