Fluxus-Vita in un pacifico mondo nuovo (1994)
L'Italia non esiste nella geografia del rock. E i primi a dire questo sono i critici italiani, i quali vedono opere influenti e fondamentali per l'evolversi della storia di questo genere in ogni stato di ogni continente, tranne forse il Burkina-Faso e, sicuramente, il nostro stivale.
Questo per due motivi:principalmente il terrore (tipicamente italico) di sembrare provinciali; in secondo luogo, il fatto che la musica rock di casa nostra è stata all'avanguardia e rilevante, al pari di Inghilterra e Stati Uniti, soltanto nell'unica stagione la cui memoria i critici stanno disperatamente cercando di eliminare alla radice: quella del progressive, della quale si ricorda, a mala pena e spesso storcendo la bocca, solo un innegabile capolavoro come l'esordio dei King Crimson. Per il resto quel periodo non è esistito, e così non vengono presi in considerazione opere come "Storia di un minuto" della PFM, oppure "Arbeit macht frei" degli Area, dischi che, in quella stagione, hanno avuto riscontro e peso a livello mondiale e di cui, a prescindere dai gusti, dovremmo andare fieri.
Dura vita, dunque, per i gruppi rock italiani, e sarà così anche negli anni '80:la new wave nostrana sarà stata ritardataria (ma neanche tutta! Come definire i 5 gioielli che un inconsapevole, e strafatto, Vasco Rossi infilerà dal '79- "Non siamo mica gli americani"- all''83- "Bollicine"-?), ma di altissima qualità e, soprattutto, originalità! Mi riferisco, ad esempio, a "Siberia" o "Tre volte lacrime" dei Diaframma, ad "Ortodossia" dei CCCP, e,in particolar modo, ai primi tre dischi di tali Litfiba, che, raffrontati alle oscenità recenti, sono il miglior argomento che io possa trovare a favore dell'eutanasia.
Oggi mi fermo agli anni '90... l'underground esplode anche da noi e centinaia di gruppi raggiungono una maggiore visibilità e, magari, un contratto discografico. Buona parte sono solo robetta derivativa dai fenomeni made in U.S.A. allora imperanti, altri invece risultano molto più interessanti: parlo dei milanesi Ritmo Tribale e Afterhours, dei romani Tiromancino, dei siciliani Flor de Mal, etc... tutte ottime band accomunate, allora, dall'essere trattate come spazzatura dall'ineffabile critica nostrana ("Sono italiani? Fanno rock? Allora copiano i Litfiba", il teorema che veniva applicato costantemente sulle pagine degli osceni "Rock Star" e "Musica" di Repubblica).
Un vero peccato, perchè così vere e proprie perle passarono totalmente inosservate: "Kriminale" dei Ritmo Tribale (1989!!! Onore al merito!), "Revisioni" dei Flor e "Insisto" dei Tiromancino, per fare qualche esempio...
... ma, soprattutto, è un crimine contro l'umanità che si sia totalmente persa memoria di un capolavoro assoluto come "Vita in un pacifico mondo nuovo" dei torinesi Fluxus. Difficile descriverne il suono: per i più colti, potrei dire che i fantasmi che si aggiravano nella New York dei Suicide o nella Cleveland dei Pere Ubu, vennero rievocati, più o meno consapevolmente, nella Torino di 20 anni dopo, da questi sei ragazzi. Per tutti gli altri: un suono urticante, spigoloso, difficilissimo da digerire, privo di ogni benchè minimo orpello accattivante o consolatorio, tanto nella musica quanto nei testi. Alienazione e terrore allo stato puro, che traggono linfa dai meccanismi industriali che schiacciano l'individuo, trasformando la vita in una proiezione, giorno dopo giorno, sempre uguale a se stessa. Inferno da catena di montaggio, insomma, ben rappresenato dal mostruoso muro di distorsioni sollevato dai tre chitarristi Cresto, Novero, Cinotto, scandito dalla sezione ritmica del bassista Luca Pastore (autore di tutto il materiale) e del batterista Roberto Rabellino, narrata dalla bassa, profonda ed implacabile voce- quasi recitante- di Franz Goria (un talento enorme!).
Non c'è un cedimento durante i 9 episodi che compongono l'album, dall'assalto frontale dell'opener "Cosa hai visto fino ad ora" (impreziosito da una struttura che richiama un certo Hard Rock anni '70) al funky incattivito di "Sabbia", dalla furia iconoclasta di "Logica di possesso" (due minuti che lasciano senza fiato) alla lucida, sinistra, beffarda osservazione de "Il tuo nemico". Ma c'è molto di più: la bordata sui nervi di "7/8", la tensione montante di "O.C.", le trame originali e varie di "Vedo" (con un sorprendente assolo arabeggiante). Il capolavoro del disco è comunque la seconda traccia: quella "Pelle" che si struttura in 9 agghiaccianti minuti, dove il trascorrere sempre più veloce del tempo è rappresentato da un costante aumentare del ritmo, fino ad un livello insostenibile, mentre un suono fitto di distorsioni e fruscii avvolge e soffoca, creando una sensazione di claustrofobia, un'angoscia inedita, tragicamente reale.
La prova vocale è straordinaria: ora evocativa e chiara, ora splendidamente confusa con echi e riverberi che danno l'impressione di essere pressati e sparati dentro ad un tubo.
I testi (incredibile!) sono un altro punto di forza: diretti, eppure curati; impegnati, ma non retorici; fortemente disillusi, ma non vittimistici. Certamente un disco non per tutti i palati, ma un capolavoro notato da molte meno persone di quelle che avrebbe meritato.